Sentenza di condanna

Giulia Bovenzi
14 Febbraio 2018

Nell'alveo delle azioni civili di cognizione, con l'azione di condanna, la parte vuole che il giudice accerti la sussistenza del diritto soggettivo che si assume come violato, al contempo accerti l'inadempimento di tale diritto da parte dell'obbligato, per poi condannarlo alla sua reintegrazione, in forma specifica o per equivalente.
Inquadramento

Nell'alveo delle azioni civili di cognizione, con l'azione di condanna, la parte vuole che il giudice accerti la sussistenza del diritto soggettivo che si assume come violato, al contempo accerti l'inadempimento di tale diritto da parte dell'obbligato, per poi condannarlo alla sua reintegrazione, in forma specifica o per equivalente. Dunque, presupposto dell'azione è la pretesa insoddisfatta di un soggetto, titolare del diritto a ricevere una data prestazione (di dare, fare o non fare).

La sentenza di condanna, quale titolo esecutivo, consente di intraprendere l'esecuzione forzata per ottenere l'adempimento coattivo dell'obbligo, e ciò, a partire dal 1990, fin dal primo grado di giudizio, giacché la condanna ha carattere di sentenza provvisoriamente esecutiva (v. infra).

Ancora, il creditore, in forza della sentenza di condanna, ai sensi dell'art. 2818 c.c., può iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del debitore e, se si tratta di sentenza passata in giudicato, si vedrà allungare i termini di prescrizione del proprio diritto alla prestazione, qualora si sia in presenza di termini di prescrizione brevi (art. 2953 c.c.).

La sentenza di condanna e gli obblighi di fare infungibili

Posto che non c'è alcuna norma del nostro ordinamento che impone una correlazione tra sentenza di condanna ed esecuzione forzata, sembra opportuno sottolineare come il procedimento esecutivo, previsto dal Libro III dei Codice di rito, sia indiscutibilmente idoneo a dare attuazione ad una serie rilevanti di condanne: si pensi, per citarne solo alcune, a quella avente ad oggetto il pagamento di una somma di danaro, o l'obbligo di consegna. Allo stesso tempo, numerosi sono gli obblighi dinanzi ai quali tale tipo di procedimento risulta essere a prima vista inidoneo: è il caso degli obblighi di non fare, per i quali è necessaria una tutela che prevenga la violazione, o agli obblighi di fare infungibili, rispetto ai quali occorre la cooperazione dell'obbligato.

Sino a qualche tempo fa, non era prevista alcuna forma generalizzata di attuazione coercitiva di tali obblighi, (v. sul punto Chiarloni); finalmente, con la legge n. 69/2009, il legislatore ha superato l'impasse creato da tale lacuna, introducendo nel corpo del Codice di rito l'art. 614-bis.

Il modello di riferimento è quello delle astreintes francesi, di creazione giurisprudenziale. Nell'ordinamento italiano si parla di forme di coercizione indiretta ai danni del debitore, in base alle quali lo stesso, su istanza del creditore e salvo situazioni manifestamente inique, può essere condannato al pagamento di una data somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell'adempimento o per ogni violazione successivamente accertata. Trattasi di una sanzione di carattere accessorio rispetto al petitum principale per il quale il creditore ha inizialmente agito, che non può formare oggetto di un'autonoma domanda, né assorbire la domanda risarcitoria o essere considerata una forma di compensazione. La sua funzione resta quella di costringere il debitore soccombente ad uniformarsi alla decisione del giudice, il quale gli ha imposto un obbligo di fare infungibile o di non fare.

L'art. 614-bis tuttavia esclude che l'astreinte possa essere invocata nell'ambito delle controversie di lavoro pubblico e privato, nonché nelle liti relative ai rapporti di collaborazione continuativa di cui all'art. 409 c.p.c.. Detta previsione ha suscitato molte critiche in dottrina, al punto da venire prospettati anche dubbi di legittimità costituzionale in relazione all'art. 3 Cost. (Ludovici, La coercizione indiretta del debitore ex art. 614-bis c.p.c., in www.altalex.it, 2010).

Sul tema, potendo in questa sede svolgersi solo brevi osservazioni di carattere generale, si rinvia a A. Lombardi, Esecuzione forzata indiretta, in www.ilProcessoCivile.it, limitandosi a ricordare come tra i molti dubbi che la norma aveva posto vi era anche quello attinente alla possibilità di estendere il rimedio al di là delle ipotesi di condanna all'adempimento di un obbligo di fare infungibile, al punto di considerarlo rimedio di carattere generale, come tale idoneo a soddisfare anche obblighi di fare fungibile, ma di difficile realizzazione.

Nonostante gran parte della dottrina avesse sostenuto la tesi che la misura coercitiva ex art. 614-bis fosse limitata agli obblighi di fare infungibile e di non fare (Amadei, Una misura coercitiva generale per l'esecuzione degli obblighi infungibili, in www.judicium.it, 2011; Bove; Asprella), il legislatore ha accolto la cd. “teoria estensiva” (così tra gli altri Zucconi Galli Fonseca; Metafora) e nel 2015, con l'art. 13 del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, modificato in sede di conversione dalla l. 6 agosto 2015 n. 132, ha stabilito espressamente l'applicabilità dell'art. 614-bis a tutte le ipotesi di condanna all'adempimento di un obbligo qualsiasi, purché diverso dal pagamento di una somma di denaro.

Le condanne speciali. La condanna generica

Stando all'art. 278, comma 1, c.p.c., il giudice, su istanza di parte, raggiunta la prova sull'an del diritto, ma non sul quantum della prestazione dovuta, può limitarsi a pronunciare con sentenza la “condanna generica alla prestazione” e con ordinanza disporre la prosecuzione del processo ai fini della liquidazione.

Una pronuncia di questo tipo non produce l'effetto caratteristico della sentenza di condanna: il titolo esecutivo giudiziale, che apre la strada all'esecuzione forzata, presuppone l'esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, laddove per la pronuncia della sentenza di condanna generica basta la certezzadel credito, il quale deve essere ancora accertato nel suo ammontare. Dunque, la sentenza di condanna generica non costituisce titolo esecutivo. Detta caratteristica aveva spinto parte della dottrina ad annoverare la condanna generica tra le sentenze di mero accertamento, benché con essa non si contesti l'esistenza di un diritto, ma la sua violazione (Merlin, 207 ss.); mancando l'accertamento relativo a tutti gli elementi dell'illecito, questa parte della dottrina non solo esclude la sussistenza di una vera e propria sentenza di condanna, ma arriva a definire tale pronuncia quale declaratoria iuris di un fatto potenzialmente dannoso, limitata all'an debeatur.

Da una più attenta analisi, però, l'utilità concreta dell'istituto, e dunque il carattere di vera e propria sentenza di condanna, si desume dalla previsione dell'art. 2818 c.c., a norma del quale anche una sentenza che condanna «al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente» costituisce titolo idoneo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del debitore. Con tale beneficio, il creditore sarà assicurato nel ricevere la prestazione anche nel caso in cui il debitore decida di vendere il bene gravato da ipoteca, stante il relativo diritto di seguito di cui il creditore stesso è titolare. Ma vi è di più. Non essendo deducibile dal titolo la somma per cui l'iscrizione va eseguita, sarà lo stesso creditore a poter determinarla “nella nota per l'iscrizione”; qualora, però, il debitore soccombente non fosse d'accordo con quanto stabilito dalla parte attorea, potrà agire avanzando domanda di riduzione dell'ipoteca, ex art. 2872 ss. c.c. e, a maggior ragione, qualora la somma stabilita non corrispondesse alla successiva condanna definitiva, sarà il creditore a doverne rispondere. Si tratta, dunque, di una utilità che, al contempo, richiede al creditore un certo esercizio di responsabilità.

Tradizionalmente, si afferma che la sentenza di condanna generica impedisce che nel giudizio relativo al quantum possano essere messe in discussione le questioni che hanno costituito l'oggetto del processo sull'an debeatur. Dunque, formatosi il giudicato, saranno impregiudicate tutte quelle questioni relative agli elementi della fattispecie che sono rimaste escluse dalla trattazione del procedimento di condanna generica, anzitutto la sussistenza del danno. In particolare, per quella parte di dottrina secondo cui la sentenza di condanna generica ha la medesima rilevanza di una sentenza di condanna, la stessa esprimerebbe non un giudizio provvisorio, né sommario, bensì a cognizione piena, accertando tutti gli elementi costitutivi dell'illecito; il suo accertamento non si fermerebbe al fatto dannoso e alla colpa, ma poggerebbe sulla prova di un danno certo, anche se non quantificato (Satta, voce Condanna generica, in Enc. dir., vol. VIII, Milano 1961, 720 ss.). Di conseguenza, tale accertamento resta fermo e può essere utilizzato in un eventuale giudizio successivo, diretto a verificare effetti ulteriori, provenienti dal fatto accertato (Montesano, 184 ss.). Secondo tale impostazione, l'accertamento relativo all'illiceità della condotta o all'inadempimento non viene mai meno, anche se la successiva pronuncia sul quantum dovesse constatare l'inesistenza del danno o dell'obbligo alla prestazione. Detto altrimenti, il giudice chiamato dinanzi ad una sentenza di condanna generica già emessa, potrebbe anche ritenere che non ci sia danno, ma qualora lo riscontrasse, non potrebbe mettere in dubbio l'elemento psicologico accertato con la prima sentenza e, tra l'altro, emetterà condanna definitiva solo dopo aver accertato il nesso causale giuridico.

In linea con questa logica, parte della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la sentenza di condanna generica pronunciata nel corso di un giudizio di risarcimento del danno aquiliano, di regola, vede a monte l'accertamento del nesso di causalità materiale, ex art. 40 c.p., tra la condotta e l'evento produttivo del danno, così che nel successivo giudizio relativo al quantum si dovrà accertare solo il nesso di casualità giuridica, ex art. 1223 c.c., tra l'evento dannoso ed i conseguenti pregiudizi (Cass. civ., 11 febbraio 2009, n. 3357). Traendo le fila del ragionamento, il giudice potrebbe emettere sentenza di condanna generica solo se certo dell'esistenza del danno e, di conseguenza, in fase di liquidazione diventerebbe estremamente remota la possibilità che la quantificazione sia pari a zero.

Di contro, una tale possibilità è stata fortemente caldeggiata da altra parte della dottrina, la quale pertanto ammette una sentenza sul quantum che neghi la sussistenza del danno, e che, quindi, vanifichi ogni effetto della pronuncia di condanna generica, seppur passata in giudicato (Balena, 44). In tal senso si esprime anche la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui presupposto necessario e sufficiente a legittimare l'adozione della pronuncia in esame è «solo l'accertamento di un fatto ritenuto, alla stregua di un giudizio di probabilità, potenzialmente produttivo di danni», mentre la verifica della loro concreta esistenza, benché già possibile in questa fase, «può anche essere differita alla fase della loro effettiva liquidazione». In questo caso, ove la pronuncia non venga impugnata, «il giudicato formatosi non investe la sussistenza dei danni stessi e del loro rapporto di causalità con il fatto illecito, né preclude la successiva dichiarazione di infondatezza della pretesa risarcitoria, ove si verifichi che i pregiudizi lamentati non siano prodotti o non siano riconducibili al comportamento del responsabile» (Cass. civ., sez. I, 11 ottobre 2016, n. 20444).

In evidenza

Il giudicato sulla condanna generica, ai sensi dell'art. 278 c.p.c., accerta tutte le componenti dell'obbligazione, seppur in via strumentale rispetto alla successiva determinazione quantitativa; sicché, qualora si formi il giudicato sulla condanna generica dell'erede per un debito ereditario senza che nel relativo giudizio sia stato da lui dedotto, né rilevato d'ufficio, che l'eredità è stata accettata con beneficio d'inventario, l'erede debitore non può avvalersi del beneficio stesso nel successivo giudizio di liquidazione del “quantum debeatur” (Cass. civ.,sez. III, sent., 9 aprile 2015, n. 7090).

Problema discusso resta, invece, la possibilità di attribuire alla sentenza di condanna generica l'ulteriore effetto secondario tipico della condanna “ordinaria”, vale a dire la conversione della prescrizione breve in prescrizione ordinaria decennale, ex art. 2953 c.c.. Coloro che ravvedono in tale pronuncia una sentenza di mero accertamento, non idonea a costituire titolo esecutivo, negano questa possibilità, ma la prevalente dottrina (Balena, 45) e la giurisprudenza maggioritaria (v. per tutte Cass. civ., 19 febbraio 2009, n. 4054; Cass. civ., sez. III, 9 luglio 2014, n. 15595; Cass. civ., sez. III, 9 aprile 2015, n. 7090, cit.) fanno leva sulla lettera dell'art. 2953 c.c., che in via generale parla di «sentenza passata in giudicato», senza alcun tipo di esclusione.

Oltre a queste utilità di carattere strettamente sostanziale, la sentenza di condanna generica comporta un vantaggio anche sul piano processuale: si tratta di un classico esempio di sentenza non definitiva, ovvero di una sentenza che non chiude il processo dinanzi al giudice che l'ha emanata. In particolare, siamo dinanzi ad una sentenza non definitiva di merito, la quale si caratterizza per il fatto che, ove il processo non proseguisse o si estinguesse, essa conserverebbe la sua efficacia e, se non impugnata, sarebbe anche idonea a passare in giudicato.

Pur tuttavia bisogna precisare che, qualora il giudice separi le cause, decidendo la domanda o le domande impellenti (ad es. di risoluzione del contratto e di inibitoria), oltre che pronunciare la generica e rinviare per il risarcimento del danno, si avrà in questo caso una decisione parziale, ma definitiva rispetto a quella domanda, e una non definitiva di condanna generica, rispettivamente impugnabili come tali (Cerino Canova,396 ss.)

Dal canto suo, la giurisprudenza ha precisato che le sentenze parziali di merito, emesse nel corso di causa sottoposte al regime impugnatorio delle non definitive, sono quelle che, pur avendo deciso su una o più domande, non abbiano formalmente separato le cause (Cass. civ., Sez. Un., 28 aprile 2011, n. 9441).

(Segue). La condanna generica come sentenza “autonoma”

Si è accennato in precedenza che la decisione sull'an debeatur, che non accerti la sussistenza del diritto al risarcimento del danno, ma solo la illiceità del comportamento, costituisce oggetto autonomo di una sentenza, ma la stessa non può dirsi sentenza autonoma. Essa, almeno di fatto, è suscettibile di essere travolta dalla successiva pronuncia sulla liquidazione, che accerti l'inesistenza della parte residua della fattispecie produttiva del diritto al risarcimento, ovvero viene considerata condanna parziale che trova proprio nella liquidazione la sua integrazione (Carnelutti, 178).

Sennonché, nonostante teoricamente dovrebbe escludersi la possibilità per l'attore di agire solo per l'ottenimento di una condanna generica, stante il fatto che una siffatta pronuncia presupporrebbe in ogni caso la prova del danno e, di conseguenza, l'accertamento del quantum, da sempre la giurisprudenza ha previsto dei temperamenti a tale regola: il convenuto, verosimilmente interessato a non subire un doppio processo, deve avere in ogni caso la possibilità, anche in via subordinata, di richiedere la quantificazione della prestazione nello stesso processo (v. per tutte, Cass. civ., 16 dicembre 2010, n. 12103); pertanto, il suo consenso, o quantomeno la sua mancata opposizione, sono necessari affinché l'attore, dopo aver ottenuto una condanna “ordinaria”, possa restringere l'oggetto del giudizio alla sola condanna generica (ad es. per essersi reso conto di non aver prove sufficienti rispetto al quantum del diritto ed evitare una sentenza di rigetto: così Cass. civ., 15 marzo 2007, n. 5997).

Ora, nel caso in cui la decisione si fermi alla condanna generica, vi è da chiedersi se in tal caso si configuri sentenza di condanna generica avente carattere di sentenza definitiva. Recentemente, la Cassazione ha ritenuto che detta pronuncia possa acquistare i caratteri di una sentenza definitiva, precisando tuttavia che occorre distinguere due ipotesi: a) se nel medesimo processo viene dapprima pronunciata condanna sull'an e, quindi, viene disposta la prosecuzione del giudizio per l'accertamento del quantum ex art. 278, comma 1, c.p.c.,«il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva sull'an preclude la possibilità di contestare, nel proseguo del giudizio, i presupposti del risarcimento, quali l'esistenza del credito o la proponibilità della domanda»; b) se, invece, il giudizio si è limitato all'accertamento dell'an, rinviando ad un nuovo e separato giudizio l'accertamento del quantum, quest'ultimo sarà del tutto autonomo rispetto al primo, con la conseguenza che «il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica al risarcimento non genera effetti vincolanti, per il giudice del quantum, né sull'esistenza del credito, né sulla proponibilità della domanda» (Cass. civ.,sez. lav., 20 maggio 2014, n. 9290).

La condanna provvisionale

Stando al secondo comma dell'art. 278 c.p.c., il giudice, su istanza di parte, raggiunta la prova sull'an del diritto, può anche condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, «nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova».

La sentenza in questione, rispetto alla parte di quantum in essa accertato, costituisce titolo idoneo per intraprendere l'esecuzione forzata, consente l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale sui beni del debitore ed è capace di produrre gli effetti disciplinati dall'art. 2953 c.c..

L'istituto della provvisionale, diversamente da quello della condanna generica, infatti, dà luogo ad un provvedimento di condanna vero e proprio, che presuppone non già una valutazione di mero fumus, tipica dei provvedimenti cautelari, ma un accertamento positivo del giudice di merito circa il raggiungimento della prova in ordine all'ammontare del danno nei cui limiti, corrispondenti al quantum della provvisionale, essa costituisce titolo esecutivo, nonché titolo per iscrivere ipoteca giudiziale (Cass. civ., sez. II, 24 aprile 2004, n. 9996).

La ratio che sorregge l'istituto risponde, indubbiamente, ad esigenze di economia processuale poiché con esso è possibile superare le difficoltà relative all'accertamento del danno nel suo completo ammontare; come se non bastasse, si tratta di una condanna che, a prescindere dall'esito della successiva fase del processo, relativa alla liquidazione definitiva del quantum, non può essere revocata dal giudice e non potrà perdere la sua efficacia di condanna in senso stretto, potendo essere modificata solo tramite l'esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione. Il relativo giudicato che viene a formarsi investe e copre anche la questione dei limiti della responsabilità patrimoniale del debitore inadempiente.

Precisa la giurisprudenza che l'apprezzamento al riguardo compiuto dal giudice del merito, ove congruamente motivato, non è suscettibile di riesame in sede di legittimità (così Cass. civ., sez. II, 27 maggio 2002, n. 6532).

Tradizionalmente si tratta di una pronuncia che assume la forma di sentenza non definitiva di merito: dunque, così come accade per la condanna generica, anche la provvisionale sopravvive all'estinzione o all'arresto del processo.

Tuttavia, vi sono ipotesi in cui il legislatore ha previsto che tale pronuncia abbia la forma dell'ordinanza. Si esprime in tal senso l'art. 423, comma 2 c.p.c., secondo il quale, nel processo del lavoro, il giudice, su richiesta del lavoratore, può condannare il datore di lavoro al pagamento di una provvisionale, una volta accertato l'esistenza del diritto e relativamente alla parte di quantum per cui ritiene raggiunta la prova; ancora, l'art. 147 d.lgs. n. 209/2005 (Codice delle assicurazioni private), prevede la possibilità, per coloro che hanno subito danni a seguito di un sinistro stradale e si trovino in stato di bisogno, di ottenere, da parte del conducente per il quale sono stati accertati in via sommaria gravi elementi di responsabilità, di ottenere a titolo provvisorio una somma non superiore a quattro quinti della presumibile entità del risarcimento, successivamente liquidato con sentenza.

A differenza della disciplina ordinaria, in questo caso si è in presenza di provvedimenti sommari, come tali modificabili dalla successiva sentenza a cognizione piena.

Brevi considerazioni. La specialità/utilità dell'art. 278 c.p.c.

Nonostante il “fascino” attribuito all'istituto della condanna generica, si è comunque in presenza di una norma processualistica speciale, che prevede la possibilità per il giudice di scindere la propria pronuncia in due decisioni, a discapito del principio di concentrazione processuale di cui al precedente art. 277 c.p.c..

Sotto il profilo della tecnica processuale, è in facoltà dell'attore chiedere la condanna generica nell'atto di citazione, mentre il convenuto può opporsi ad essa. Inoltre, l'attore può, ai sensi dell'art. 183 c.p.c., integrare la domanda.

In particolare, la giurisprudenza ha ammesso la richiesta di condanna generica a condizione che la stessa domanda contenga tutte le allegazioni necessarie ad ottenere la condanna specifica, eccetto quelle relative ai danni non quantificabili (Cass. civ, n. 7090/2015, cit.), avendo ammesso già in passato la possibilità che l'attore limiti la propria domanda anche in sede di precisazione delle conclusioni e che il convenuto si opponga persino nella comparsa conclusionale, perché nessuna attività ulteriore è richiesta per effetto della limitazione (Cass. civ., 2 febbraio 1996, n. 897).

Tuttavia, per come è strutturato il processo civile, successivamente alla sentenza che chiude il primo grado di giudizio in cui sono state rassegnate le conclusioni, non sarà possibile introdurre nel prosieguo fatti della cui esistenza si era preventivamente a conoscenza, come le prove già conosciute che avrebbero potuto dimostrare l'esistenza di fatti precedenti, ma solo nova (fatti e prove) sopravvenuti al momento della precisazione delle conclusioni relativo al giudizio sull'an. Pertanto l'interesse alla condanna generica potrà aversi solo nel caso in cui il danno si stia ancora producendo, perché, magari, a nulla è servito l'esperimento di un'inibitoria. Di contro, se l'interesse è circoscritto alla funzione cautelare rispetto al credito, offerta dall'iscrizione di ipoteca giudiziale, lo strumento più idoneo risulta essere il sequestro conservativo in corso di causa che, se da un lato richiede la sussistenza non solo del fumus, ma anche del periculum in mora, dall'altro concede una tutela maggiore sia per l'attore che per il convenuto (tralasciando la possibilità di utilizzare strumenti quali le ordinanze di condanna, ex art. 423 e artt. 186-bis, ter e quater c.p.c.).

Il rapporto con il giudice penale

L'art. 539 c.p.p. consente al giudice penale di pronunciare condanna generica e rimettere le parti dinanzi al giudice civile per la liquidazione del danno, qualora non disponga delle relative prove necessarie. In questo caso, il giudice civile non potrà rimettere in discussione il fatto criminoso accertato dal primo, ma dovrà accertare tutti gli altri elementi della fattispecie di responsabilità civile (Cass. pen., sez. III, 9 settembre 2015, n. 36350). Una pronuncia di questo tipo (che accerti la responsabilità penale), divenuta irrevocabile, in realtà sembrerebbe avere la medesima efficacia di una condanna generica ex art. 651 c.p.p..

Se però si mette a confronto la condanna generica emessa dal giudice civile e quella emessa dal giudice penale, è facile constatare delle differenze pregnanti: nel primo caso, la causa continua dinanzi allo stesso giudice e le parti, eccetto condizioni particolari, non possono allegare nuove prove; nel secondo caso, la causa dinanzi al giudice civile inizia ex novo. Inoltre, mentre la condanna generica in sede civile è titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale, non è cosi per l'omologa resa in sede penale, poiché l'iscrizione in questo caso sarà possibile solo con il passaggio in giudicato della sentenza penale. Ciò porta a ritenere le due condanne quali due provvedimenti di natura diversa o, comunque, suscita la necessità di rivedere l'istituto nell'alveo del processo penale.

La condanna in futuro

Presupposto imprescindibile affinché si possa avere una sentenza di condanna è la sussistenza di un inadempimento attuale, vale a dire un obbligo inadempiuto o una pretesa insoddisfatta. Tuttavia, in ipotesi del tutto eccezionali, il legislatore consente all'attore di agire in giudizio per richiedere la condanna attuale all'adempimento di una prestazione sottoposta a termine o a condizione, prima che il termine sia scaduto o la condizione si sia realizzata. Si tratta, dunque, di ipotesi in cui l'ordinamento ammette pronunce di condanna destinate ad operare in futuro, se e quando l'inadempimento dovesse realmente verificarsi.

Da qui, una duplice utilità: il titolo esecutivo in questione gioca un ruolo dissuasivo rispetto all'inadempimento del debitore; in secondo luogo il creditore, una volta verificatosi l'inadempimento, non dovrà spendere altro tempo per accedere al processo esecutivo.

Il terreno di elezione di siffatta pronuncia è, senza dubbio, il procedimento per convalida di sfratto, ex art. 657 ss. c.p.c., con riferimento all'ipotesi in cui il locatore, sei mesi prima la scadenza del contratto, agisca per il rilascio dell'immobile da parte del conduttore (cd. licenza per finita locazione): la logica è quella di procurarsi un provvedimento di condanna, che nella specie ha la forma dell'ordinanza, idoneo a costituire titolo esecutivo e che potrà essere utilizzato qualora il conduttore non rilasci l'immobile allo spirare del termine.

Ulteriore ipotesi di condanna in futuro è ravvisabile altresì nell'ambito del procedimento di sfratto per morosità, in quanto il giudice, contestualmente alla risoluzione del contratto, può pronunciare decreto ingiuntivo con il quale intima il conduttore a pagare i canoni scaduti e da scadere, ex art. 664 c.p.c..

In evidenza

Costituisce domanda nuova, come tale inammissibile, la richiesta di ripetizione dei canoni di locazione superiori alla misura legale, versati anche nel corso di causa, ovvero successivamente alla data di proposizione della domanda, in quanto si fonda su presupposti di fatto diversi da quelli prospettati con la pretesa originaria, e comporta un mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere. Non può quindi estendersi analogicamente a tale fattispecie l'ipotesi eccezionale di condanna in futuro ex art. 664, comma 1 c.p.c., la quale consente, a chi abbia intimato sfratto per morosità, di ottenere l'ingiunzione per il pagamento, oltre che dei canoni già scaduti, anche dei canoni da scadere (Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2014, n. 8405).

Discusso è se possano rientrare nella categoria della condanna in futuro tutte quelle ipotesi in cui la sentenza, attinente ad obblighi periodici e continuativi, non solo accerti un inadempimento attuale e fissa i relativi rimedi risarcitori o ripristinatori, ma detti anche i comportamenti cui il debitore sarà tenuto in futuro, relativamente al rapporto dedotto in giudizio. Si pensi all'art. 148, comma 2 c.c., concernente l'adempimento dell'obbligazione (dei genitori o, in subordine, degli altri ascendenti) di mantenere, istruire ed educare i figli: in caso di inadempimento, il presidente del tribunale può ordinare che parte dei redditi dell'obbligato, “in proporzione agli stessi”, sia versata direttamente all'altro coniuge o a chi per esso sopporta le relative spese. Ancora, si ponga mente all'art. 156, comma 6c.c., che prevede un analogo provvedimento per il caso di inadempimento dell'obbligo di mantenimento stabilito nella sentenza di separazione personale dei coniugi.

Seguendo quest'impostazione - che fa rientrare nella categoria della condanna in futuro tutte quelle ipotesi in cui l'inadempimento parziale di un obbligo continuativo o periodico, attuale al momento della domanda, consentirebbe l'estensione della condanna anche al periodo successivo alla sua pronuncia - si finisce per ritenere che la condanna in futuro abbia carattere di rimedio generale.

Sembra tuttavia più convincente quella parte della dottrina che rifiuta una siffatta impostazione: in questo caso l'azione potrebbe costringere il convenuto a subire un processo, sia nel caso in cui non abbia violato il diritto attoreo, sia quando non abbia neppure contestato tale diritto; ancora, si è ravvisato in tale pronuncia un mezzo di pressione che il creditore potrebbe esperire nei confronti del debitore, iscrivendo ipoteca giudiziale sui suoi beni in vista di un possibile inadempimento. Queste considerazioni spingono perciò a ritenere ravvisabile la condanna in futuro nelle sole ipotesi espressamente contemplate dal legislatore, e a parlare di azione di mero accertamento in tutti quei casi in cui si tratti di un diritto del quale non sia ancora configurabile una violazione.

In evidenza

La condanna del datore di lavoro al risarcimento, ex art. 18 l. n. 300/70, costituisce una pronuncia in futuro e condizionata, in particolare, alla permanenza del rapporto di lavoro e alla non riattivazione con la reintegra del lavoratore quanto al periodo successivo alla pronuncia della sentenza. La conseguenza è che, passata in giudicato la sentenza e devoluta al giudice di appello la controversia per effetto della proposizione dell'impugnazione, la cognizione di quest'ultimo deve ritenersi estesa alla verifica, anche d'ufficio, circa l'esistenza e la misura del danno che concretamente matura solo nel corso del giudizio di secondo grado. Anche perché con l'eventuale conferma della sentenza di primo grado, la pronuncia relativa al risarcimento muta la sua portata, diventando, per il periodo intercorrente tra le due sentenze di merito, una pronuncia concreta e non più di condanna in futuro (Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2010, n. 8643),

La condanna con riserva di eccezioni

L'accoglimento della domanda da parte del giudice presuppone che questi abbia accertato l'esistenza dei fatti costitutivi del diritto e, di contro, l'inesistenza dei fatti modificativi, estintivi o impeditivi. In altre parole, è necessario che il giudice accolga la domanda, rigettando contemporaneamente le relative eccezioni.

Tuttavia, vi sono ipotesi particolari in cui la legge ammette che, di fronte ad eccezioni di non semplice risoluzione, il giudice possa “scindere” l'oggetto della sua cognizione, vale a dire accogliere la domanda (se fondata per ogni altro profilo) e pronunciare la relativa condanna, senza tener conto di tali eccezioni, le quali saranno esaminate in una fase successiva del relativo giudizio.

Si tratta di un provvedimento di condanna che, ciò nonostante, si fonda su un accertamento incompleto, dunque sommario, destinato a caducare con la successiva fase del processo che accerterà le eccezioni del debitore; un provvedimento ammesso nei soli casi stabiliti dalla legge, stante il fatto che genera una lesione del diritto di difesa del convenuto e, per converso, un vantaggio nei confronti dell'attore.

Il caso tipico è quello previsto dall'art. 35 c.p.c., a mente del quale in caso di credito opposto in compensazione e contestato dalla controparte, che ecceda la competenza per valore del giudice adito, quest'ultimo può decidere sulla domanda attorea, nel caso in cui la stessa sia fondata su di un titolo non controverso o facilmente accertabile, e rimettere al giudice competente la decisione relativa all'eccezione di compensazione.

In sostanza, si avrà una sentenza di condanna pronunciata sulla base della sola domanda dell'attore - il che implica che vi sia stato un accertamento relativo esclusivamente alle sue ragioni - ed una successiva sentenza, pronunciata da altro giudice, in cui, essendo accertati i fatti costitutivi, sarà verificata soltanto l'eccezione del convenuto.

CASISTICA

Allorquando in un giudizio di primo grado, avente ad oggetto l'accertamento di un credito, venga eccepita in compensazione l'esistenza di un controcredito, oggetto di altro giudizio fra le stesse parti pendente in secondo grado, il giudice del primo giudizio deve risolvere la situazione di connessione sulla base dei principi emergenti dall'art. 35 c.p.c., opportunamente adattati alla situazione di pendenza dei due giudizi in gradi diversi. Pertanto, non potendo far luogo alla rimessione del giudizio avanti al giudice di secondo grado, (qualora il credito oggetto della domanda principale proposta dinanzi a sè sia fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile) deve decidere su tale domanda e far luogo a condanna con riserva dell'eventuale accertamento del controcredito eccepito in compensazione nel giudizio di secondo grado; mentre, ove la domanda principale non presenti tali caratteristiche, deve disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione di quello pendente in secondo grado sul controcredito.

Cass. civ., sez. II, 10 novembre 2006, n. 24098.

Il giudice deve decidere sul credito opposto in compensazione anche allorché non sia di facile e pronta liquidazione, se fatto valere con domanda riconvenzionale e non eccedente la sua competenza per materia o valore; tuttavia, ove nella compensazione ricorra al criterio equitativo di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., tale criterio deve importare la previa individuazione delle due poste da comparare, con analitica e circostanziata indicazione delle componenti patrimoniali, in modo da rendere palese e chiara l'individuazione dell'iter logico seguito nella valutazione equitativa.

Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2005, n. 157.

La sentenza di condanna e la provvisoria esecutività

L'art. 282 c.p.c., cosi come modificato dal legislatore del'90, stabilisce che la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti. Nonostante il riferimento generico contenuto nella norma citata, la giurisprudenza di legittimità ha da sempre affermato che per estendere la provvisoria esecutività anche alle sentenze costitutive e dichiarative occorre una specifica previsione normativa.

Rinviando a V. Amendolagine, Esecuzione provvisoria della sentenza, in www.ilProcessoCivile.it per gli ulteriori approfondimenti sul tema, basti in questa sede osservare come il concetto di esecutorietà non possa mai essere riferito alle declaratorie dichiarative e costitutive, per cui le sentenze aventi tale natura, acquisteranno tale efficacia solo con il passaggio in giudicato (Trapuzzano).

(Segue). Le pronunce di condanna “dipendenti”

Con riferimento ai capi di condanna “dipendenti”, i.e. consequenziali alle pronunce costitutive e dichiarative di natura “condannatoria” (si pensi tra tutte alle condanne alle spese e competenze di lite), in un primo momento la giurisprudenza di legittimità aveva sostenuto che tutte le pronunce di condanna accessorie e consequenziali, compresa quella relativa alla regolamentazione delle spese e competenze di lite, sono inidonee a costituire titolo esecutivo fino a quando non diventi efficace la pronuncia principale di accertamento o costitutiva (Cass. civ., 24 maggio 1993, n. 5837; Cass. civ., 6 marzo 1987, n. 2382), giacché la condanna pronunciata trova il proprio sostegno nella pregiudiziale declaratoria dichiarativa o costitutiva.

In evidenza

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 282 e 474 c.p.c., nella parte in cui non prevede che sia titolo provvisoriamente esecutivo anche il capo della sentenza di primo grado di condanna al pagamento delle spese di lite, quando sia accessorio a declaratoria di rigetto della domanda o di incompetenza (Corte cost., 16 luglio 2004, n. 232).

Sennonché, a partire dal 2007, la Suprema Corte ha cambiato radicalmente posizione, nel duplice senso di ritenere che anche i capi delle sentenze di natura dichiarativa e costitutiva hanno efficacia, in senso lato, immediata e che non ha senso la distinzione tra pronunce di condanna pure e consequenziali, poiché tutte le condanne presuppongono un accertamento, quand'anche implicito. E ciò varrebbe anche per le condanne strumentali a pronunce dichiarative o costitutive (necessarie o non necessarie), salvi i casi in cui la legge preveda espressamente che l'effetto costitutivo, modificativo o estintivo si produca successivamente al passaggio in giudicato, come nel caso dell'accertamento o costituzione di status. La conseguenza sarebbe che tutte le declaratorie di condanna, ivi comprese quelle inerenti alle spese di lite, sono provvisoriamente esecutive (Cass. civ., sez. III., 3 settembre 2007, n. 18512). Sennonché, successivamente la giurisprudenza di legittimità è tornata sui suoi passi: al di fuori delle statuizioni di condanna consequenziali, «le sentenze di accertamento (così come quelle costitutive) non hanno l'idoneità, con riferimento all'art. 282 c.p.c., ad avere efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato, atteso che la citata norma, nel prevedere la provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado, intende necessariamente riferirsi soltanto a quelle aventi contenuto di condanna suscettibili dei procedimenti di esecuzione disciplinati dal terzo libro del codice di rito civile» (Cass.civ.,26 marzo 2009, n. 7369).

Di qui in poi, questa la linea di pensiero prevale in giurisprudenza ed in dottrina, sebbene non siano mancate pronunce che hanno ammesso la provvisoria esecutività anche alle sentenze costitutive e dichiarative, manifestando un certo “malcontento” per un'applicazione riduttiva del dettato normativo e valorizzando, in questo modo, la ratio della novella del 1990. Come emerge anche dai lavori preparatori, l'intento legislativo che si rileva dal nuovo art. 282 c.p.c. è sicuramente quello di semplificare il sistema ed evitare l'abuso dello strumento processuale, conferendo già alla sentenza di primo grado l'attitudine ad un'attuazione coercitiva, in modo tale da consentire una maggior tutela del soggetto vittorioso nel giudizio ed evitare un uso pretestuoso del sistema impugnatorio (Barafani, 2417 ss.). Vero è, come si accennava, che per loro natura solo le sentenze di condanna possono dare avvio al processo esecutivo: mentre le sentenze di mero accertamento e costitutive conferiscono una tutela autosufficiente che non presuppone una collaborazione della controparte, la sentenza di condanna, per dare seguito al comando, necessita che l'obbligato si adegui allo stesso, o, in caso contrario, che si attivi in chiave sostitutiva l'ufficio esecutivo. Ma è altrettanto vero che numerose sono le norme di legge che predicano l'esecutività di pronunce diverse, come quella dichiarativa dell'assenza o morte presunta (art. 730 c.p.c.), il provvedimento che contiene ordini di protezione contro gli abusi familiari (art. 736-bis c.p.c.) o, ancora, il decreto di omologazione del concordato preventivo (art. 180 l. fall.) Dunque, il legislatore è spesso impreciso e non univoco nell'utilizzare i concetti di esecutività o efficacia della decisione, e ad ogni modo non può passare in secondo piano l'esigenza di adeguare l'interpretazione normativa ai canoni costituzionali del giusto processo: l'effettività della tutela e la ragionevolezza dei tempi processuali, sanciti dall'art 111 Cost., conducono a riconoscere l'immediata efficacia anche alle sentenze costitutive e di mero accertamento, non in via generale, ma a seconda del caso concreto, verificando l'inesistenza di ragioni ostative, al fine di evitare che si possano creare disparità tra i differenti tipi di tutela messi a disposizione dell'ordinamento. É dunque auspicabile un'evoluzione del pensiero che conduca ad un'elasticità del sistema nel suo complesso.

Riferimenti
  • Amadei, Una misura coercitiva generale per l'esecuzione degli obblighi infungibili, in www.judicium.it, 2011;
  • Asprella, L'attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare, in Giur. merito, 2011, 117 ss.;
  • Balena, Istituzioni di Diritto Processuale Civile, 1, I Principi, 2016;
  • Barafani, La sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado: orientamenti a confronto, in Giur. it., 2016, 2417 ss.;
  • Bove, La misura coercitiva di cui all'art. 614-bis c.p.c., in www.judicium.it, 2012;
  • Carnelutti, Cosa giudicata parziale, in Riv. dir. proc. 1956, II;
  • Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze definitive di merito, in Riv. dir. proc. 1971, 396 ss.;
  • Chiarloni, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980;
  • Metafora, L'esecuzione degli obblighi di fare (fungibili) e di non fare, in REF, 2012, 452 ss.;
  • Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del “quantum” in separato giudizio, in Riv. dir. proc. 1986;
  • Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985;
  • Trapuzzano, Nuova interpretazione dell'art. 282 c.p.c.: una soluzione chiara e giuridicamente apprezzabile, in nel diritto.it, 2006;
  • Zucconi Galli Fonseca, Le novità della riforma in materia di esecuzione forzata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010,197 ss..
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