Uso della cosa locata diverso da quello pattuito
28 Febbraio 2018
Inquadramento
Tra le obbligazioni fondamentali del conduttore, accanto a quella essenziale relativa al pagamento del canone, troviamo quelle che attengono alla custodia ed all'utilizzo del bene. L'art. 1587 c.c. stabilisce che il conduttore deve «prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti desumersi dalle circostanze». La presa in consegna dell'immobile locato implica a carico del conduttore l'obbligo della custodia e della conservazione del bene. Un particolare modo di atteggiarsi della custodia e della conservazione del bene si esplica proprio con l'obbligo di utilizzare l'immobile e di servirsene per l'uso stabilito nel contratto ovvero per quello che può altrimenti desumersi dalle circostanze. Ciò sta ad indicare che, in prima battuta, il conduttore, nell'utilizzo dell'immobile, deve attenersi alle indicazioni contenute nel contratto ovvero alla comune intenzione delle parti, mentre solamente nel caso in cui manchino tali indicazioni può farsi riferimento alle altre “circostanze” per ricavare e determinare quale sia il corretto utilizzo del bene, che rientri quindi nelle facoltà contrattuali attribuite (esplicitamente o implicitamente) dal contratto al conduttore. Si è rilevato come la destinazione dell'immobile costituisca, quindi, un elemento che vale ad individuare l'ampiezza del diritto di godimento del conduttore e a porvi un limite. L'eventuale mancato rispetto dell'obbligo di utilizzo dell'immobile in conformità con quanto pattuito costituisce un inadempimento e la c.d. legge sull'equo canone, con una delle disposizioni tutt'ora in vigore, prevede espressamente che «se il conduttore adibisce l'immobile ad un uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione» (art. 80 l. n. 392/1978). Il tema dell'obbligo di utilizzo dell'immobile nel rispetto della sua destinazione d'uso ovvero nel rispetto della destinazione stabilita pattiziamente dalle parti implica prima di tutto di chiarire cosa debba intendersi per destinazione d'uso ovvero per «uso determinato nel contratto».
La ratio dell'art. 1587 c.c. risiede, dunque, nell'esigenza di salvaguardare la destinazione d'uso impressa all'immobile dal contratto. Il legislatore ha, infatti, inteso tutelare il locatore sotto il profilo della sua volontà di adibire l'immobile ad un determinato uso (cioè, come detto, quello contrattuale ovvero in mancanza di questo quello desumibile dalle altre circostanze concrete). Tale previsione normativa ha l'evidente scopo di garantire che l'immobile non venga preservato solo nella sua struttura fisica ma anche e soprattutto nella sua destinazione giuridica ed economica. La modifica anche di uno solo di tali elementi, infatti, può incidere sull'essenza del contratto in particolare nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso finisca con il modificare gli elementi strutturali del bene ovvero la sua funzionalità e, conseguentemente il rapporto sinallagmatico. Può affermarsi che l'utilizzo dell'immobile per un uso diverso da quello pattuito costituisce sempre un inadempimento ma non sempre costituisce un inadempimento grave, idoneo a determinare la risoluzione del contratto di locazione. Per destinazione d'uso può intendersi tanto la indicazione generica, ad esempio, uso abitativo o uso non abitativo o uso commerciale quanto una più pregnante e specifica indicazione, ad esempio, riferita all'ambito merceologico dell'uso commerciale come “ristorazione”, “vendita abbigliamento”, “libreria”, “palestra”, “teatro”, “attività professionale” ecc. La volontà delle parti potrà opportunamente essere enunciata nel contratto ovvero desumersi e precisarsi sulla base di altre concorrenti circostanze. Si ritiene, in tal senso, che la locazione di un immobile abitativo debba far ritenere la destinazione contrattuale “abitativa” implicita ed in re ipsa, senza necessità di alcuna ulteriore specificazione al riguardo nel contratto. Nel caso in cui né dalla volontà espressa delle parti né da altri elementi sia possibile individuare la destinazione d'uso dell'immobile, si è ritenuto che in tal caso il conduttore possa adibire l'immobile a qualunque uso compatibile con la natura del bene. È particolarmente interessante notare che anche il non uso del bene potrebbe ritenersi in contrasto con il dovere di utilizzare il bene in relazione all'uso pattuito. Si è in particolare precisato che mentre il conduttore di regola non ha l'obbligo di utilizzare il bene locato, diversamente si deve ritenere nel caso in cui «il contratto abbia ad oggetto o una cosa produttiva o un bene il cui uso sia necessario alla sua conservazione, ovvero quando il prolungato non uso potrebbe provocare un deprezzamento del valore di mercato del bene locato, come nel caso di un immobile destinato ad un uso commerciale che resti chiuso per anni, Nella suddetta ipotesi il non uso della cosa locata posto a base della domanda di risoluzione contrattuale, deve essere valutato, non ai sensi dell'art. 80 della legge sull'equo canone che contempla il caso di unilaterale mutamento di uso del bene locato, bensì alla stregua dei criteri generali in tema di inadempimento contrattuale, per stabilire se e in quali limiti questo sussista e, qualora sussista, quale importanza abbia ai sensi dell'art. 1455 c.c.»(Cass.civ., sez. III, 4 marzo 2005, n. 4753). Come si è già fatto cenno, il criterio di fondo cui deve essere improntata la condotta del conduttore, nel rispetto della destinazione d'uso del bene locato, è la diligenza del buon padre di famiglia. Questo vuol dire che il conduttore è tenuto a utilizzare il bene in conformità con le intese contrattuali, anche per quanto riguarda la destinazione dell'immobile. La diligenza del buon padre di famiglia è criterio tale per cui anche un mutamento d'uso parziale potrebbe determinare una violazione del divieto di utilizzare la cosa locata per un uso diverso da quello pattuito. Quindi anche per il mutamento d'uso parziale deve verificarsi se le modifiche apportate alla destinazione del bene ovvero l'utilizzo “diverso” abbiano apportato una modifica dell'equilibrio giuridico e funzionale del negozio. Si ritiene, peraltro, che l'esecuzione di una contenuta attività artigianale (sartoriale) nell'ambito di un immobile locato ad uso abitativo non possa integrare una modifica della destinazione d'uso dell'immobile.
In definitiva, il limite posto al godimento dell'immobile, rappresentato dall'uso conforme alla sua destinazione è tale da dover essere rispettato dal conduttore per tutto il corso del rapporto locativo, sicché il locatore «ha diritto di esigere in ogni tempo l'osservanza dell'obbligazione di cui al citato art. 1587 n. c.c. e di agire nei confronti del debitore inadempiente» (così Cass.civ., sez. III, 11 maggio 2010, n. 11345). Il locatore può, comunque, prestare il proprio consenso al mutamento di destinazione d'uso dell'immobile locato anche nel corso del rapporto; anche se non è prescritto alcun onere di forma per la manifestazione di tale consenso, sarebbe buona norma che il consenso venga prestato per iscritto per ridurre il rischio di incertezze e possibili controversie al riguardo. In ogni caso, ove il consenso venga prestato in forma tacita è necessario che rivesta i caratteri della riconoscibilità sociale, nel senso di univocità degli elementi che confermano il consenso, in maniera tale che possa essere data certezza all'assenso del locatore al mutamento di destinazione. In particolare è stato chiarito che per aversi l'assenso, sia pure tacito del locatore che convalidi l'illegittima modifica della destinazione posta in essere dal conduttore «è necessario che sussistano elementi concreti ed atti inequivoci tali che, nel comportamento delle parti, possa individuarsi la volontà derogatrice della clausola circa l'uso contrattuale convenuto. A tal fine, la semplice tolleranza, ed anche la stessa scienza ed inerzia, del locatore non costituisce acquiescenza del medesimo in ordine al mutamento di fatto nella destinazione dell'immobile, posto arbitrariamente in essere dal conduttore, in contrasto con i patti contrattuali» (Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2002, n. 11055). Come si è visto, l'art. 80 della l. n. 392/1978 stabilisce che la destinazione di un immobile ad un uso diverso da quello pattuito consente al locatore di richiedere la risoluzione del contratto «entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione». Lo stesso articolo stabilisce, altresì, che «decorso tale termine senza che la risoluzione sia stata chiesta, al contratto si applica il regime corrispondente all'uso effettivo dell'immobile. Qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso prevalente» (art. 80, comma 2, l. n. 392/1978). In ogni caso, si è ritenuto che la risoluzione del contratto non possa conseguire ad una modifica della destinazione d'uso soltanto precaria e temporanea ma solamente nel caso in cui la nuova destinazione modifichi quella originaria in maniera stabile. L'inosservanza del divieto di destinare l'immobile locato ad un uso diverso da quello pattuito consente, peraltro, la risoluzione del contratto solo ove costituisca un inadempimento grave ed abbia determinato una rilevante alterazione del sinallagma contrattuale. In particolare si è precisato che la pronuncia di risoluzione del contratto implica la valutazione in ordine alla non scarsa importanza dell'inadempimento. Tale valutazione deve essere operata alla stregua di un duplice criterio: «in primo luogo, il giudice, applicando il parametro oggettivo, deve verificare che l'inadempimento abbia inciso in misura apprezzabile nell'economia complessiva del rapporto (in astratto, per la sua entità e, in concreto, in relazione al pregiudizio effettivamente causato all'altro contraente), si da creare uno squilibrio sensibile nel sinallagma contrattuale; nell'applicare il criterio soggettivo, invece, il giudicante deve considerare il comportamento di entrambe le parti (un atteggiamento inconsapevole o una tempestiva riparazione ad opera dell'una, un reciproco inadempimento o una protratta tolleranza dell'atra) che può, in relazione alla particolarità del caso, attenuare il giudizio di gravità nonostante la rilevanza della prestazione mancata o ritardata»(così Cass. civ., sez. III, 18 febbraio 2008, n. 3954). Tale complesso esame, rimesso alla valutazione del giudice può rendere opportuno, soprattutto nell'interesse del locatore, di rafforzare sul piano contrattuale la sanzione per l'eventuale violazione dell'obbligo di non modificare la destinazione d‘uso dell'immobile locato, mediante l'inserimento, ad esempio, della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. In via esemplificativa, appare significativa una pronuncia con cui si è ritenuto che nel caso di una locazione che aveva ad oggetto un locale ad uso deposito, l'utilizzo del deposito in violazione degli accordi contrattuali mediante che comportava «un'attività di vendita al pubblico, determinava l'insorgenza di una situazione giuridica nuova che comportava, fra l'altro, l'applicabilità delle disciplina dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, la quale, pur non acquisendo prima della cessazione del rapporto la fisionomia di un diritto azionabile, altera in maniera rilevante l'originario equilibrio tra le rispettive obbligazioni, anche future, delle parti in danno del locatore» (Cass. civ., sez. III, 19 luglio 1996 n. 6511). La disciplina civilistica in materia di mutamento di destinazione d'uso dell'immobile locato è, peraltro, integrata dalla previsione posta dall'art. 80 della l. n. 392/1978 che, con specifico riguardo alla locazione degli immobili urbani, prevede la risoluzione del contratto qualora il conduttore adibisca l'immobile ad un uso diverso da quello contrattualmente pattuito, purché la domanda di risoluzione sia proposta dal locatore entro tre mesi dalla conoscenza del fatto. Trascorso tale termine, infatti, si applica il regime giuridico corrispondente all'uso effettivo dell'immobile e, qualora l'uso sia mutuato solo parzialmente, il regime relativo all'uso prevalente. Tale termine di tre mesi si ritiene un termine di carattere processuale soggetto alla sospensione feriale dei termini.
In caso di cessione del contratto di locazione, si è ritenuto che l'obbligo del risarcimento del danno per l'inosservanza degli obblighi di cui all'art. 1587, n. 1), c.c. sorga in capo a chi, cedente o cessionario, era conduttore al momento in cui il danno si è verificato «salva in ogni caso la responsabilità solidale di entrambi nei confronti del locatore» (Cass. civ., sez. III, 1 giugno 2004, n. 10485). Casistica
Maccari, Mutamento di destinazione d'uso e perdita dell'avviamento commerciale, in Nuova giur. civ. comm., n. 5/2008; Zappata, La rinnovazione (con modifiche) per fatti concludenti di un contratto nullo, in I contratti, n. 1/2000; Falabella, Le obbligazioni del conduttore, in La locazione, II, Torino, 2010, 1023. |