I limiti oggettivi della prova testimoniale

31 Gennaio 2018

Il presente contributo analizza i limiti oggettivi della prova testimoniale, muovendo dalle norme di carattere generale per poi procedere all'analisi dell'operatività dei limiti normativi alla prova testimoniale in tema di simulazione.
Il quadro normativo

La prova per testimoni è una delle principali figure di prove costituende (come la confessione giudiziale e il giuramento): essa consiste in una dichiarazione orale resa al giudice da un terzo e contenente la narrazione di fatti rilevanti per il giudizio di cui il teste ha avuto conoscenza diretta o indiretta.

La peculiarità della testimonianza risiede nella sua astratta attendibilità, in quanto proveniente da un soggetto imparziale giacché estraneo all'interesse delle parti in lite.

E tuttavia, in concreto, l'auspicata attendibilità può non essere assoluta per differenti ragioni.

Innanzitutto per la fallibilità della memoria umana. Come è noto, infatti, spesso la prova testimoniale viene raccolta dopo molto tempo dall'accadimento dei fatti su cui il teste deve riferire.

Il rischio che il ricordo del dichiarante sia confuso e poco preciso è, quindi, particolarmente insidioso.

Non è, poi, raro il caso in cui il teste non sia portatore di una indifferenza assoluta rispetto agli interessi delle parti (si pensi alle testimonianze dei parenti nelle cause risarcitorie o, ancora, a quelle dei colleghi dei lavoratori nelle cause di licenziamento).

I predetti intrinseci limiti di attendibilità hanno indotto il legislatore, da un lato a lasciare al giudice ampio margine di libertà di apprezzamento della prova testimoniale (principio del cd. libero convincimento del giudice) e, dall'altro, a prevedere stringenti limiti di ammissibilità, soprattutto quando l'oggetto della prova testimoniale risulti in contrasto con le risultanze documentali acquisite al processo.

Le limitazioni della prova testimoniale sono contenute nel codice civile (artt. 2721 e ss. c.c.).

Dal punto di vista processuale, l'ammissione della testimonianza in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 2721 e 2722 c.c. non può essere rilevata dal giudice, ma occorre un'espressa eccezione di parte da proporsi nella prima istanza o difesa successiva all'eventuale assunzione della prova, atteso che, per costante giurisprudenza, la violazione dei limiti di legge dà luogo ad una nullità relativa, soggetta al regime di cui all'art. 157, comma 2, c.p.c. (cfr., in questo senso, anche da ultimo, Cass. civ., sez. III,ord., 8 giugno 2017, n. 14274).

Diversamente, la violazione dell'ammissione della prova per testi nei casi in cui la forma scritta è prevista ad substantiam è rilevabile d'ufficio, anche in sede di legittimità, poiché il principio è dettato da ragioni di ordine pubblico.

I limiti oggettivi della prova testimoniale

Secondo le disposizioni del codice civile, la prova testimoniale è inammissibile quando verte sul contenuto di contratti per i quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam (ai fini della validità del contratto) o ad probationem (ai fini della prova).

In tali ipotesi, secondo il disposto di cui all'art. 2725 c.c., che richiama il n. 3 dell'art. 2724 c.c., la prova testimoniale è ammessa soltanto quando l'atto sia effettivamente sorto in forma scritta ma la prova scritta risulti impossibile perché il documento è stato incolpevolmente perduto.

In tali ipotesi, quindi, perché la prova per testi circa il contenuto del contratto sia ammissibile, la parte deve dimostrare che il contratto sia venuto ad esistenza in forma scritta e che il documento sia andato perduto per causa a lui non imputabile.

Solo ove dimostrerà tali circostanze, la prova testimoniale sul contenuto del contratto sarà ammissibile.

Diversa è l'ipotesi in cui oggetto della prova testimoniale sia il fatto storico della conclusione di un contratto e non già il suo contenuto.

Ed infatti, «I limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, così come i limiti di valore previsti dall'art. 2721 c.c. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quanto il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l'esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo» (Cass. civ., sez. I, sent., 17 gennaio 2001, n. 566).

Oltre alle predette limitazioni che si giustificano sul piano della forma degli atti ove prescritta dalla legge o voluta dalle parti, il codice civile prevede ulteriori limitazioni all'ammissibilità della prova testimoniale con riferimento alla prova dei contratti, del pagamento e della remissione del debito (per l'assimilazione alla disciplina dei contratti prevista all'art. 2726 c.c.).

a) Limitazione ex art. 2721 c.c.

La prova testimoniale non è ammissibile quando il valore del contratto superi € 2,58. Tuttavia, il giudice, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni circostanza, può consentire la prova orale oltre i limiti anzidetti. Trattasi di un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, o mancato esercizio, è insindacabile in sede di legittimità ove sia congruamente motivato.

La Suprema Corte ha, ad esempio, ritenuto non integrare violazione del primo comma dell'art. 2721 c.c. l'ammissione di prova testimoniale, sebbene il valore dell'oggetto della lite ecceda il limite previsto da tale disposizione, allorché il giudice di merito ritenga verosimile la conclusione orale del contratto, avuto riguardo - ai sensi del secondo comma del medesimo articolo - alla sua natura (nella specie, contratto di mutuo per un importo inferiore a 2.000 euro) e alla qualità delle parti (nella specie, legate da vincolo di parentela) (Cass. civ., sez. VI-III, ord., 7 giugno 2013, n. 14457).

b) Limitazioni ex artt. 2722 e 2723 c.c.

Quando la prova testimoniale abbia ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, il legislatore pone una distinzione a seconda se i patti siano contemporanei o anteriori alla redazione del documento ovvero successivi.

É importante, a proposito delle limitazioni in esame, rammentare che esse riguardano solo i patti aggiunti o contrari ai documenti aventi contenuto convenzionale e non anche gli atti unilaterali non contenenti una convenzione, quali ad esempio le quietanze.

In questo senso «L'espressione documento usata negli artt. 2722 e 2723 c.c. va intesa nel senso di atto scritto avente contenuto convenzionale, con il quale contrasti il patto aggiunto o contrario che si vuole provare con testimoni, con la conseguenza che i limiti alla prova testimoniale stabiliti dalle norme suddette non operano nel caso di quietanze, che sono atti unilaterali non racchiudenti una convenzione» (Cass. civ., sez. I, sent., 8 settembre 1997, n. 8730).

Ciò chiarito, a mente dell'art. 2722 c.c., nel caso di patti aggiunti o contrari contemporanei o precedenti alla redazione del documento la prova testimoniale è inammissibile; mentre, ai sensi dell'art. 2723 c.c., in caso di patto aggiunto o contrario successivo, il giudice, sempre esercitando un potere discrezionale incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ammette la prova per testimoni se, «avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto, e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali».

c) Eccezioni al divieto della prova testimoniale (art. 2724 c.c.)

I limiti sanciti dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. non operano, secondo il disposto di cui all'art. 2724 c.c., quando:

  1. vi sia un principio di prova per iscritto che deve consistere in uno scritto, proveniente dalla persona contro la quale la domanda è diretta, diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono così sovvertire e contenente un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento (in questo senso, Cass. civ., sez. I, sent., 3 giugno 2016, n. 11467);
  2. quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta. Detta impossibilità non è configurabile a fronte della mera astratta posizione di preminenza della persona dalla quale la dichiarazione scritta doveva essere pretesa, o di un vincolo affettivo con la persona stessa, ma non è comunque esigibile l'allegazione di circostanze ostative assolute, sicché tale situazione non può essere negata in presenza di circostanze, anche di dettaglio, particolari o speciali, concorrenti a specificare la situazione di oggettivo impedimento psicologico, dovendosi volgere l'operato del giudice, con specifica sensibilità, alla valutazione delle circostanze allegate, sia in relazione al tipo di rapporto dedotto inter partes, sia alla possibile incidenza di eventi o situazioni particolari. (Cass. civ., sez. I, sent., 7 luglio 2016, n. 13857);
  3. il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. A tal fine non è sufficiente l'allegazione che il documento sia stato affidato a terzi «dovendo risultare, viceversa, in ragione dello sfavore legislativo per la testimonianza su particolari contratti, che il comportamento dell'affidante sia stato adeguato e che l'affidatario sia esente da colpa» (Cass. civ., sez. II, sent., 29 gennaio 2014, n. 1944).
La prova testimoniale della simulazione

Ai sensi dell'art. 1417 c.c., la prova per testimoni [2721 e ss. c.c.] della simulazione è ammissibile senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi e, qualora sia diretta a far valere l'illiceità del contratto dissimulato, anche se è proposta dalle parti.

Salvo le eccezioni di cui all'art. 2724 c.c. di cui si è detto, quindi, alle parti del contratto simulato è precluso il ricorso ai testimoni in quanto la prova della simulazione implica la prova di un documento, di contenuto contrario al contratto simulato, la cui formazione è anteriore o contemporanea a quella dello stesso negozio apparente.

Ed allora, se per il contratto simulato non è prevista la forma scritta ad substantiam o ad probationem,le parti contraenti possono ricorrere alla prova testimoniale nei casi previsti all'art. 2724 c.c..

Ad esempio, in tema di prova della simulazione di un contratto di trasferimento di quote di partecipazione in una società, il quale non richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem, la Suprema Corte ha ribadito che le limitazioni poste, nei rapporti tra le parti contraenti, dall'art. 1417, comma 2, c.c., riguardano soltanto la prova testimoniale (e, correlativamente, quella per presunzioni) ma non l'interrogatorio formale, non essendo prevista per la confessione, che ha carattere di piena prova legale, una disposizione corrispondente a quella della simulazione ed attraverso il cui espletamento può essere utilmente acquisita sia la prova piena della simulazione, in caso di confessione piena e completa, sia un principio di prova, se le risposte sono tali da rendere verosimile la simulazione, sì da rendere ammissibile la prova testimoniale, a norma dell'art. 2724, comma, 1, n. 1, c.c. (Cass. civ., sez. I, sent., 7 luglio 2016, n. 13857).

Ove, di contro, sia prevista la forma scritta ad substantiam o ad probationem, bisogna distinguere a seconda che si tratti di simulazione assoluta o di simulazione relativa.

Nel primo caso, l'accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all'art. 2722 c.c., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, menzionati dall'art. 2725 c.c., avendo natura ricognitiva dell'inesistenza del contratto apparentemente stipulato, sicché la prova testimoniale è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 c.c..

Nel secondo caso, occorre distinguere, in quanto se la domanda è proposta da creditori o da terzi - che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte - la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, essendo diretta a dimostrare l'esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell'ipotesi di cui al n. 3 dell'art. 2724 c.c., cioè quando il contraente ha senza colpa perduto il documento, ovvero quando la prova è diretta a far valere l'illiceità del negozio (Cass. civ., sez. II, sent., 4 maggio 2007, n. 10240).

Le predette limitazioni, come accennato, non operano con riguardo ai terzi o ai creditori di una delle parti che agiscano in giudizio per far valere la simulazione. Per i terzi sarebbe infatti estremamente difficile dare prova della simulazione, dal momento che, proprio in quanto terzi non hanno – secondo l'id quod plerumque accidit – accesso ai documenti contrattuali di altri soggetti. In sostanza, la situazione dei terzi è considerata dal legislatore, a priori e in astratto, particolarmente meritevole di tutela anche sul piano probatorio. Del resto, è proprio attraverso i negozi simulati che, spesso, si realizzano negozi in frode ai creditori (si pensi alle vendite simulate di immobili da parte del debitore che, in tal modo, distoglie il bene dalla espropriazione immobiliare da parte dei creditori).

Con specifico riferimento alla distinzione tra “parte del contratto simulato” e terzo, particolare rilevanza ha avuto, nel tempo, laqualità da riconoscere all'erede che agisca per far valere la simulazione assoluta o relativa di un contratto posto in essere dal de cuius.

Ci si è chiesto, in particolare, se in tali ipotesi l'erede sia da considerare parte del contratto in quanto successore in universum ius del de cuius o terzo.

La questione è stata risolta dalla Suprema Corte nel senso di ritenere che l'erede/legittimario sia terzo rispetto alla simulazione solo allorquando faccia contestualmente valere un proprio diritto, ovvero nel caso in cui contestualmente all'azione di simulazione di un contratto concluso dal de cuius agisca anche con l'azione di reintegra della quota di legittima (cfr. per tutte Cass. civ., sez. II,sent., 22 settembre 2014, n. 19912, secondo cui «L'erede legittimario che chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita fatta dal de cuius, diretta a dissimulare, in realtà, una donazione, agisce per la tutela di un proprio diritto ed è terzo rispetto alle parti contraenti, sicché la prova testimoniale e per presunzioni è ammissibile senza limiti quando, sulla premessa che l'atto simulato comporti una diminuzione della sua quota di riserva, proponga contestualmente all'azione di simulazione una domanda di riduzione della donazione dissimulata, diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell'asse ereditario e che la quota a lui spettante va calcolata tenendo conto del bene stesso»).

Mentre, nel caso in cui l'erede agisca con l'azione di simulazione ai soli fini della collazione (e ciò avviene quando l'impugnazione abbia ad oggetto una vendita simulata del de cuius e venga chiesto che, in conseguenza della pronuncia di simulazione, il bene sia considerato nell'asse ereditario), egli rimane parte del contratto simulato, in quanto esercita, sic, un diritto del de cuius (ovvero quello di impugnare il contratto per farne valere la simulazione) da cui discende la sola ricomposizione dell'asse ereditario (il bene cioè verrà ricompreso nell'asse e diviso tra gli eredi).

Nell'ipotesi dell'azione di riduzione, invece, la ricomposizione dell'asse mediante inclusione del bene oggetto della vendita simulata non è prodromica alla sola divisione tra gli eredi, ma viene considerata ai fini del calcolo della quota di legittima (il bene verrà ricompreso nell'asse e quindi la quota riservata al legittimario aumenterà di valore).

In conclusione

Si è ampiamente visto come diverse siano le limitazioni alla prova testimoniale e si è pure visto come dette stringenti limitazioni si fondano, essenzialmente, sul carattere recessivo del peso probatorio della testimonianza rispetto alla prova documentale.

Ed infatti, anche a voler prescindere dal caso del teste che deponga il falso e a voler valutare i soli casi di testimonianza genuina e in buona fede, occorre necessariamente considerare che la narrazione (del teste) è fisiologicamente (come ogni altra forma di comunicazione) preceduta dalla elaborazione mentale dei fatti ai quali il soggetto ha assistito.

Sicché, ciò che il testimone offre al giudice è una “sua” ricostruzione/rielaborazione seppur in buona fede, degli accadimenti di cui è a conoscenza.

Consapevole di tali intrinseci limiti di attendibilità della testimonianza, il legislatore ha previsto la sostanziale supremazia della prova documentale (di qui le limitazioni di cui agli artt. 2721 e ss. c.c.) e, dal punto di vista processuale, il potere/dovere del giudice di ammonire il teste anche durante l'espletamento della prova rammentando, specie in caso di dichiarazioni contrastanti o lacunose, l'obbligo di dire la verità e le sanzioni penali in caso di falsa testimonianza o reticenza.

Conferma ancora la necessità che la prova testimoniale, anche con riguardo alla sua assunzione, sia accompagnata da adeguate cautele, la soppressione in sede di conversione (l. 10 novembre 2014, n. 162) dell'art. 15, comma 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132 che aveva introdotto l'art. 257-ter c.p.c. il cui testo recitava «La parte può produrre, sui fatti rilevanti ai fini del giudizio, dichiarazioni di terzi, capaci di testimoniare, rilasciate al difensore, che, previa identificazione a norma dell'art. 252, ne attesta l'autenticità. Il difensore avverte il terzo che la dichiarazione può essere utilizzata in giudizio, delle conseguenze di false dichiarazioni e che il giudice può disporre anche d'ufficio che sia chiamato a deporre come testimone».

Tale previsione, a differenza della testimonianza scritta di cui all'art. 257-bis c.p.c., non prevedeva né l'accordo delle parti né alcun vaglio del giudice sulla compatibilità della prova con la natura della causa e la valutazione di ogni altra circostanza né l'ammonimento (anch'esso invece previsto per la testimonianza scritta ex art. 103 disp. att. c.p.c.).

In questo caso, dunque, può affermarsi che, pur a fronte dell'esigenza di predisporre strumenti e meccanismi processuali idonei a limitare la durata del processo ex art. 111 Cost. mediante l'assunzione della prova orale fuori dal processo, ha prevalso comunque la necessità di garantire l'affidabilità e l'attendibilità della prova orale.

Di qui la limitazione normativa alla testimonianza scritta per i soli casi in cui vi sia l'accordo delle parti e il giudice la ritenga compatibile «con la natura della causa e ogni altra circostanza».

Riferimenti
  • Mandrioli, Diritto processuale civile, XVIII edizione;
  • Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, ed. 2016;
  • Commentario breve al codice civile, Padova, ed. 2016.

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