La prova presuntiva del danno non patrimoniale

23 Gennaio 2018

La prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e, soltanto in seguito, il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l'esistenza o l'inesistenza del fatto primario e rilevante ai fini della decisione.
Premessa

L'art. 2043 c.c. stabilisce, in generale, che qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

Tale disposizione normativa, è stata tradizionalmente intesa nel senso che in tema di responsabilità extracontrattuale l'attore, ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento, deve fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, secondo il noto canone onus probandi incumbit ei qui dicit, correlato all'art. 2697 c.c., e dimostrare l'effettiva entità del danno subito.

Tale regola generale trova applicazione non soltanto in tema di risarcimento del danno patrimoniale ma anche per colui il quale agisca in giudizio richiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale che, pur ormai risarcibile anche oltre i casi previsti dall'art. 2059 c.c., non è mai in re ipsa, ma esige quale danno-conseguenza sempre la prova, che va fornita da parte del danneggiato, delle effettive e concrete ripercussioni che l'illecito ha avuto sulla sua vita personale (App. Milano 14 febbraio 2003, in Giur. Merito, 2003, 1414; conf., tra le molte, Trib. Roma, sez. III, 13 febbraio 2017, n. 2827).

Sul punto, come noto, le Sezioni Unite hanno confermato, con la pronuncia 11 novembre 2008, n. 26972, che il danno non patrimoniale costituisce un danno-conseguenza che deve pertanto essere oggetto di specifica allegazione e prova da parte del danneggiato, il quale, in applicazione della regola generale espressa dall'art. 2697 c.c., ha quindi l'onere di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi posti a fondamento della propria pretesa risarcitoria.

Possibilità di provare il danno mediante presunzioni

Peraltro, nella richiamata pronuncia, le stesse Sezioni Unite hanno precisato che il danneggiato può comunque fornire la dimostrazione del pregiudizio fornendone la prova mediante presunzioni gravi, precise e concordanti ai sensi dell'art. 2729 c.c.

In termini generali, è opportuno ricordare che l'art. 2727 c.c. descrive le presunzioni come «le conseguenze che la legge o il giudice traggono da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, che costituisce il fatto primario controverso da provare in giudizio».

Come rilevato da autorevole dottrina, le presunzioni costituiscono lo strumento probatorio che consente al giudice di pervenire alla conoscenza di un fatto principale o secondario non tramite la diretta dimostrazione dello stesso bensì attraverso un ragionamento logico idoneo a far ritenere sussistente, partendo dalla conoscenza di un fatto noto, l'esistenza di un fatto ignoto in via di ragionevole certezza (Picardi 2013, § 157.1).

Pertanto, la prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e, soltanto in seguito, il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l'esistenza o l'inesistenza del fatto primario e rilevante ai fini della decisione.

Correlazione tra onere della prova presuntiva e gravità del danno

Occorre interrogarsi circa l'influenza, quanto al contenuto concreto della prova per presunzioni del pregiudizio non patrimoniale che deve essere addotta dal danneggiato, della gravità del danno dedotto.

Tenuto conto del consolidato orientamento in forza del quale il giudice può ritenere provato un fatto anche sulla scorta di un unico indizio purché esso sia tale da condurlo ad un ragionevole grado di certezza in ordine alla sussistenza del fatto ignoto da dimostrare (Cass. civ., n. 11117/1996), dall'esame della casistica concreta appare corroborata la tesi, a nostro sommesso parere da preferire, per la quale, tanto più grave è il danno non patrimoniale lamentato (ad esempio, danno da perdita del rapporto parentale), tanto più l'onere probatorio del danneggiato finirà con il coincidere, in sostanza, con l'onere di allegazione di specifici fatti connotanti gli stati di grave sofferenza di regola derivanti dall'evento dedotto.

In tale prospettiva, già prima dell'intervento delle Sezioni Unite, si è ad esempio ritenuto, nella giurisprudenza di merito, che nel caso di morte di un congiunto, il risarcimento delle voci di danno biologico e «non patrimoniale» è condizionato alla prova (da fornirsi da parte del danneggiato) dell'esistenza di una lesione scaturita quale conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.) dalla lesione primaria della posizione soggettiva, fermo restando che: a) la morte di un congiunto conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili; b) tale danno può essere riconosciuto sulla base di elementi indiziari e presuntivi; c) la prova del danno morale per morte del congiunto è data dalla dimostrazione sella sussistenza di rapporti con il defunto normali e non di natura ed intensità eccezionali; d) sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire (v., ad esempio, Trib. Monza 8 maggio 2006, in Giur. Merito, 2007, n. 1, 107).

In tale contesto, potrebbe, per i pregiudizi di maggiore gravità, finire con lo sfumare, sino all'inconsistenza, la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza.

Peraltro, riteniamo che la stessa, seppure appaia estremamente attenuata nell'ipotesi in cui l'evento sia talmente grave da far ritenere secondo massime d'esperienza consolidate il danno dedotto conseguenza normale dell'illecito, permanga ed assuma concreta pregnanza se si pensa alla possibilità per l'altra parte di fornire la prova contraria, possibilità che, se non sussiste nell'ipotesi di danno in re ipsa, permane pienamente nell'altra, essendo consentito dimostrare, ad esempio, a fronte della richiesta di risarcimento dei danni per la perdita del rapporto parentale che per peculiari circostanze i rapporti tra il de cuius ed il danneggiato erano interrotti da tempo o, più semplicemente, la mancanza della dedotta situazione di convivenza al momento del fatto.

Nella pratica la ricostruzione del danno non patrimoniale in termini di danno-conseguenza comporta che debba essere tributata peculiare attenzione onde evitare una confusione tra il fatto notorio e le massime di esperienza (cfr. in arg. Calogero 1937, 15 ss.).

In particolare, invero, il fatto notorio (ovvero rientrante nella comune esperienza) è quello ai fini della dimostrazione del quale non occorre ex art. 115 c.p.c., in deroga ai fondamentali principio dispositivo e principio del contraddittorio, alcuna prova e deve quindi essere inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, con la conseguenza che non rientrano nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che fanno parte della scienza privata del giudice (Cass. civ., n. 1696/2010).

Le massime di esperienza operano, invece, su un piano distinto, in quanto finalizzate a sostenere induttivamente un'argomentazione probatoria, quale la ricostruzione storica ed individuale di un determinato fatto ed il ricorso alle stesse è quindi usuale in tema di prova per presunzioni, essendo detta prova fondata proprio su un ragionamento di tipo inferenziale (Calogero 1937, 106 ss.).

Il sindacato in sede di impugnazione sulla prova presuntiva

Nella più recente giurisprudenza di legittimità sono state svolte, inoltre, non trascurabili precisazioni circa le modalità con le quali la parte interessata è tenuta a contestare la valutazione giudiziale correlata ad una prova per presunzioni.

In particolare, sotto un primo profilo, è stato chiarito che, posto che i limiti oggettivi di ammissibilità della prova per presunzioni sono dettati esclusivamente per la tutela di interessi privatistici e la loro inosservanza deve essere tempestivamente eccepita dalla parte interessata, la violazione commessa solo con la pronuncia della sentenza, nella quale il giudice espliciti il ragionamento presuntivo vietato, deve essere denunciata a pena di decadenza mediante l'impugnazione della stessa (Cass. civ., n. 19485/2017).

Quanto al sindacato che è chiamata a svolgere la S.C., è stato inoltre precisato che, in materia di prova presuntiva, compete alla Corte di cassazione, nell'esercizio della funzione nomofilattica, il controllo che i principi contenuti nell'art. 2729 c.c. siano applicati alla fattispecie concreta al fine della ascrivibilità di questa a quella astratta, evidenziando che, se è vero che è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c. per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tuttavia, tale giudizio non può sottrarsi al controllo in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice si sia limitato a negare valore indiziario a singoli elementi acquisiti in giudizio, senza accertarne l'effettiva rilevanza in una valutazione di sintesi (Cass. civ., n. 10973/2017).

Guida all'approfondimento

ANDRIOLI, Presunzioni (dr. civ. e dr. proc. civ.), in NNDI, XIII, 1966, 766;

CALOGERO, La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova 1937;

PATTI, Presunzioni, in Commentario al codice civile Scialoja e Branca, Roma-Bologna, 2001;

PICARDI, Manuale del processo civile, Milano 2013.

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