Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e tutela reintegratoria nell’art. 18

Nicola Morgese
22 Febbraio 2018

In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il regime sanzionatorio introdotto dalla legge n.92 del 2012 riserva la c.d. tutela reintegratoria attenuata ad ipotesi residuali, limitando il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, ai soli casi, che fungono da eccezione, in cui l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento sia connotata, ai sensi del comma 7 dell'art. 18 St. lav., da una particolare evidenza, qualificandosi come manifesta.
Massima

In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il regime sanzionatorio introdotto dalla Legge n. 92 del 2012 riserva la c.d. tutela reintegratoria attenuata ad ipotesi residuali, limitando il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino ad un massimo di dodici mensilità, ai soli casi, che fungono da eccezione, in cui l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento sia connotata, ai sensi del co. 7 dell'art. 18 St. lav., da una particolare evidenza, qualificandosi come manifesta.

Il caso

La fattispecie in esame riguarda un licenziamento intimato da una società di servizi ad un dipendente per motivazioni riconducibili a giustificato motivo oggettivo e correlate ad una riorganizzazione aziendale provocata da un provvedimento amministrativo ritenuto ostativo alla prosecuzione dell'attività.

In particolare, la società convenuta, dedita in via esclusiva all'esecuzione di appalti pubblici di raccolta e smaltimento dei rifiuti nettezza urbana, aveva subito una interdittiva prefettizia legata a presunte infiltrazioni mafiose imputabili, secondo la motivazione dell'atto, alla presenza all'interno dell'azienda di lavoratori con precedenti penali e comunque vicini ad esponenti dei locali clan mafiosi.

Sulla scorta di tanto, la società datoriale, pur impugnando il provvedimento prefettizio dinanzi al giudice amministrativo, aveva comunque proceduto, al fine di evitare la perdita delle commesse, ad una riorganizzazione dell'impresa prodromica all'impugnato licenziamento, senza tuttavia attendere gli esiti del giudizio dinanzi al Tar.

Intervenuta la sentenza amministrativa di annullamento dell'atto prefettizio, il lavoratore che aveva tempestivamente impugnato il licenziamento si vedeva respingere la domanda dal giudice di primo grado che, a dispetto delle plurime censure, aveva ritenuto legittima la determinazione datoriale.

Di diverso avviso era invece stata la Corte d'Appello di Catanzaro che, accogliendo in parte i motivi di doglianza del ricorrente, perveniva alla declaratoria di illegittimità del licenziamento, con riconoscimento della tutela indennitaria prevista per le ipotesi di insussistenza del giustificato motivo non “manifesta (comma 7), liquidata tuttavia secondo il diverso parametro di cui al co. 6 dell'art. 18 della Legge n. 300/70, come modificato dalla L. n. 92/2012.

La questione

La questione giuridica oggetto della pronuncia concerne la relazione giuridica intercorrente tra le differenti ipotesi di cui ai commi 4 e 5 del nuovo art. 18, relative ai casi di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo illegittimo e concretantesi rispettivamente nella previsione di una tutela reintegratoria attenuata ovvero di una tutela meramente indennitaria.

In particolare, il punto controverso sottoposto all'esame dei Giudici di cassazione riguarda l'esatta determinazione della linea di confine fra le due differenti tutele, alla luce della nozione di manifesta insussistenza del fatto introdotta nel successivo comma 7.

Le soluzioni giuridiche

Ripercorrendo l'itinerario argomentativo della precedente sentenza n.14021 dell'8 luglio 2016, il giudice di legittimità rileva, in guisa di premessa maggiore, che la Legge n. 92 del 2012 ha inteso prevedere, in armonia con la complessiva ratio della riforma, una forma graduata di tutele per i casi di licenziamento illegittimo di tipo economico.

Rammenta in particolare la Corte che la novella del 2012 ha previsto, al quarto comma del nuovo art. 18, una tutela reintegratoria "attenuata" in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria, in misura comunque non superiore a 12 mensilità; mentre al comma 5 dello stesso articolo contempla una tutela meramente indennitaria per la quale, dichiarato risolto il rapporto di lavoro, il giudice condanna il datore al pagamento di una indennità onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24.

Tanto premesso, il Collegio ritiene che la linea di confine tra le due forme di tutela è rappresentata dal disposto dell'art. 18, c. 7 novellato, secondo cui il giudice “può” applicare la disciplina reintegratoria (ndr. quella di cui al quarto comma) nella sola ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, dovendo nelle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, applicare la più attenuata disciplina di cui al comma 5.

La citata disposizione, infatti, introducendo la nozione di "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo", assegnerebbe alla stessa conseguenze rilevanti ai fini della tutela accordabile al lavoratore: potendosi solo in tale occasione, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto di cui al c. 7 e 4, assicurare una tutela di tipo reintegratorio, in luogo di quella meramente economica.

Operate tali premesse e richiamato testualmente il precedente arresto del 2016, la Corte conclude nel senso che l'opzione di riconoscere la tutela reintegratoria alle sole ipotesi in cui l'insussistenza appaia manifesta dimostrerebbe la chiara intenzione del legislatore di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi solo residuali che fungono da eccezione alla regola generale della tutela indennitaria.

Sulla scorta di tanto, viene dunque convalidata la qualificazione giuridica del licenziamento operata dalla Corte d'Appello, ritenendosi che, a fronte della indiscussa esistenza al momento del licenziamento dell'interdittiva prefettizia, - afferente anche alla posizione del lavoratore - non sia possibile ricondurre l'ipotesi in esame a quella peculiare che postula, come suggerito dal termine “manifesta”, un connotato di particolare evidenza nell'insussistenza del fatto: integrandosi piuttosto un caso di non ricorrenza, secondo la locuzione di cui al comma 5,degli estremi del predetto giustificato motivo oggettivo”.

Confermata sul punto la sentenza gravata, il giudice di legittimità perviene tuttavia all'accoglimento del motivo di censura relativo alla quantificazione dell'indennità risarcitoria ivi riconosciuta dal giudice d'appello.

Nello specifico, il parametro normativo applicato dal giudice di gravame farebbe erroneamente riferimento, come in effetti riscontrabile ad litteram e a dispetto della corretta qualificazione della fattispecie, alla diversa ipotesi di cui al comma 6, relativa ai licenziamenti dichiarati inefficace per violazione del requisito di motivazione del licenziamento, della procedura di cui all'art. 7, Legge n. 300 del 1970 o della procedura conciliativa prevista dall'art. 7, Legge n. 604 del 1966.

Pertanto il Collegio rileva la fondatezza del detto motivo di gravame, disponendo la cassazione parziale della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte d'Appello, in diversa composizione, al fine di stabilire l'indennità onnicomprensiva spettante secondo il corretto range parametrico (da 12 a 24 mensilità) previsto dall'art. 18, c. 5 della Legge.

Osservazioni

La sentenza in commento si iscrive nel solco giurisprudenziale già tracciato dalla Suprema Corte con i più recenti arresti (Cass. Civ. n.14021 dell'8 luglio 2016; Cass. Civ. n.30324 del 18 dicembre 2017; Cass. Civ. n. 30325 del 18 dicembre 2017 e Cass. civ. n.331 del 10 gennaio 2018) e orientato ad una interpretazione strettamente letterale e teleologica dell'art. 18, c. 7 della Legge n. 300/1970, novellato dalla Legge n. 92/2012.

La richiamata disposizione, di cui la Corte non manca di evidenziare il tratto diindubbia incertezza”, prevede testualmente quanto segue: “il giudice…può applicare la predetta disciplina (n.d.r. tutela reintegratoria di cui al quarto comma) nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”.

Orbene, senza ripercorrere l'articolato dibattito sviluppatosi in materia, è sufficiente ricordare che, in sede di prima applicazione, la comunità interpretativa si è a lungo interrogata in ordine alla valenza semantica del termine fatto posto dal legislatore al centro della (dirimente) valutazione di manifesta insussistenza (cfr. c. 7).

Ed invero, ad un primo orientamento, favorevole a ricomprendere nella nozione de qua il semplice fatto materiale addotto a base del licenziamento, si è da subito contrapposta sul piano teorico una impostazione volta a includere nel termine, più estensivamente, i singoli elementi costitutivi della fattispecie di giustificato motivo oggettivo ossia: a) la ragione organizzativa o produttiva; b) il nesso di causalità fra la predetta ed il conseguente recesso; c) l'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (c.d. repechage).

Fra le due impostazione ha prevalso, come noto, la lettura più restrittiva della norma che ha consentito coerentemente di confinare i casi di applicazione della tutela reintegratoria a mere e residuali eccezioni, e tanto al fine di attuare l'obiettivo di politica espressamente perseguito dal legislatore tecnico e volto alla c.d. marginalizzazione della reintegra rispetto all'ordinaria tutela indennitaria.

Secondo tale impostazione, in particolare, la scelta lessicale di affidare all'aggettivo “manifesta” la valenza qualificante dell'”insussistenza del fatto rivelerebbe l'intento legislativo di contenere la tutela reintegratoria ai casi di recesso fondati su ragioni organizzative ovvero tecnico-produttive del tutto fittizie e la cui consistenza, oltre a non giustificare sul piano oggettivo l'impugnato licenziamento (ipotesi di mera insussistenzadel giustificato motivo oggettivo”) risulti apertamente smentita sul piano ontologico (ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto”).

In tal senso, depongono invero le prime pronunce propense a riservare l'ipotesi di cui al combinato disposto dei commi 7 e 4 ai casi di più lampante e clamorosa insussistenza dei presupposti di fatto addotti dal datore di lavoro, identificati in dottrina come casi di c.d. “torto marcio”, qualificando come manifestamente insussistente “il fatto che non si sia verificato nella realtà (per esempio chiusura di un esercizio commerciale che continua ad operare)”. (cfr. pronunzie rese dal Tribunale di Roma nel proc. n.43677/2013 e dal Tribunale di Milano nel proc. n.273/2014).

Tanto premesso ed evidenziata la portata teleologica dell'interpretazione accolta, appare chiaro il motivo per cui il percorso espositivo della sentenza in commento prenda l'abbrivio proprio dalla ribadita “intenzione del legislatore” di riservare il ripristino del rapporto di lavoro a casi del tutto “residuali” che si pongano come “eccezione alla regola” della tutela indennitaria: trattandosi di constatazione sistematica idonea, ex articolo 12 delle preleggi, ad interpretare in senso restrittivo l'ambiguo dato normativo.

È in armonia con tali premesse dunque che la Corte, fondando la propria statuizione reiettiva sulla rilevata “esistenza” del fatto posto a base del licenziamento (interdittiva prefettizia ostativa alla prosecuzione dell'attività), ha confinato i profili di invalidità ravvisati nella fattispecie nell'alveo del successivo comma, chiudendo qualsiasi spiraglio all'invocata tutela reintegratoria che, di contro, avrebbe richiesto “un connotato di particolare evidenza nell'insussistenza del fatto”.

In particolare, pur imputando alla parte datoriale di non aver dimostrato le ragioni che avrebbero reso “intollerabile attendere la rimozione dell'impedimento alle normali funzioni del lavoratore”, il Collegio ha ritenuto di far confluire tale illegittimità, afferente al nesso causale fra il fatto ed il licenziamento, nelle “altre ipotesi” di cui al comma 7 (che rinvia al c. 5), e dunque nel regime sanzionatorio che funge da regola generale.

In conclusione, può dunque affermarsi che le motivazioni fornite dalla Corte di Cassazione appaiono esaustive e coerenti con la volontà del legislatore storico di sancire il radicale passaggio da un'epoca ispirata al modello del property rule a un regime di liability rule o regola dell'indennizzo.

Trattasi di un tassello che si inserisce, come noto, nel più ampio contesto della flexsecurity, segnando una tappa del percorso conclusosi di recente con la definitiva ed univoca esclusione, prevista dalla legge in caso di licenziamento economico illegittimo, della stessa “possibilità” per il personale assunto con contratto a tutele crescenti, di accedere alla tutela “della reintegrazione… nel posto di lavoro”, anche nei casi più gravi, di manifesta insussistenza del fatto(cfr. art. 1, c. 7 lett c) della Legge 10 dicembre 2014, n.183 e D.Lgs n. 23 del 4 marzo 2015).

Guida all'approfondimento

- V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. It. dir. lav. 2012, 563-564.

- M. Barbieri, D. Dalfino Il licenziamento individuale nell'interpretazione della legge Fornero. Bari, 2013.

- M. Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, Arg. dir. lav., 1 del 2013.

- M. Ferraresi Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Dalla legge 604 del 1966 al contratto a tutele crescenti. Torino, 2016.

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