Fondi pensione a ripartizione a prestazioni definite e sussistenza di una posizione individuale dell’iscritto passibile di riscatto e trasferimento
01 Febbraio 2018
Massima
Le riforme in materia di previdenza complementare degli anni 1992-1993 (legge 23 ottobre 1992 n. 421 e d.lgs. 28 aprile 1993 n. 124, poi oggetto di revisione con la legge 23 agosto 2004 n. 243 e il d.lgs. 5 dicembre 2005 n. 252) - introducendo il principio della portabilità (trasferimento e riscatto) della posizione individuale in caso di cessazione dei requisiti di partecipazione a fondo pensione - tenevano conto del fatto che la nuova disciplina avrebbe impattato anche sui fondi preesistenti a ripartizione e prestazioni definite, per cui, non prevedendo un regime apposito, autonomo e derogatorio per tali forme, hanno inteso riferire anche ad esse la enucleabilità di posizioni individuali e la conseguente loro portabilità, come già riconosciuto da Cassazione SU n. 477/2015 a superamento di precedenti contrasti interpretativi.
Nei fondi pensione in parola la “posizione previdenziale” del singolo (in assenza di conti individuali, presenti invece nei nuovi fondi pensione a capitalizzazione e contribuzione definita) sebbene non determinata a priori, è determinabile in applicazione di regole, modelli e tecniche matematici/attuariali. Il caso
La vertenza riguarda un dipendente iscritto a una preesistente forma pensionistica aziendale a prestazioni definite e a ripartizione. Il lavoratore, all'atto della cessazione dal rapporto di lavoro senza aver maturato il trattamento pensionistico, si vede negare il diritto alla portabilità della (affermata) posizione individuale nel fondo, sul presupposto che tale prerogativa (di cui all'art. 10, d.lgs. n. 124/1993) interessa solo gli iscritti a fondi pensione a contribuzione definita e capitalizzazione individuale. A seguito di ricorso giudiziale, dopo alterne decisione nei due gradi di merito, Cassazione n. 28874/2017 risolve la questione in senso favorevole al dipendente, uniformandosi a Cassazione Sezioni Unite n. 477/2015, che aveva svolto al riguardo un ruolo nomofilattico, componendo pregressi contrasti interpretativi fra le varie Sezioni della Corte. La questione
È bene anzitutto premettere, in termini ricognitivi e sintetici, che con il decreto legislativo n. 124/1993 è stato introdotto e disciplinato un modello di previdenza complementare in cui, con riguardo al lavoro dipendente, svolgono un ruolo centrale i fondi pensione negoziali – frutto della contrattazione collettiva e amministrati pariteticamente da rappresentanti delle aziende e dei lavoratori – che devono essere ex lege strutturati quali regimi a contribuzione definita e capitalizzazione individuale.
Tali fondi, sulla base di necessarie convenzioni con i gestori professionali abilitati (art. 6), investono i contributi raccolti (fra i quali il TFR dei lavoratori aderenti) in strumenti (lato sensu) finanziari: le prestazioni pensionistiche corrisposte al momento della maturazione dei requisiti anagrafici e contributivi (corrispondenti grosso modo a quelli per pensione di vecchiaia o pensione anticipata IVS-AGO) sono pertanto una variabile dipendente del quantum di contributi versati (predefiniti) e dell'efficacia/efficienza dell'attività gestionale svolta. I contributi affluiti tempo per tempo e i risultati dell'attività gestoria hanno una “evidenziazione” autonoma per singolo iscritto, che dispone quindi di un proprio conto individuale, sul quale – prima della maturazione della pensione – può anche esercitare i diritti anticipatori previsti dalla menzionata normativa, cioè: diritto a ottenere anticipazioni (analoghe grosso modo a quelle previste per il TFR), diritto al trasferimento del montante ad altro fondo e al suo riscatto (cfr. artt. 7 e 10 d.lgs. n. 124/1993 e, ora, artt. 11 e 14 d.lgs. n. 252/2005).
Il d.lgs. n. 124/1993 (e poi il d.lgs. n. 252/2005) si applica però anche ai fondi pensione già in essere alla sua entrata in vigore, che spesso non rispondevano e non rispondono al richiamato schema; prima della legificazione della materia (cioè prima del 1993), anzi, prevaleva, nel lavoro dipendente, il modello del fondo pensione a prestazioni definite e a ripartizione: in questo caso la contribuzione di finanziamento (di cui si faceva prevalente carico l'azienda) è una variabile dipendente della prestazione “promessa”, il più delle volte determinata in correlazione alla pensione di base per garantire un predeterminato livello di integrazione.
In riferimento a ipotesi ricorrente, il fondo pensione si impegna a assicurare una integrazione all'iscritto che, di fatto, porti la sua complessiva pensione [pensione di base + pensione integrativa] al 85-90% della ultima retribuzione percepita in servizio (secondo una tecnica di calcolo retributiva del trattamento, derivata dal modello imperante nell'Ago sino alla riforma della L. n. 335/1995, in relazione a una pensione obbligatoria attestata nel massimo attorno a un tasso di sostituzione dell'80%). Gli statuti e i regolamenti di tali fondi non contemplano prestazioni anticipate, ma solo i trattamenti pensionistici “finali” erogati (spesso solo) sotto forma di rendita. Anche in ragione della descritta connotazione, le forme pensionistiche in parola sono improntate al criterio della capitalizzazione collettiva e della ripartizione (utilizzo dei contributi per erogare le pensioni): mancano per regola conti individuali degli iscritti e la gestione richiede di avvalersi delle competenze di attuari, i quali – tenendo complessivamente conto degli afflussi contributivi, dei rendimenti degli investimenti effettuati, dei livelli delle prestazioni promesse, delle clausole di reversibilità in essere, degli assetti della popolazione del fondo (rapporto attivi/pensionati), delle tavole di sopravvivenza, ecc. – devono tempo per tempo verificare lo stato di equilibrio attuariale del fondo e, se del caso, la necessità di ricorrere a specifici correttivi (es. contributi aggiuntivi straordinari).
Ciò evidenziato, l'art. 18 era la norma del d.lgs. n. 124/1993 (ora è l'art. 20 d.lgs. n. 252/2005 e il decreto ministeriale n. 62/2007 di attuazione) appositamente “dedicata” ai fondi preesistenti. Essa indicava, fra l'altro, le norme del decreto non applicabili (o transitoriamente non applicabili) ai fondi preesistenti. Sebbene l'art. 18 non sancisse la inapplicabilità ai fondi preesistenti delle regole sulla portabilità della posizione si era ritenuto, anche in dottrina (e da parte dell'autorità di vigilanza sui fondi), che le deroghe contemplate in tale norma non fossero tassative ma se ne potessero ricavare altre sulla base di un esame complessivo e alla luce di verifiche di compatibilità. In tal senso la riferibilità del principio di portabilità ai fondi preesistenti si è ritenuto andasse appurata caso per caso sulla base di un giudizio complessivo che tenesse conto anche della compatibilità.
Anche un diffuso filone di giurisprudenza di legittimità condivise tali argomentazioni, sino alle SU n. 477 cit. che invece hanno spostato l'ago della bilancia in favore della tesi giusta la quale la portabilità non ammette deroghe neppure nei casi di fondi con un Dna così lontano da quello del modello intorno a cui è nata la nuova previdenza complementare (come visto, fondo a contribuzione definita e capitalizzazione individuale). Le soluzioni giuridiche
L'impostazione delle SU n. 477/2015 è stata fatta propria anche dalla Cassazione in commento che recepisce le argomentazioni rivenienti dalla precedente giurisprudenza di legittimità favorevole alla tesi della piena portabilità: oltre a SU cit., vengono richiamati, nella sentenza n. 28874, taluni passaggi di Cassazione n. 7161/2013, che per prima ha effettuato un approfondimento dei presupposti che possono supportare una soluzione favorevole alla piena portabilità.
In tal senso, la tesi, anche in questa occasione ribadita, è che l'art. 10 del d.lgs. n. 124/1993, nel disciplinare la portabilità della posizione individuale, non opera distinzione alcuna fra i fondi pensione negoziali di nuova istituzione e i fondi preesistenti, e che, d'altra parte, l'esclusione di questi ultimi non possa ricavarsi dall'art. 18 (norma specifica sui fondi preesistenti) che non contiene espresse deroghe all'applicazione dell'art. 10 medesimo. La complessiva legificazione della previdenza complementare attuata negli anni Novanta, si osserva, ebbe luogo nella consapevolezza della presenza nell'ordinamento di fondi a prestazione definita e nonostante ciò non vennero inserite nella legislazione specifiche deroghe in tema di portabilità, ragion per cui tale prerogativa non può essere negata agli aderenti a detti fondi pensione.
La Corte rileva come la esclusione, non introdotta in maniera espressa dal legislatore, non può essere ricavata assumendo che la normativa sulla portabilità, riferendosi alla “posizione individuale” (art. 10, lett. c), non può essere applicata ai fondi preesistenti a ripartizione o a capitalizzazione collettiva nei quali sarebbe impossibile enucleare una posizione individuale.
Al riguardo la sentenza in commento, ribadendo il nucleo argomentativo delle sentenze del 2013 e del 2015, sottolinea che la nozione di “posizione previdenziale individuale” e di “conto individuale” non vanno confuse, posto che la prima, quale risultante - quanto meno - dei finanziamenti sia del lavoratore che del datore di lavoro, è enucleabile in tutte le forme pensionistiche anche preesistenti, mentre la seconda attiene alla tecnica, tra le varie possibili, per la raccolta, contabilizzazione e gestione delle risorse dei fondi a capitalizzazione individuale. In pratica, la posizione previdenziale, nei fondi preesistenti in parola, anche se non predeterminata e di non facile determinazione, risulta, comunque, in ogni caso determinabile in applicazione di regole e metodi delle specializzazioni matematiche che si occupano del settore assicurativo-previdenziale, con la conseguenza che deve riconoscersi il diritto alla portabilità della stessa quali che siano le caratteristiche strutturali del fondo preesistente. Osservazioni
In passato, il decreto legislativo n. 124/1993, al di là del portato letterale, è stato inteso nel senso che, in linea di principio, il riconoscimento di prerogative anticipatorie (diritto al trasferimento e al riscatto) sulla posizione previdenziale individuale in via di formazione è norma generale di tutela, riferibile anche ai fondi preesistenti, ma che, in determinate ipotesi, la particolare struttura degli stessi unita alla scelta legislativa di garantirne comunque la sopravvivenza (art. 18 d.lgs. n. 124/1993), rendesse legittime soluzioni comunque derogatorie.
In tale direzione, in dottrina (già all'epoca P. Sandulli, Previdenza complementare, in Digesto Discipline Privatistiche Sez. comm., 1995, pag. 243 ss.), in giurisprudenza (cfr. le sentenze richiamate dalla sentenza in commento) e da parte della stessa Covip (cfr. orientamenti 15 febbraio 2001) è stato affermato che, in determinate fattispecie, è coerente escludere il diritto alla portabilità (se non nei limiti già previsti a livello statutario).
I regimi pensionistici a prestazioni definite e a ripartizione sono, come evidenziato sopra, sistemi affatto differenti da quelli a contribuzione definita e capitalizzazione individuale, anche solo per il fatto che - nei primi al contrario che nei secondi - la variabile indipendente è la prestazione che deve essere comunque erogata nella misura pattuita. La contrapposizione, evidentemente, è fra schemi in cui il sinallagma negoziale si basa su una logica di tipo finanziario o invece assicurativo. In quest'ultimo modello, a fronte della garanzia di un risultato (prestazione pensionistica finale) di cui ci si è assunto l'alea, l'addendum di una ulteriore prestazione (portabilità della posizione ante prestazione finale) che non faceva parte degli equilibri negoziali fissati in origine, realizza una rilevante modifica che non può non mettere in discussione il modello nella sua interezza, il che risulta stridere con una legislazione della previdenza complementare che comunque ha voluto salvaguardare i fondi preesistenti quale che fosse la loro struttura, senza imporre, ab externo e necessariamente, trasformazioni che li assimilassero al modello legale. La necessità di una considerazione “a parte” di tali regimi pensionistici emerge, per lo più indirettamente, da diverse norme della legislazione di riferimento: così, per esempio, dalla previsione che le forme pensionistiche complementari preesistenti, in regime di prestazioni definite gestite in via prevalente secondo il sistema tecnico-finanziario della ripartizione, se costituite in conti individuali dei singoli dipendenti, sono soggette a imposizione specifica e dalla previsione della non riferibilità o riferibilità secondo criteri del tutto derogatori delle modalità di conferimento del TFR nei fondi preesistenti diversi da quelli a contribuzione definita (cfr. art. 17, comma 7, del d.lgs. n. 252/2005 e DM n. 62/2007 cit. e corrispondenti previsioni nel d.lgs. n. 124/1993).
Ancora, merita di essere considerato come i fondi preesistenti in discorso, in quanto operativi nei riguardi dei soli c.d. vecchi iscritti, si rivolgono per lo più a lavoratori destinatari, in maniera del tutto prevalente, della pensione di base c.d. retributiva: evidentemente, per tali lavoratori l'esigenza di “assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale” (art. 1 d.lgs. n. 124/1993) ha un significato diverso rispetto a coloro che vedranno liquidata la pensione dell'AGO con il metodo c.d. contributivo; il che può giustificare alcune deviazioni anche sul fronte considerato.
Tali rilievi, uniti al fatto che i fondi preesistenti non a contribuzione definita sono sistemi ad esaurimento (in quanto non è ammesso l'ingresso di nuovi iscritti), portano a ritenere che l'autorevole intervento delle Sezioni Unite non renda impraticabili ulteriori approfondimenti della questione in commento, soprattutto se considerata nell'ambito di vicende in cui emergano aspetti rilevanti nell'ottica del giudizio di bilanciamento degli interessi in gioco. |