Servitù (tutela)
26 Febbraio 2018
Inquadramento
Avverso le condotte lesive del diritto di servitù i rimedi apprestati dall'ordinamento giuridico, a protezione di tale diritto reale minore, rientrano nel seguente ventaglio di ipotesi: l'azione petitoria tipica di confessoria servitutis; le azioni generali di natura personale, con precipua finalità riparatoria; le azioni generali a tutela del possesso, di spoglio o di manutenzione, in ragione della natura dell'incisione sulla signoria di fatto attuata ad immagine della servitù.
Azione confessoria
L'art. 1079 c.c. regola la gamma di azioni specifiche che competono al titolare della servitù ai fini di tutelare tale diritto reale minore. Segnatamente al titolare della servitù spetta la legittimazione ad agire in giudizio per ottenere l'accertamento dell'esistenza della servitù stessa e altri provvedimenti di salvaguardia, precisamente aventi ad oggetto la tutela inibitoria, attraverso la richiesta che si disponga la cessazione degli eventuali impedimenti e turbative arrecati all'esercizio della servitù stessa, la rimessione delle cose in pristino e il risarcimento dei danni. Queste forme di tutela, riconosciute a difesa del diritto di servitù, sono inquadrate nell'alveo dell'actio confessoria servitutis, che costituisce azione a carattere reale, esperibile contro chi contesta l'esercizio della servitù medesima. Secondo alcuni vi può essere, tanto una confessoria di condanna diretta a far cessare, previo accertamento della servitù, gli impedimenti e le turbative, quanto una confessoria di mero accertamento della servitù. In base ad altra tesi, l'autentica confessoria sarebbe solo la prima, ossia la confessoria di condanna, previo accertamento, mentre la confessoria di mero accertamento sarebbe inquadrabile nell'ambito delle ordinarie azioni dichiarative. Legittimazione attiva
L'azione confessoria può essere proposta, sempre in ragione del disposto di cui all'art. 1079 c.c., dal titolare della servitù, indipendentemente dalla sua qualità di proprietario del fondo dominante. In senso conforme a tale conclusione l'art. 1012, comma 2, c.c. prevede che l'usufruttuario possa far riconoscere l'esistenza della servitù a favore del fondo o l'inesistenza di quelle servitù che si pretende di esercitare sul fondo medesimo. Tuttavia, la norma citata impone all'usufruttuario l'obbligo di chiamare in giudizio il nudo proprietario. Ove, invece, sia il nudo proprietario ad agire in confessoria, la giurisprudenza ritiene non necessaria la partecipazione al giudizio dell'usufruttuario (Cass. civ., sez. II, 12 maggio 1971, n. 1375). La legittimazione attiva spetta altresì all'enfiteuta, onde far riconoscere in giudizio l'esistenza della servitù, senza alcun riferimento al nudo proprietario, essendo questi abilitato a costituire una servitù in favore del fondo oggetto del suo dominio, ai sensi dell'art. 1078 c.c., ed in applicazione analogica dell'art. 1012, comma 2, c.c., secondo cui l'usufruttuario può far riconoscere l'esistenza delle servitù a favore del fondo (Cass. civ., sez. II, 28 aprile 2017, n. 10617). Nel caso di comproprietà o di condominio sul fondo dominante, secondo la tesi maggioritaria della giurisprudenza, sostenuta da una parte della dottrina, la legittimazione, sia attiva che passiva, spetta a ciascun contitolare; per converso, secondo la dottrina prevalente, in questa ipotesi si avrebbe un litisconsorzio necessario tra tutti i comproprietari o i condomini, ai sensi dell'art. 102 c.p.c., in base all'assunto secondo cui la confessoria, mirando all'accertamento di un diritto che non esiste se non in favore di tutti, importa una decisione che non può pronunziarsi se non in confronto di tutti. In base ai più recenti approdi giurisprudenziali, l'actio confessoria, e così anche l'actio negatoria servitutis, dà luogo a litisconsorzio necessario passivo solo se, appartenendo il fondo servente pro indiviso a più proprietari, l'azione sia diretta anche ad una modificazione della cosa comune (mediante rimessione in pristino), che altrimenti non potrebbe essere disposta o attuata pro quota in assenza di uno dei contitolari del diritto dominicale, mentre, ove l'azione sia diretta soltanto a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l'esercizio, l'esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non è configurabile un litisconsorzio necessario, né dal lato attivo, né da quello passivo (Cass. civ., sez. VI/II, 6 aprile 2016, n. 6622; Cass. civ., sez. II, 10 maggio 2004, n. 8843; Cass. civ., sez. II, 7 giugno 2002, n. 8261).
Legittimazione passiva
La legittimazione passiva dovrebbe spettare, a rigore, esclusivamente a colui che, nella qualità di proprietario del fondo servente, può esperire l'azione negatoria per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa e ciò perché non si può contestare l'esercizio della servitù senza contestare la sua esistenza. Nondimeno, secondo la dottrina prevalente, la legittimazione passiva compete anche agli eventuali titolari di diritti reali minori di godimento sul fondo servente nonché al possessore o al detentore del fondo stesso e, ancora, a chiunque impedisca il libero esercizio della servitù. Al riguardo, la giurisprudenza sostiene che in linea di principio legittimato passivo principale, se non l'unico e necessario, è il proprietario del preteso fondo servente; inoltre, la legittimazione passiva spetta al titolare di un diritto reale minore sul fondo o al possessore suo nomine. Segnatamente, la Suprema Corte puntualizza che la legittimazione dal lato passivo è in primo luogo di colui che, oltre a contestare l'esistenza della servitù, abbia un rapporto attuale con il fondo servente (proprietario, comproprietario, titolare di un diritto reale sul fondo o possessore suo nomine), potendo solo nei confronti di tali soggetti esser fatto valere il giudicato di accertamento, contenente, anche implicitamente, l'ordine di astenersi da qualsiasi turbativa nei confronti del titolare della servitù o di rimessione in pristino ex art. 2933 c.c.; gli autori materiali della lesione del diritto di servitù possono, invece, essere eventualmente chiamati in giudizio, quali destinatari dell'azione di cui all'art. 1079 c.c., soltanto se la loro condotta si sia posta a titolo di concorso con quella di uno dei predetti soggetti o abbia comunque implicato la contestazione della servitù, fermo restando che, nei loro confronti, possono essere esperite, ai sensi dell'art. 2043 c.c., l'azione di risarcimento del danno e, ai sensi dell'art. 2058 c.c., l'azione di riduzione in pristino con l'eliminazione delle turbative e molestie (Cass. civ., sez. VI/II, 22 gennaio 2014, n. 1332). Ove l'azione sia proposta a tutela di una servitù di passaggio che attraversi più fondi, allo scopo di far riconoscere in giudizio l'esistenza della servitù, è controverso in giurisprudenza se parte necessaria del giudizio sia soltanto il proprietario del fondo servente che abbia contestato l'esistenza del diritto ovvero anche i proprietari degli altri fondi interposti.
Anche la P.A. può essere evocata in giudizio con l'azione confessoria. In particolare, sulla scorta del dovere che discende dalla clausola di una convenzione inerente ad un piano di lottizzazione urbanistica con la quale, a fronte della cessione a titolo gratuito al comune di alcune aree destinate a verde pubblico da parte del privato, viene costituita, a favore della residua proprietà di quest'ultimo, una servitù non aedificandi a carico delle aree cedute, la controversia che dovesse insorgere per la mancata osservanza di tale convenzione, oltre ad appartenere alla giurisdizione del giudice ordinario, va ricondotta nell'ambito della previsione di cui all'art. 1079 c.c., involgendo un diritto di natura reale che, benché scaturito dall'esecuzione della convenzione, configura, per la sua valenza erga omnes, una fonte autonoma di rapporti giuridici (Cass. civ., sez. un., 11 aprile 2017, n. 9284). Presupposti
L'azione confessoria, quale azione reale a difesa della servitù, presuppone che vi siano contestazioni sulla legittimità dell'esercizio della servitù mentre, ove siano integrate delle mere turbative o minacce che non implichino la contestazione della servitù, si verte in un ambito applicativo estraneo a quello regolato dalla norma. L'attore che agisce in confessoria servitutis ha l'onere di provare l'esistenza del relativo diritto, presumendosi la libertà del fondo, che si pretende servente, da pesi e limitazioni (Cass. civ., sez. II, 8 settembre 2014, n. 18890); non è all'uopo sufficiente la mera esistenza di opere visibili e permanenti, la cui esistenza non rappresenta, ipso facto, un modo autonomo di acquisto della servitù, ma solo il presupposto dell'acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia (Cass. civ., sez. II, 1 luglio 2004, n. 12008). Tuttavia, la prova della proprietà non è altrettanto rigorosa di quella richiesta per la rivendicazione, posto che, mentre con quest'ultima azione si mira alla dichiarazione del diritto di proprietà sul fondo, nel caso dell'azione confessoria si domanda soltanto l'affermazione del vincolo di servitù con le eventuali altre conseguenti dichiarazioni di diritto, onde la proprietà del fondo dominante costituisce unicamente il presupposto dell'azione ed è sufficiente che emerga anche attraverso delle presunzioni (Cass. civ., sez. II, 18 novembre 2013, n. 25809). Nell'ipotesi di inosservanza della pattuita limitazione di inedificabilità, il proprietario del fondo dominante può agire nei confronti del proprietario del fondo servente con l'azione di natura reale di confessoria servitutis per chiedere ed ottenere la rimessione in pristino ed il risarcimento del danno, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni (Cass. civ., sez. II, 2 dicembre 1993, n. 11948). Le turbative di cui può chiedersi la cessazione con l'azione confessoria non devono consistere necessariamente in alterazioni fisiche attuali dello stato di fatto, essendo sufficiente un comportamento che ponga in dubbio o in pericolo l'esercizio della servitù (Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 1999, n. 1214). In ogni caso, l'indagine sulla sussistenza, ad opera del proprietario del fondo servente, di atti di violazione o turbativa della servitù va condotta con riferimento all'estensione ed alle modalità di esercizio della servitù medesima, come fissate dal titolo costitutivo, e - pertanto - deve tenere conto anche delle specificazioni che tale titolo contenga in ordine alla utilitas, ove le stesse non abbiano mero valore indicativo, ma valgano a qualificare e delimitare il diritto (Cass. civ., sez. II, 13 aprile 1991, n. 3942). Al titolare della servitù spetta, oltre alla concorrente tutela possessoria, l'azione di risarcimento di cui all'art. 2043 c.c. ovvero, ai fini della riduzione in pristino con l'eliminazione delle turbative o molestie, l'azione di reintegrazione in forma specifica prevista dall'art. 2058 c.c. Il danno derivante dalla limitazione del relativo esercizio deve ritenersi in re ipsa, sicché non è necessaria la sua dimostrazione (Cass. civ., sez. II, 31 marzo 2017, n. 8511). Azione personale
La tutela personale del titolare della servitù, che sia stato leso nel proprio diritto, si esplica secondo le regole generali attraverso l'azione risarcitoria, la quale, oltre a potersi esperire in via autonoma, può essere innestata nell'azione confessoria, senza peraltro perdere la propria natura e i propri caratteri. Ad avviso di alcuni esponenti della dottrina, in tal caso l'azione assumerebbe una generale e completa funzione restitutoria, che ne snaturerebbe quasi il carattere. Sull'applicabilità dell'art. 2058, comma 2, c.c., il quale conferisce al giudice la facoltà di disporre che il risarcimento del danno avvenga per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, gli orientamenti giurisprudenziali non sono pacifici.
Azione possessoria
La difesa del possesso a immagine della servitù può attuarsi con riferimento a tutte le servitù passibili di possesso, tra le quali le servitù non apparenti e quelle negative. Al riguardo, la Suprema Corte ha chiarito che la presenza di opere visibili e permanenti, indicative di un transito, configura un requisito necessario ai fini dell'acquisto della servitù di passaggio per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, ma non anche per la tutela possessoria del passaggio medesimo, essendo a tal fine sufficiente la prova dell'effettuazione di detto transito sul bene altrui (Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 2012, n. 879; Cass. civ., sez. II, 29 aprile 1999, n. 4351; Cass. civ., sez.un., 18 febbraio 1989, n. 958). Nelle servitù negative, nelle quali l'esercizio del diritto non si esplica mediante un comportamento positivo sul fondo servente, il non uso si identifica nella mancata osservanza dell'onere di riattivazione del diritto successivamente ad un evento che lo abbia violato e tale evento si produce per il solo verificarsi di un fatto che ne ha impedito l'esercizio. Sicché, in conseguenza di tale violazione, lo ius prohibendi può essere esercitato attraverso la proposizione delle azioni possessorie e, in tal caso, non è possibile subordinare la tutela giuridica di tale servitù all'esistenza di un concreto pregiudizio derivante dagli atti lesivi, dato il carattere di assolutezza di questa situazione giuridica soggettiva (Cass. civ., sez. II, 29 aprile 2010, n. 10280; Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21629; Cass. civ., sez. II, 10 aprile 2000, n. 4499). Per la tutela possessoria di una servitù di passaggio è irrilevante che il proprietario del fondo servente ignori l'esercizio di tale passaggio altrui, purché questo sia provato, e dalle relative modalità risulti altresì l'animus possidendi (Cass. civ., sez. II, 23 novembre 1999, n. 12965). Qualora la condotta posta in essere a detrimento della servitù si traduca in una radicale privazione della signoria di fatto ad immagine della servitù, ovvero in un'assoluta sottrazione della disponibilità del potere di fatto, sarà integrato uno spoglio, tutelabile con l'esercizio dell'azione di reintegrazione; qualora, per converso, il contegno lesivo attuato sia limitativo dell'esercizio del possesso ovvero apporti un aggravamento o ne renda scomoda l'utilizzazione, senza incidere sul piano qualitativo sull'oggetto della servitù, ossia senza che il modo di esercizio della servitù rimanga modificato dal mutamento dello stato dei luoghi, cosicché la servitù stessa possa continuare ad essere esercitata nel modo e con i mezzi con cui in precedenza veniva già esercitata, si avrà una turbativa, tutelabile con l'azione di manutenzione. Ad esempio, ricorre spoglio ove l'esercizio di una servitù di passaggio sia radicalmente impedito attraverso l'apposizione di un cancello chiuso, senza che il possessore abbia la disponibilità delle chiavi di accesso; ove l'ostacolo apposto si limiti, invece, a rendere più difficile il passaggio, comunque possibile con le stesse modalità qualitative, ricorrerà una molestia. Si avrà, invece, spoglio parziale qualora la condotta lesiva implichi un mutamento qualitativo delle modalità di esercizio della servitù, sebbene tale esercizio non sia radicalmente precluso. Così ove la servitù di passaggio sia originariamente esercitabile sia con mezzi agricoli sia con automobili e in via pedonale, e - all'esito del comportamento azionato da terzi - sia possibile il solo transito con automobili o il solo passaggio pedonale, si avrà spoglio parziale (Cass. civ., sez. II, 22 gennaio 2013, n. 1494; Cass. civ., sez. II, 28 luglio 1986, n. 4835; Cass. civ., sez. II, 21 maggio 1983, n. 3534). Biondi, Le servitù, Milano, 1967, 638; Branca, Servitù prediali, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1987, 488; Burdese, Le servitù prediali. Linee teoriche e questioni pratiche, Padova, 2007, 119; Comporti, Le servitù prediali, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, Torino, 1982, 254; Grosso - Deiana, Le servitù prediali, Torino, 1963, 1053; Tamburrino - Grattagliano, Le servitù, Torino, 2002, 185. |