Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il c.d. "licenziamento economico"

Francesco Rotondi
09 Aprile 2018

Con la riforma della disciplina sui licenziamenti, implementata in due fasi dalla Riforma Fornero e dal Jobs Act, è stata posta in essere una vera e propria “rivoluzione culturale” (prima ancora che giuridica) del diritto del lavoro italiano. È stato, fondatamente, sostenuto che il nuovo assetto rimediale permette al datore di lavoro di “prevedere” in anticipo quale sia il costo del recesso “illegittimo”. Nell'articolo l'Autore prende in esame sia il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia per gli assunti prima del 7 marzo 2015 che per quelli assunti successivamente al 7 marzo 2015, senza tralasciare l'obbligo del repechage.
Premessa

Con la riforma della disciplina sui licenziamenti, implementata in due fasi dalla L. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero) e dal D.Lgs. n. 23/2015 (uno dei decreti attuativi della legge delega L. n. 183/2014, dichiaratamente recante “Disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” invero volta a modificare, ancora una volta, il sistema italiano di c.d. Employment Protection Law) è stata posta in essere una vera e propria “rivoluzione culturale” (prima ancora che giuridica) del diritto del lavoro italiano.

È stato, fondatamente, sostenuto che il nuovo assetto rimediale, prediligendo il rimedio indennitario a quello duplice reintegratorio/risarcitorio, ha introdotto una nuova “funzione” della responsabilità datoriale, volta non più tanto a “compensare” il lavoratore dal danno subìto in ragione della perdita illegittima del posto di lavoro, quanto piuttosto a permettere al datore di lavoro di “prevedere” in anticipo quale sia il costo del recesso “illegittimo” (con incontrovertibile richiamo alla suggestiva teoria giuseconomica del c.d. efficient breach, riassunta dal celebre detto del Giudice Holmes: “the duty to keep a contract at common law means a prediction that you must pay damages, if you do not keep it, and nothing else”).

Tale nuova funzione è (o dovrebbe essere) relegata all'illegittimità del solo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia il recesso datoriale «determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (cfr. art. 3, L. n. 604/1966, tutt'oggi in vigore); infatti, nessuna esigenza di prevedibilità del costo del recesso può trovare ragionevole accoglimento – ad avviso di chi scrive, ed indipendentemente dall'attuale tenore letterale del D.Lgs. n. 23/2015 – nel caso di illegittimità di un licenziamento per motivi soggettivi (ossia disciplinare).

La portata della rivoluzione di cui si parla, senz'altro oggetto di strumentalizzazione politica e propagandistica sotto il profilo della reale idoneità del nuovo sistema a raggiungere gli obiettivi legislativi, è stata forse non ancora compresa appieno sotto il profilo sistematico ermeneutico, nonché – per quanto qui rileva maggiormente – sotto il piano pratico e operativo.

Si cercherà qui di puntualizzare, seppur per sommi capi, quali sono i principali accorgimenti, sotto il profilo pratico, che permettono all'operatore del settore di apprezzare appieno le potenzialità del nuovo sistema rimediale di Employment Protection Law “all'italiana”.

Il punto da cui partire è la precisazione che, a partire dal 7 marzo 2015, la disciplina sui licenziamenti si articolerà in due binari paralleli e tra loro non comunicanti: ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sarà applicata la disciplina sui licenziamenti vigente prima dell'emanazione del Jobs Act, ossia quella modificata dalla Riforma Fornero; ai lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015, invece, si applicherà la disciplina sui licenziamenti prevista dal D.Lgs. n. 23/2015.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per gli assunti prima del 7 marzo 2015

Come oramai noto ai più, la Riforma Fornero è intervenuta direttamente modificando l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e creando un sistema rimediale graduato in tutele di diversa intensità.

La massima protezione (data dall'applicazione del duplice rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento c.d. “pieno” del danno) è accordata con riferimento ai c.d. licenziamenti nulli (ad esempio discriminatori) e inefficaci (perché intimati in forma orale).

Una tutela, per così dire, “intermedia” è invece accordata a quei lavoratori che subiscono un licenziamento per giustificato motivo oggettivo «nell'ipotesi in cui [il Giudice] accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» (art. 18, VII comma, St. Lav.). È il caso (frequente) del licenziamento per “revisione della struttura organizzativa” o per “razionalizzazione delle divisioni aziendali esistenti” o ancora per “riduzione dei costi fissi” (tanto per citare alcune delle dizioni più frequentemente utilizzate nella prassi), laddove poi la “riorganizzazione”, “razionalizzazione” o "l'abbattimento dei costi” non sussista effettivamente, o – circostanza assimilabile sotto il profilo processuale (posto che gli oneri probatori incombono integralmente sul datore di lavoro) – nel caso il datore di lavoro non riesca a dimostrare che tali circostanze effettivamente sussistano.

Infine, «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo», la tutela riservata al lavoratore licenziato sarà più “debole” e il datore di lavoro sarà condannato alla corresponsione di una “indennità risarcitoria omnicomprensiva” tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Tale ipotesi residuale è, a ben vedere, quella cui l'operatore deve tendere quando, in fase di valutazione dei presupposti e di analisi della fattibilità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, decide di “staccare il licenziamento”. E, infatti, tale ipotesi permette una certa prevedibilità (seppur non matematica, come invece accade nel caso di licenziamenti intimati nei confronti dei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015) del “costo del licenziamento” nel caso in cui quest'ultimo fosse considerato illegittimo.

Si tratta, ovviamente, di una prevedibilità limitata, per così dire, alla “cornice edittale” della sanzione applicabile; infatti, il datore sa di andare incontro ad una esposizione indennitaria non inferiore a dodici e non superiore a ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ma non è in grado di prevedere ex ante l'importo esatto del “costo del licenziamento”, che il Giudice andrà a valutare sulla base di criteri (quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e la condizione delle parti; criteri, insomma, che lasciano al Giudice ampia discrezionalità, nell'ambito della cornice edittale, di liquidare l'indennità risarcitoria).

Per limitare i rimedi a disposizione del lavoratore a quella che sopra abbiamo chiamato la sola tutela “debole”, il datore di lavoro dovrà porre specifica attenzione a non incorrere in uno dei casi in cui si applica la tutela “forte” e quella “intermedia”.

In particolare, il licenziamento dovrà essere intimato senz'altro in forma scritta (onde evitare il vizio dell'inefficacia) e contenere una motivazione che dia specifico atto di quali siano i fatti posti alla base del licenziamento.

Per avere una maggior tenuta, il licenziamento dovrà essere sempre motivato dalla soppressione del posto di lavoro, con redistribuzione delle mansioni in capo al personale già in forze presso la Società.

Fortemente sconsigliabile poi è l'assunzione di una nuova risorsa chiamata a svolgere le medesime mansioni del lavoratore licenziato, e ciò sotto molteplici profili.

In primo luogo, infatti, ai sensi dell'art. 15, L.n. 264/1949, i lavoratori licenziati «[…] hanno la precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda entro sei mesi».

Inoltre, una nuova assunzione per lo svolgimento delle medesime mansioni renderebbe praticamente inapplicabile la tutela “debole”, poiché costituirebbe un elemento che il lavoratore, a torto o ragione, potrà agevolmente utilizzare per sostenere "l'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento” (con applicazione della tutela “intermedia”) o, peggio ancora – nel caso in cui riesca a produrre ulteriori motivi di “astio” nei suoi confronti – la discriminatorietà o ritorsività del licenziamento (con applicazione, in tale caso, perfino della tutela “forte”).

Sotto il profilo procedurale, nel caso in cui datore di lavoro che intenda licenziare un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 abbia più di 15 dipendenti, l'art. 7, L.n. 604/1966 prevede che il licenziamento debba essere preceduto da una procedura conciliativa davanti alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera.

Infine, occore fare una considerazione processuale. La Riforma Fornero aveva introdotto, con riferimento alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18, St. Lav., un rito speciale a cognizione sommaria (il Rito Fornero), rito che dopo soli due anni e mezzo di vita è stato abrogato per i licenziamenti intimati nei confronti del personale assunto dopo il 7 marzo 2015.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per gli assunti successivamente al 7 marzo 2015

Con il D.Lgs. n. 23/2015, il modello di responsabilità datoriale in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo è funzionale a permettere al datore di lavoro una (questa volta) piena prevedibilità del costo del licenziamento, così fornendo le basi per una esatta attualizzazione dell'esposizione economica cui è sottoposto il datore di lavoro in ragione dell'aleatorietà dell'eventuale giudizio di accertamento della legittimità del licenziamento.

Ed infatti, con il Jobs Act la regola è che «[…] nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo […] il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».

Il nuovo regime rimediale rimette pertanto ad un calcolo matematico, basato esclusivamente sull'anzianità aziendale, la liquidazione dell'indennità cui il lavoratore avrebbe diritto se fosse accertata l'illegittimità del licenziamento intimatogli.

Si tratta dunque di una “tutela debole” applicabile in ogni caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, e ciò indipendentemente dal fatto che, all'esito della fase istruttoria, il datore di lavoro sia stato effettivamente in grado di dimostrare che sussistesse il fatto posto alla base del licenziamento (e dunque ad esempio la “riorganizzazione”, “razionalizzazione” o l'“abbattimento dei costi”).

A questo punto, in assenza di una “tutela intermedia”, c'è da attendersi (ed effettivamente si è verificato nella pratica) un notevole incremento delle domande giudiziali volte a sostenere la nullità del licenziamento, unico caso – oltre alla fattispecie del licenziamento inefficace perché intimato in forma orale – in cui l'art. 2 del D.Lgs. prevede ancora una tutela “forte” (data sempre dall'applicazione del duplice rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento c.d. “pieno” del danno).

Secondo il nuovo Jobs Act tale ipotesi di nullità occorre, tuttavia, soltanto nei casi in cui il licenziamento sia discriminatorio «ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», tenore letterale che ha già ingenerato notevoli dibattiti in dottrina e giurisprudenza tra chi ravvede in tale dizione un richiamo ai soli casi di nullità testualmente previsti dalla legge (è il caso del licenziamento intimato alla lavoratrice madre che l'art. 54, co. 5, D.Lgs.n. 151/2001 prevede espressamente essere affetto dal vizio della nullità) o anche ai casi di c.d. “nullità virtuale”, ossia quelli in cui il licenziamento è contrario a norme imperative di legge (un esempio è quello del licenziamento in costanza di trasferimento d'azienda; l'art. 2112, IV comma, cod. civ. infatti, pur non chiarendo se un tale licenziamento sia affetto da un vizio di validità o meno, prevede che «[…] il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento»).

Sotto il profilo procedurale, il Jobs Act ha stabilito che nei confronti dei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 non si applichi né la procedura di conciliazione ex art. 7, L.n. 604/1966 davanti la Direzione Territoriale del Lavoro né, in caso di fase contenziosa, il c.d. Rito Fornero.

Tuttavia, al fine di evitare il giudizio, il datore di lavoro potrà offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento e in una sede protetta, un importo – che non costituisce reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale – di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L'accettazione dell'assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l'estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l'abbia già proposta.

In tale modo, il Jobs Act ha portato alle estreme conseguenze il paradigma della “prevedibilità”: così come il datore di lavoro è in grado di conoscere ex ante il costo del suo licenziamento, così il lavoratore è in grado di prevedere in anticipo non solo quale sia la portata massima delle proprie pretese indennitarie nei confronti del datore di lavoro ma anche quale sia l'importo che verosimilmente verrà offerto dal datore stesso per risolvere transattivamente la controversia.

L'obbligo di repechage

Infine, un'ultima chiosa merita la modifica dell'art. 2103 c.c., destinata ad incidere sulla modalità di gestione di tutti i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, indipendentemente dalla data di assunzione del lavoratore in questione: in virtù del nuovo disposto della norma, al momento del licenziamento il datore di lavoro dovrà esercitare il c.d. repechage avendo in mente non soltanto eventuali posizioni disponibili nelle mansioni da ultimo svolte dal lavoratore in questione o in mansioni equivalenti, ma avendo a mente anche mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale (di operaio, impiegato o quadro).

Se questo è un primo (verosimile e, per certi versi, già accreditato) scenario interpretativo è lecito tuttavia porsi una domanda, destinata a indurre l'interprete a prendere atto della modifica che l'intero ordinamento giuslavoristico (inteso come sistema e non come coacervo di disposizioni di legge tra loro separate e non comunicanti) ha subito negli ultimi anni. La domanda, cui facciamo riferimento è: ma siamo davvero sicuri che la portata dell'onere di repechage sia destinata a dilatarsi?

Come visto, il Jobs Act ha sancito oramai la scomparsa del rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, introducendo un sistema rimediale fondato sulla tutela meramente indennitaria ossia su un regime di libera recedibilità; sistema, perlomeno sotto il profilo concettuale, non differente da quello vigente da sempre per il personale con qualifica dirigenziale (nei confronti del quale, non a caso, è tradizionalmente esclusa la possibilità del repechage, in quanto considerato incompatibile con il regime di libera recedibilità del dirigente – cfr. ex multis Cass. 11 febbraio 2013 n. 3157).

La domanda che l'interprete dovrebbe dunque porsi è se hanno ancora senso, a fronte di un assetto rimediale che ha ripudiato il rimedio reintegratorio (ossia la tutela “reale” del posto di lavoro) in favore del rimedio meramente indennitario, le argomentazioni di natura sistematica offerte da quella giurisprudenza e da quella dottrina che hanno “tipizzato” (nel diritto vivente s'intende) la fattispecie del repechage.

E' evidente infatti che, nel caso in cui la risposta a tale domanda fosse negativa, la conseguenza (rivoluzionaria) non potrebbe che essere la scomparsa dell'obbligo di repechage dall'ordinamento giuslavoristico italiano, andando pertanto nella direzione esattamente opposta a quello cui oggi sembrerebbero indirizzate le prime interpretazioni sul tema.

Direzione che, tuttavia, ci sembra perfettamente in linea con i tempi, e con gli assunti di quella sentenza della Suprema Corte di Cassazione 7 dicembre 2016 n. 25201 (sulla legittimità del licenziamento volto, semplificando, ad una migliore efficienza gestionale e ad aumento della redditività d'impresa) che tanto ha trovato attenzione mediatica nell'ultimo anno e mezzo.

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