SPAC: la natura fiscale della performance fee dei manager
23 Aprile 2018
Premessa
Con il termine private equity si intendono, come noto, tutte quelle operazioni in cui un investitore professionale acquista una quota partecipativa in una società, definita target, con l'obiettivo, entro un arco di tempo limitato (3-7 anni), di realizzare una plusvalenza, o di trarne comunque un guadagno. Nella maggior parte dei casi, per la realizzazione di tali operazioni le risorse finanziarie vengono raccolte sul mercato attraverso la capitalizzazione di veicoli, come, ad esempio, fondi comuni di investimento gestiti da una società di gestione del risparmio, oppure, società di capitali italiane. Generalmente, uno stesso veicolo, anche al fine di diversificare il rischio, effettua più di un'operazione di acquisizione. Nel caso delle SPAC, invece, gli operatori destinano le risorse finanziarie raccolte verso un unico investimento. Il termine SPAC è l'acronimo di Special Purpose Acquisition Company, veicoli di investimento costituiti specificatamente per raccogliere capitale, al fine di effettuare operazioni di fusione e/o acquisizione di aziende. Le SPAC sono uno strumento di investimento a limitato profilo di rischio, con un vincolo temporale ben definito (e più ridotto delle “tradizionali” operazioni di private equity), ma con potenzialità di guadagno anche molto rilevanti, nel caso di successo della business combination. La SPAC ha infatti un orizzonte temporale di 24 mesi per l'identificazione della target e per il completamento della Business Combination, pena lo scioglimento della stessa. I capitali raccolti, come detto, sono destinati ad essere impiegati per un'operazione di acquisizione di una sola società target, mediante qualsiasi modalità, compresa l'aggregazione mediante conferimento o fusione. E, infine, al completamento dell'operazione, le azioni della società target saranno quotate in borsa. Tanto premesso, e senza poter entrare comunque, in modo approfondito, nel merito delle tante tematiche fiscali che possono caratterizzare le SPAC, è interessante evidenziare la seguente questione.
La natura reddituale della performance fee del manager della SPAC
Le SPAC sono, in sostanza, veicoli societari quotati, contenenti esclusivamente cassa, il cui obiettivo è quello di acquisire una quota di una sola target, per poi procedere alla sua fusione per incorporazione. Un ruolo chiave, in tali tipi di operazioni, è assunto dai manager, i cui compiti consistono, principalmente, nella raccolta delle risorse finanziarie durante la fase costitutiva del veicolo, nell'individuazione di una società target, e nella gestione della successiva trattativa di acquisto, compreso anche il supporto al management della target nella definizione delle future strategie aziendali, volte ad accrescere il valore della società. Appare allora evidente che il ruolo dei manager è fondamentale per la buona riuscita dell'investimento. Allo scopo di “fidelizzare”, allora, il più possibile, i manager e di far coincidere i loro interessi con quelli degli investitori terzi, oltre alle ordinarie forme di retribuzione, è prassi che questi partecipino, come co-investitori, nell'iniziativa, acquisendo una quota minima di capitale nello stesso veicolo. La caratteristica di questa partecipazione al capitale consiste nel fatto che si crea così una “categoria speciale di azioni”, portatrice di un carried interest, ossia di un particolare diritto che può consistere nel diritto a ricevere una parte consistente dell'utile generato dall'investimento, dopo che gli investitori sono stati remunerati con un adeguato rendimento, oppure nel diritto di convertire le azioni speciali di cui sono titolari in un numero più che proporzionale di azioni ordinarie. Da un punto di vista fiscale, per quel che qui rileva, giova dunque evidenziare che la performance fee non viene riconosciuta ai manager come retribuzione da attività lavorativa, ma piuttosto come dividendo e/o capital gain, connesso appunto alla predetta posizione di co-investitori. Il dubbio che si pone, allora, in relazione a queste particolari forme di co-investimento riguarda la qualificazione, ai fini Irpef, del carried interest, dovendosi, in sostanza, chiarire se lo stesso debba conservare, anche ai fini fiscali, la sua natura di provento finanziario, oppure se debba essere riqualificato come reddito di lavoro dipendente o reddito a questo assimilato. L'eventuale riqualificazione di un reddito finanziario in reddito di lavoro dipendente, o in reddito assimilato, avrebbe, del resto, effetti molto rilevanti in termini di (maggiore) carico fiscale. Mentre infatti i proventi finanziari godono, come noto, di una tassazione sostitutiva, i redditi da lavoro scontano la tassazione ordinaria Irpef, con quindi un notevole differenziale di aliquota tra le due tipologie reddituali. Come chiarito, peraltro, in passato, dall'Amministrazione finanziaria, la categoria del reddito di lavoro dipendente è una categoria estremamente ampia, che ricomprende ogni forma di attribuzione percepita dal lavoratore dipendente, o dall'amministratore, “in relazione” alla propria attività lavorativa e in cui rientrano, quindi, anche le somme e i valori percepiti sotto forma di partecipazione agli utili. Ai fini dunque di un'esatta qualificazione reddituale si dovrà senz'altro partire dall'esame delle clausole statutarie, che disciplinano i diritti e i vincoli propri della categoria speciale di azioni riservata ai manager, verificando, per esempio, se vi siano clausole che hanno l'effetto di “snaturare” la partecipazione al capitale, condizionando la nascita e la cessazione del rapporto partecipativo all'esistenza del rapporto di lavoro (e prevalendo, dunque, in tal caso, la natura di reddito da lavoro su quella di provento finanziario). A tal proposito, peraltro, l'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 103/E/2012, aveva affermato che i proventi derivanti dai diritti patrimoniali “rafforzati”, percepiti dai manager e dai dipendenti titolari di quote o azioni della società, devono configurarsi quali redditi di capitale “solo allorché la partecipazione agli utili mediante tali investimenti non sia subordinata all'esistenza del rapporto di lavoro con l'investitore, dal momento che è ben ipotizzabile che in tal caso il beneficiario potrebbe continuare a mantenere il possesso della partecipazione, anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro”. Laddove poi accada (come in effetti può verificarsi) che il co-investimento da parte del manager non venga effettuato come persona fisica, bensì attraverso società appositamente costituite (italiane o estere), l'Amministrazione finanziaria potrebbe considerare la stessa società fittiziamente interposta, ai sensi dell'art. 37, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e riqualificare dunque il carried interest come reddito di lavoro dipendente.
L'incertezza dell'inquadramento reddituale di tali tipi di proventi dipende, in sostanza, dai criteri di determinazione del reddito di lavoro dipendente stabiliti dall'art. 51 del T.U.I.R., che comprende “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro” (art. 51, comma 1, del T.U.I.R.). L'ampiezza di tale definizione, come detto, è, in teoria, idonea ad attrarre nella categoria dei redditi di lavoro dipendente ogni erogazione riconducibile al rapporto di lavoro. Analogo criterio vige (in virtù del rinvio all'art. 51 del T.U.I.R., contenuto nell'art. 52, comma 1, del T.U.I.R.), per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, tra cui sono compresi, ai sensi dell'art. 50, comma 1, lett. c-bis) del T.U.I.R., quelli percepiti in relazione agli uffici di amministratore, sempreché gli uffici o le collaborazioni non rientrino nell'oggetto dell'arte o professione abitualmente esercitata, circostanza quest'ultima che riconduce il compenso alla categoria dei redditi di lavoro autonomo. Sotto quest'ultimo aspetto, è del resto interessante richiamare la sentenza della Cass. Pen., n. 9635/2014, che, sia pur in via incidentale rispetto al tema oggetto della controversia, ha ricondotto il provento derivante da un diritto patrimoniale rafforzato, pattuito contrattualmente a titolo di compenso per gli obiettivi di performance, tra i redditi di natura professionale, da imputare al professionista (e non alla società estera, costituente uno schermo interposto) “in quanto persona […] in grado di perseguire attraverso la sua consolidata esperienza imprenditoriale e la sua capacità di condurre le trattative, gli obiettivi di performance fissati negli accordi convenzionali”. Né la natura di retribuzione correlata alla prestazione lavorativa del manager può venir meno in considerazione dell'aleatorietà del provento, erogato solo se il fondo genera profitti che superano un livello minimo di rendimento, atteso che analoga incertezza sussiste, in realtà, anche per la retribuzione variabile incentivante. Per altro verso, l'attribuzione a manager e dipendenti di utili più che proporzionali al valore della partecipazione al capitale, laddove finalizzata ad allineare i loro interessi a quelli degli investitori, dovrebbe portare a considerare tali proventi utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti, di cui all'art. 44, comma 1, lett. e) del T.U.I.R., o, in caso di cessione, redditi diversi di natura finanziaria. Al fine di qualificare un provento come reddito da lavoro o provento finanziario bisogna comunque ricorrere al principio di effettività, individuando le mansioni effettivamente esercitate nell'ambito dell'organizzazione aziendale e la ratio del provento a tali mansioni correlato. Tanto premesso, a dirimere le molte incertezze, può però essere oggi richiamato il D.L. n. 50/17, che, all'art. 60, ha previsto che, al verificarsi di determinate condizioni, i proventi derivanti dagli strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati percepiti da manager e dipendenti sono, in ogni caso, qualificati come redditi di capitale o diversi, configurandosi come una forma di remunerazione della partecipazione al capitale di rischio. La relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. n. 50 del 2017 specificava del resto, in proposito, che i criteri dettati dalla norma “intendono allineare la disciplina italiana alle analoghe previsioni normative già in essere nelle principali giurisdizioni europee come Francia e Germania e rendere il Paese più competitivo attraverso la definizione di un quadro normativo più chiaro”. Anche l'Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 25 del 16 ottobre 2017, a seguito della sopra indicata evoluzione normativa, ha poi chiarito la questione del trattamento fiscale del carried interest in relazione ai proventi relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati che derivano dalla partecipazione in società, enti o Oicr, istituiti nel territorio dello Stato o in Stati white list e sono percepiti da amministratori e dipendenti (con esclusione quindi dei soggetti che operano in qualità di lavoratori autonomi). Per l'operatività della presunzione legale di qualificazione del reddito come reddito di capitale o diverso occorrono, in sostanza, le seguenti condizioni:
Infine, viene specificato che la qualificazione reddituale dei carried interests, qualora non vi siano tutti i requisiti indicati, richiede un'analisi volta a verificare caso per caso la natura del provento. Conclusioni
La norma citata traccia dunque ora una linea di demarcazione più precisa, basata sui requisiti di ordine quantitativo e temporale dell'investimento. Certo, per tornare al tema in esame, andrà verificato se le condizioni richieste si attaglino alle concrete modalità di funzionamento della SPAC. Sotto il profilo soggettivo, gli investitori considerati dalla norma sono comunque coloro che intrattengono un rapporto di lavoro dipendente o assimilato con società, enti o società di gestione dei fondi, laddove il riferimento testuale a “dipendenti” e “amministratori” lascia intendere che sono esclusi dall'ambito di applicazione della norma i professionisti coinvolti nel ruolo di consulenti. Sotto il profilo oggettivo, infine, i proventi presi in considerazione dall'articolo 60 cit. sono quelli relativi ad “azioni, quote o strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati”, laddove la previsione normativa non contiene la definizione di diritto patrimoniale rafforzato. Come si può leggere tuttavia ancora nella relazione illustrativa, “Tali strumenti, nella prassi denominati carried interest, comportano una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quelli degli altri investitori, generalmente a fronte dell'assenza di diritti amministrativi, dell'esistenza di temporanei vincoli alla trasferibilità e della postergazione nella distribuzione degli utili, in quanto potranno assumere rilevanza concreta solo se gli investimenti daranno complessivamente luogo a risultati economici al di sopra di determinate soglie”. I diritti patrimoniali rafforzati cui la norma fa riferimento si configurano dunque quale diritto a ricevere una parte dell'utile complessivo generato dall'investimento in misura più che proporzionale all'investimento stesso e, ordinariamente, presuppongono che la generalità dei soci abbia ottenuto il rimborso del capitale investito oltre ad un rendimento adeguato, definito nella prassi “hurdle rate”. Tutte condizioni che sembrano attagliarsi anche alla fattispecie delle SPAC. Come detto, in conclusione, le SPAC non hanno una specifica e dedicata disciplina fiscale, ma l'evoluzione normativa indicata può senz'altro essere di ausilio ad un maggior clima di certezza giuridica, anche rispetto ai profili fiscali legati ai temi sopra evidenziati. |