Può costituire violazione del dovere di lealtà e probità la formulazione di un'eccezione processuale?
19 Marzo 2018
Il problema
L'avvocato, nell'esercizio della propria attività defensionale, deve informare il proprio operato secondo dettami di correttezza, lealtà e probità principi da osservare e rispettare anche nel rapporto con i patroni avversari e, in più in generale, con gli operatori del diritto. L'avvocato, però, è e rimane sempre un difensore e, pertanto, il suo ruolo essenziale consiste nell'esercizio del dovere di difesa da assicurare al proprio assistito. Le due posizioni, sovente, incontrano momenti di criticità e tensione poiché il bilanciamento degli interessi contrapposti non sempre risulta di agevole espressione. Sta all'avvocato, pertanto, procedere al predetto contemperamento, certamente, ricorrendo ai canoni ed ai principi deontologici, ma, altresì, esercitando la funzione di patrono con consapevolezza del ruolo e padronanza delle situazioni processuali, requisiti indefettibili onde evitare lo scadimento dell'esercizio del diritto di azione in un mero abuso di facoltà processuali. Senonché, l'avvocato, anche forza di una irrefrenabile produzione giurisprudenziale e normativa dal tenore prettamente procedurale - formalistico e sempre meno sostanziale che sta vieppiù caratterizzando l'amministrazione della giustizia in nome di un presunto efficientismo, si trova sovente avviluppato in meccanismi processuali che fanno spesso prevalere il cavillo procedurale rispetto all'accertamento cognitivo del diritto. L'avvocato, però, nell'uniformarsi alla tendenza, rischia di venir meno ai principi deontologici (di lealtà e correttezza) nella misura in cui, ad esempio, dovesse far prevalere, nelle proprie strategie defensionali, l'applicazione della asettica procedura all'accertamento nel merito del diritto vantato. Ed invero, il ricorso «abusivo» al formalismo procedurale sovente determina, quale giusto precipitato, lo scadimento del diritto di azione non più uniformato ai canoni deontologici - che dovrebbero suggerire una oculata calibrazione delle strategie defensionali - ma il risultato processuale tout court, tanto da considerare il denigramento del patrono avverso perfino una strategia di difesa, e valutare, per contro, la dimostrazione processuale delle proprie tesi nel corretto contraddittorio delle parti, quasi un inutile orpello dialettico. In tal senso, vien da chiedersi se siano o meno da censurare, sotto il profilo prettamente deontologico, tutte quelle espressioni di difesa, meramente rituali rectius irrituali, dilatorie ed ostracistiche che tendono ad evitare una pronuncia nel merito, mirando, per contro, solo ad ottenere un provvedimento di mero rito. Difesa e colleganza
Nonostante la deontologia forense si fondi sostanzialmente ed essenzialmente sui rapporti di assistenza e difesa della parte assistita non si possono però ignorare quelli con la «controparte». La controparte è definita, nell'accezione comune, come parte avversa con ciò già significando la portata della percezione di conflittualità che regola i rapporti con la controparte ed altresì con il patrono avverso. Ebbene, la controparte merita di essere rispettata ed i rapporti con essa si devono ispirare ai doveri di dignità, probità e decoro ma anche di lealtà e correttezza, oltre ai doveri che di seguito verranno trattati. Di contro, individuare il confine tra il dovere di difesa ed il dovere di lealtà e correttezza da porsi al collega di controparte non sempre risulta un'operazione di agevole formulazione. Vero è infatti che nelle fattispecie concrete che si propongono all'attenzione dell'avvocato sovente si dipanano questioni con profili di incertezza di non facile soluzione. In particolare, con riferimento al tema che si va qui ad analizzare ci si domanda quale sia il limite da non varcare onde evitare di sconfinare dall'alveo del dovere di difesa nel diverso ambito del comportamento deontologicamente non conforme, irrispettoso dei doveri di lealtà e correttezza. Secondo dottrina e giurisprudenza i comportamenti censurabili constano in una serie di attività processuali volte non solo ad alterare la naturale dialettica processuale, almeno in teoria da conformarsi al principio del contraddittorio, traendo quindi utilità da eventuali mancanze imputabili alla difesa di controparte, ma anche e soprattutto in quelle consistenti in manovre scorrette con fini defatigatori e pretestuosi, le quali intralciano o semplicemente ritardano il regolare svolgimento del processo. Al di là della casistica nota quali attestazioni di fatti contrari a verità, produzioni di documentazione alterata, esibizione di comunicazioni riservate e non producibili, sottrazioni documentali et similia vien da domandarsi però se anche l'esercizio abusivo delle facoltà e dei poteri insiti nella difesa e rappresentanza tecnica possano integrare o meno la violazione dei precetti di cui agli artt. 9 e 46 del codice deontologico forense. E più in dettaglio se il ricorso ad eccezioni in rito con carattere meramente dilatorio, disancorate da ogni e qualsivoglia giustificazione fattuale, rientrino nell'alveo del dovere di difesa ovvero incontrino il diverso limite sotteso al dovere di lealtà e correttezza processuali di cui all'art. 88 c.p.c.. In forza di un orientamento ormai dilagante, riscontrabile non solo in ambito forense ma altresì tra la magistratura giudicante, il ricorso e l'utilizzo in ambito processuale di eccezioni, deduzioni e contestazioni di natura meramente rituale ha assunto, in proporzione, un peso preponderante ove posto in relazione con le pronunce in merito. Ciò se da un lato ha determinato un esaurimento delle vicende processuali con tempistiche e modalità certamente più snelle ed efficienti, di contro si è ottenuto l'indubbio quanto perverso risultato che diverse fattispecie poste all'attenzione del giudicante non abbiano raggiunto il vaglio dell'accertamento cognitivo delle posizioni fattuali in quanto tali. Ed invero, la predetta tendenza trovando terreno fertile tra gli operatori del diritto in forza del prefato paradigma efficientistico che informa, almeno a parole, la macchina della giustizia nostrana rischia di allontanare gli stessi operatori dall'obiettivo sommo che dovrebbe, per contro, indirizzarne l'operato ed ovvero l'accertamento del diritto posto alla base dell'azionata pretesa giuridica nel contraddittorio delle parti. All'avvocato, inoltre, nell'esercizio delle proprie funzioni viene altresì richiesto di salvaguardare, nell'espletamento della predetta funzione, anche il rapporto di colleganza professionale. Difatti, il primo comma dell'art. 46 del codice deontologico forense dispone che: l'avvocato deve ispirare la propria condotta all'osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza. Da una lettura asettica della predetta formulazione emergerebbe che il primario dovere di un avvocato consti nel dovere di difesa della parte assistita e, quasi (ma non troppo) in subordine, nel rispetto dello spirito di colleganza con il collega di controparte, quasi a voler far proprio l'ormai noto assunto «prima avvocato e poi collega». Mantenendo ferma la predetta linea di demarcazione, va di contro posta l'attenzione però sui limiti, confini e modalità di estrinsecazione del rapporto di colleganza che non può arrestarsi e contenersi a meri formalismi del tutto asettici e, quindi, scevri di ogni e qualsivoglia portata sostanziale. Ed infatti, ad esempio, il comportamento di un patrono che richieda la condanna dell'avvocato di controparte ex art. 96 c.p.c. per aver agito con dolo o colpa grave senza che ve ne ricorrano i presupposti, ma verosimilmente, solo per corroborare così da renderla più incisiva la propria linea difensiva non può non integrare una condotta violazione del dovere di lealtà e correttezza (Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27200). Ancora, sollevare in corso di causa al collega di controparte un'eccezione ancorchè in rito scaturente da un orientamento del Giudice di legittimità pervenuto in data successiva alla proposizione della domanda coltivata dal patrono avverso, a parere di chi scrive, non può non assurgere ad ipotesi contraria a quanto disposto dall'art. 9 del codice deontologico. A questo punto viene da considerare che rinunciare a sollevare un'eccezione, ancorchè abusiva, dilatoria ed irrituale, ma potenzialmente efficace, costituisce assunzione di impegno di non poco conto da parte dell'avvocato, ma parimenti va altresì ribadito che risultare vittoriosi non in forza della dimostrazione delle proprie tesi defensionali, bensì ricorrendo alla cavillosità processuale vuol significare ricondurre il ruolo dell'avvocato a mero burocrate, più attento, si passi l'iperbole, alle modalità di collazione di un atto piuttosto che al contenuto dello stesso. Alla luce di quanto testé riportato non vi è chi non veda di come le prefate disposizioni deontologiche e codicistiche debbano suggerire agli operatori del diritto ed all'avvocato in particolare di procedere ad un bilanciamento degli interessi, compito non certo sempre agevole, tra quella che è la missione ultima dell'avvocato, difendere le ragioni dell'assistito, e quelle che sono le modalità in cui detta missione debba essere svolta. I canoni ed i precetti sussunti nel codice deontologico lasciano intendere che all'avvocato è rimesso l'ingrato ma indefettibile compito di valutare di volta in volta l'ambito, i confini ed i limiti entro i quali operare il contemperamento di interessi contrapposti. Di certo, trincerarsi dietro l'asettico formalismo insisto nella formulazioni di eccezioni irrituali ovvero il ricorso ad iniziative processuali non rispecchianti i prefati canoni di lealtà e correttezza non costituiscono un paradigma di riferimento su cui informare il predetto contemperamento di interessi contrapposti, ma, di contro, rischiano di fornire solo linfa all'esercizio abusivo del diritto all'azione, così da far scemare l'espressione del sommo ed insopprimibile diritto alla difesa, come la risultante di un'applicazione sterile ed asettica di norme processuali, non funzionali alla vera tutela dei diritti soggettivi. In questo dato momento storico, infatti, in cui il ruolo dell'avvocato è sottoposto a sollecitazioni non sempre edificanti tanto da farne scemare ruolo e funzioni, spetta proprio all'avvocato recuperare la propria dignità ribadendo la centralità del ruolo anche per il tramite del rispetto dei canoni deontologici cosi da eccedere i limiti di un formalismo processuale ormai soffocante che diversamente tende ad imbrigliarne e coartarne le funzioni defensionali. Non avvocato e poi collega, ma avvocato ed anche collega.
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