Interposizione di manodopera: le somme dovute dall'effettivo datore di lavoro che non riammetta il lavoratore in servizio hanno natura retributiva

Luigi Di Paola
17 Aprile 2018

In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto lavorativo ad opera del committente determina per quest'ultimo l'obbligo di corrispondere le retribuzioni a decorrere dalla messa in mora, salvo gli effetti dell'art. 29, co. 3-bis, D.Lgs. n. 276/2003.
Massima

In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l'obbligo di quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni a decorrere dalla messa in mora, salvo gli effetti dell'art. 29, co. 3-bis, D.Lgs. n. 276/2003.

Il caso

Alcuni lavoratori, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'interposizione di manodopera (per riconosciuta non genuinità dell'appalto) con ordine di riammissione dei medesimi in servizio presso la società appaltante, agiscono in giudizio per il conseguimento delle retribuzioni non corrisposte, a far data dalla messa in mora. In primo e in secondo grado le domande vengono rigettate, sul rilievo che, anche a seguito dell'ordine giudiziale di ripristino del rapporto, le somme pretese dai lavoratori nei confronti del reale datore di lavoro conservano natura risarcitoria, sicché da esse va detratta la retribuzione erogata dalla società interposta per l'attività lavorativa prestata a suo vantaggio.

Le Sezioni Unite si mostrano di diverso avviso poiché ritengono che, nel caso, in difetto di una normativa derogatoria debba applicarsi il diritto comune delle obbligazioni, e che, conseguentemente, le somme dovute dal reale datore di lavoro abbiano natura retributiva. Tuttavia si finisce per confermare la sentenza di merito con la diversa motivazione che, in materia, esiste una norma di settore che libera il sostanziale datore di lavoro dal debito retributivo fino a concorrenza della somma pagata dal datore di lavoro fittizio.

La questione

La questione in esame è la seguente: successivamente all'accertamento giudiziale di vicenda interpositoria (es. appalto non genuino), ove l'effettivo datore di lavoro non dia esecuzione all'ordine di riammissione in servizio dei lavoratori, le somme rivendicate dai lavoratori medesimi a seguito di offerta della prestazione hanno natura retributiva o risarcitoria (con conseguente rilevanza dell'aliunde perceptum)?

Il quesito può porsi, in diversa prospettiva, anche nei seguenti termini: le retribuzioni corrisposte ai lavoratori dallo pseudo-datore di lavoro, presso il quale essi abbiano continuato a lavorare pur dopo l'ordine di riammissione in servizio presso il reale datore di lavoro, possono essere detratte dalle somme pretese nei confronti di quest'ultimo?

Le soluzioni giuridiche

Prima dell'intervento delle Sezioni Unite, si era ritenuto (cfr. Cass. 15 dicembre 2016, n. 25933) che “In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina unicamente conseguenze di natura risarcitoria con detraibilità dell'"aliunde perceptum.

Tale orientamento era stato mutuato da quello formatosi in relazione alla analoga vicenda del trasferimento di azienda (cfr., sul punto, Cass. 5 dicembre 2016, n. 24817: “Nell'ipotesi di cessione di ramo d'azienda dichiarata illegittima, le erogazioni patrimoniali, eventualmente commisurate alle mancate retribuzioni, cui è obbligato il datore di lavoro cedente che non proceda al ripristino del rapporto lavorativo, vanno qualificate come risarcitorie, con conseguente detraibilità dell'"aliunde perceptum" che il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsiasi attività lucrativa”).

L'impostazione di fondo era stata, in passato - con riferimento alla disciplina antecedente a quella introduttiva dell'indennità omnicomprensiva forfetizzata di cui all'art. 32, L. n. 183/2010 -, seguita anche per l'ipotesi di declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine (v. Cass. 1 settembre 2015, n. 17368: “In tema di risarcimento del danno sofferto dal lavoratore per l'apposizione di un termine nullo, ai fini della sottrazione dell'aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione (…)”).

Infine, nell'ambito del fenomeno affine del licenziamento, è, notoriamente, l'art. 18 St. Lav. ad ammettere la detraibilità dell'aliunde perceptum, anche per il periodo successivo alla sentenza che dichiara la illegittimità del licenziamento ed ordina la reintegra nel posto del dipendente.

Le Sezioni Unite ritengono, in primo luogo, che, per dirimere la questione sottoposta al loro esame, non sia corretto far riferimento alla disciplina del licenziamento, caratterizzata da specialità e, dunque, non esportabile in altri ambiti.

In secondo luogo richiamano la sentenza n. 303 del 2011 della Corte Costituzionale, in tema di contratto a tempo determinato, ove è affermato che la posta risarcitoria forfetizzata va riconosciuta nel periodo intercorrente tra scadenza del termine e quello in cui interviene il provvedimento giudiziale di conversione, spettando da tale momento le retribuzioni; traendone la conclusione che, nel periodo successivo alla declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera - a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione) - debba gravare sull'effettivo datore di lavoro l'obbligo retributivo.

Il punto chiave della motivazione risiede, ad ogni modo, nell'affermata esigenza di porre rimedio all'incoercibilità del comportamento datoriale, dovendo evitarsi che i lavoratori, secondo i principi generali in tema di adempimento contrattuale, subiscano le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all'esecuzione dell'ordine giudiziale.

Malgrado tale statuizione, i giudici di legittimità escludono che ai lavoratori spetti, nel caso, la “doppia retribuzione”, poiché nell'ambito dell'appalto regolato dal D.Lgs. n. 276/2003 vi è la disposizione di cui all'art. 29, co. 3-bis, ultimo periodo, la quale, nel disciplinare l'appalto non genuino, effettua un rinvio all'art. 27, co. 2 (dettato in tema di somministrazione irregolare), ove è previsto che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.

Secondo la S.C. tale norma consente, in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, “l'incidenza liberatoria dei pagamenti eventualmente eseguiti da terzi (ai sensi dell'art. 1180, co. 1, c.c.) ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione, con applicazione dell'art. 2036, co. 3, c.c. (caso in cui non è ammessa la ripetizione, colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore)”.

Osservazioni

Per come anticipato, la sentenza in commento, anche attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata, rinviene nel diritto comune - che impone di riconoscere natura retributiva e non risarcitoria alla posta monetaria dovuta - il meccanismo idoneo a spingere indirettamente il datore ad eseguire l'ordine giudiziale di riammissione in servizio dei lavoratori.

Tuttavia la presenza di norme “speciali” derogatorie sembra per lo più vanificare l'efficacia di tale meccanismo; il che porta inevitabilmente a ritenere che il tema della natura retributiva o risarcitoria degli importi dovuti al lavoratore dopo la sentenza può rivelarsi non decisivo ai fini della soluzione della problematica generale (del resto il legislatore ha in passato dimostrato di intervenire direttamente sul titolo dell'obbligazione pecuniaria discendente da un inadempimento della retribuzione, plasmandolo a seconda degli istituti e senza una necessaria corrispondenza con i principi dettati dal sistema delle obbligazioni; valga per tutti l'esempio del licenziamento).

Piuttosto occorre constatare che il principio di detraibilità (che esclude il conseguimento, ad opera del lavoratore, della “doppia” retribuzione) si applica, attualmente - avuto riguardo all'impostazione, di taglio generale, seguita dalle Sezioni Unite - al licenziamento illegittimo, alla somministrazione irregolare, in virtù del citato art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003 (oggi abrogato, ma per lo più testualmente riprodotto nell'art. 38, co. 3, D.Lgs. n. 81/2015), e, per effetto di vari rinvii normativi (di cui agli artt. 29, co. 3-bis, e 30 D.Lgs. n. 276/2003), all'appalto non genuino e al distacco illegittimo. Non si applica, per converso, al trasferimento di azienda nullo e al contratto a termine illegittimo.

Ne risulta, quindi, una frammentarietà del quadro priva di giustificazioni immediatamente percepibili, poiché il fenomeno pratico che viene in rilievo - incentrato sul rifiuto del datore di lavoro di adempiere all'ordine giudiziale di riammissione in servizio del lavoratore che, dopo la sentenza (o altro provvedimento di valenza analoga), lavori per terzi - è sostanzialmente comune a tutte le ipotesi sopra considerate.

Ed in proposito va sottolineato che la ritenuta, da parte delle Sezioni Unite, applicabilità al caso - quindi anche per il periodo post-sentenza che accerta l'illegittimità dell'interposizione (il che non era scontato) - dell'art. 27, co. 2, del D.Lgs. n. 276/2003, implica evidentemente la non ravvisabilità di profili di illegittimità nella disposizione, la quale, nella sostanza, in parte si allinea, pur nella diversità della qualificazione giuridica delle somme dovute dal datore di lavoro, a quella dell'art. 18 St. Lav.

Ma se al legislatore é accordato il potere di stabilire la riduzione degli importi dovuti dal datore al dipendente non riammesso al lavoro in misura corrispondente a quanto ricevuto da quest'ultimo per effetto di prestazioni lavorative rese a terzi, finisce per essere rivitalizzata l'impostazione tradizionale, incentrata sull'idea che lo strumento di coazione all'adempimento possa essere rappresentato - in misura sufficiente - dal riconosciuto obbligo datoriale di pagare a vuoto le retribuzioni al lavoratore, senza la necessità di concepire un rafforzamento di tutela integrato dall'obbligo di pagamento della retribuzione anche ove la stessa sia equivalente al compenso percepito aliunde dal lavoratore.

E potrebbe, a questo punto, farsi strada l'idea che la regola dell'efficacia liberatoria dei pagamenti, ex art. 27, co. 2, D.Lgs. n. 276/2003, sia espressione di una opzione dotata di valenza generale, applicabile analogicamente a tutti i casi in cui il lavoratore, anche dopo la sentenza che abbia accertato la sussistenza del suo rapporto di lavoro con l'utilizzatore, abbia lavorato per terzi (restando invece escluso che il pagamento effettuato dal datore di lavoro fittizio possa integrare un adempimento del terzo ex art. 1180, co. 1, c.c., giacché la retribuzione corrisposta dal predetto datore costituisce il corrispettivo di una prestazione resa a suo beneficio dal lavoratore).

Tuttavia se una tale idea dovesse realmente prevalere, verrebbe, nella sostanza, posta nel nulla la rilevanza pratica del principio oggi affermato dalle Sezioni Unite.

Un'ultima annotazione.

La sentenza in commento è destinata ad avere un impatto significativo con riferimento all'istituto della cessione di azienda.

La pratica ha, al riguardo, fatto registrare frequenti casi in cui, a seguito di invalidazione giudiziale di cessione di azienda, alcuni lavoratori non sono stati riammessi in servizio dal cedente ed hanno continuato a lavorare presso l'oramai pseudo cessionario, percependo da quest'ultimo la retribuzione. L'esito delle domande dei lavoratori volte all'ottenimento della retribuzione anche nei confronti del cedente è stato, sino ad oggi, negativo; é stata quindi sollevata questione di legittimità costituzionale dalla Corte d'Appello di Roma (con ordinanza del 2 ottobre 2017), intesa, sostanzialmente, al conseguimento del risultato cui è pervenuta la sentenza delle Sezioni Unite; sembra pertanto plausibile ritenere che il giudice delle leggi possa dichiarare inammissibile la questione, essendo superato, per via giurisprudenziale, l'orientamento su cui essa si fonda.

In conclusione, al di là delle ricostruzioni teoriche, il tutto sembra risolversi in una contrapposizione di giudizi di valore, apprezzabili nei seguenti quesiti di fondo: a) l'effettivo datore di lavoro può ignorare, nel tempo, senza subire conseguenza alcuna, l'ordine del giudice di ricostituzione del rapporto, ove per ragioni varie il datore fittizio non estrometta, come potrebbe, il lavoratore, non più (anzi, mai stato giuridicamente) alle sue dipendenze?; b) è plausibile l'idea che il lavoratore il quale continui a rendere le sue prestazioni alle dipendenze del datore fittizio, pur potendo porre fine al rapporto di fatto, possa ottenere due retribuzioni, una dall'effettivo e una dal fittizio datore di lavoro?

Le risposte possono essere molteplici, essendo molteplici le ragioni sottostanti alla condotta di ciascuna parte (ad esempio, il cedente potrebbe - previo accordo con il cessionario - voler attendere, prima di riassumere i lavoratori, il passaggio in giudicato dell'ordine giudiziale, per evitare ripetuti spostamenti, giudicati dannosi dal punto di vista organizzativo, di un nutrito gruppo di lavoratori da un'azienda all'altra; oppure potrebbe semplicemente gestire, con la complicità del cessionario, la situazione come se la sentenza non vi fosse stata; dal canto suo il lavoratore potrebbe continuare a prestare servizio presso il cessionario per il timore che la cessazione delle prestazioni possa essere valutata negativamente, ad esempio quale indice di dimissioni o di scarsa diligenza nel trovare un'occupazione, o, ancora, per il timore di perdere la propria professionalità).

Prevedere quali saranno gli ulteriori sviluppi giurisprudenziali sulla questione non è agevole, e non può escludersi che, in un'ottica di risistemazione complessiva del sistema (anche sul piano della predisposizione di idonei strumenti coercitivi nell'ambito del diritto del lavoro), sia messa in campo qualche opportuna iniziativa di tipo normativo.

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