Modifica della domanda e rito societario
16 Maggio 2018
Massima
In tema di intermediazione finanziaria, la parte che abbia modificato in sede di memoria, ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. n. 5/2003, la propria domanda di nullità del contratto di acquisto degli strumenti finanziari, in quella di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, in conseguenza "delle difese proposte dal convenuto", di ogni genere e tipo, non incorre in una inammissibile mutatio libelli ove la domanda così modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta nella lite o sia ad essa collegata, perché, in tal modo non si determina né la compromissione delle potenzialità difensive della controparte né il sostanziale allungamento dei tempi processuali di definizione della lite. Il caso
Giunge all'attenzione della Suprema Corte una questione che nel corso della seconda metà degli anni duemila ha avuto un risalto del tutto peculiare ed innumerevoli applicazioni giurisprudenziali. Da quanto è dato comprendere dalla concisa esposizione di fatto, una risparmiatrice aveva evocato in giudizio il proprio istituto di credito, “reo” di averla consigliata o comunque non correttamente informata della rischiosità di un investimento in obbligazioni particolarmente “aggressive”, il cui esito era stato affatto diverso da quello prospettato, comportando la perdita del capitale investito. La domanda principale svolta dall'attrice era relativa ad una nullità contrattuale con conseguente condanna della banca convenuta alla restituzione dell'indebito, pari alle somme investite al netto delle cedole medio tempore incassate. Solo in via subordinata ed in corso di causa l'attrice aveva altresì richiesto accertarsi l'inadempimento contrattuale dell'intermediario finanziario, con conseguente condanna al rimborso della stessa somma, ma a titolo di risarcimento del danno. Per una migliore comprensione dei fatti va inoltre ricordato come ai sensi dell'art. 1 lett. b) dell'allora vigente d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, il cd. “rito societario” si applicasse sia al «trasferimento delle partecipazioni sociali, nonché ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i diritti inerenti», sia – in virtù della successiva lett. d) – ai «rapporti in materia di intermediazione mobiliare da chiunque gestita, servizi e contratti di investimento, ivi compresi i servizi accessori, fondi di investimento, gestione collettiva del risparmio e gestione accentrata di strumenti finanziari, vendita di prodotti finanziari, ivi compresa la cartolarizzazione dei crediti, offerte pubbliche di acquisto e di scambio, contratti di borsa». In primo grado la domanda subordinata attorea era stata accolta dal tribunale di Bologna, il quale – dopo aver ritenuto dimostrato l'inadempimento agli obblighi informativi e validamente proposta la domanda subordinata risarcitoria – aveva condannato la banca convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali subiti dall'attrice, pari alla differenza fra le somme investite e le cedole incassate prima del definitivo default della società emittente lo strumento finanziario obbligazionario. Non così il secondo grado. La Corte d'appello Felsinea, infatti, aveva ritenuto fondata l'eccezione pregiudiziale proposta dalla banca appellante e, conseguentemente, dichiarato tardiva ed inammissibile la domanda subordinata risarcitoria avanzata dall'attrice in primo grado. Osservavano i giudici del gravame, infatti, che altro è la domanda di nullità con restituzione dell'indebito versato sulla scorta del titolo negoziale invalido e altro è una domanda risarcitoria che, infatti, presuppone il mantenimento del vincolo negoziale; con la conseguenza che quello che il giudice di prime cure aveva considerato una semplice emendatio libelli consentita, doveva invece qualificarsi come l'introduzione di un'inammissibile nuova domanda. Pertanto, i giudici di secondo grado avevano riformato integralmente la sentenza di primo grado e condannato la risparmiatrice ed i suoi difensori antistatari alla restituzione delle somme ricevute in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre accessori. La questione
I motivi di impugnazione avanzati nei confronti della decisione di secondo grado possono così schematizzarsi: a) Con il primo motivo di impugnazione si è osservato che, in violazione dell'art. 19 del d.lgs. n. 5/2003 e dell'art. 360 n. 5 c.p.c. (omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti) la Corte non avesse rilevato che nell'atto introduttivo era contenuta, quantomeno implicitamente, anche la domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, che poi era stata semplicemente meglio precisata con la successiva memoria prevista dall'art. 6 dello stesso articolato normativo; b) Con il secondo motivo, invece, si è dedotto la violazione degli artt. 1418 e 1218 c.c., nonché 183 c.p.c. (in rapporto all'art. 360 n. 3) per aver ritenuto presente una mutatio libelli quando, invece, l'attrice si era limitata a qualificare diversamente gli stessi fatti, rimasti immutati tanto nella prospettazione originaria quanto in quella precisata con la richiamata memoria ex art. 6; c) Il terzo motivo era volto a denunciare, in relazione alla violazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c., il capo della condanna restitutoria, pronunciata senza che nel giudizio fosse raggiunta la prova che la banca avesse versato delle somme in esecuzione della sentenza di primo grado; d) Il quarto motivo era sempre rivolto a censurare la condanna restitutoria emessa dalla Corte d'appello, rilevando che anche per le spese giudiziali di primo grado non vi era prova in atti che le stesse fossero state erogate dall'intermediario finanziario; e) Infine, con il quinto motivo di ricorso, si è denunciato un vizio di ultra petizione nella parte in cui la condanna restitutoria aveva investito anche i difensori della originaria attrice, i quali non erano stati parte del giudizio, né la banca appellante aveva svolto una siffatta domanda nei confronti di questi ultimi. Le soluzioni giuridiche
I Giudici di legittimità hanno riunito e ritenuto fondati, con carattere assorbente rispetto alle ulteriori censure proposte, i primi due motivi di ricorso, giungendo a cassare la sentenza impugnata ed a rimettere alla Corte d'appello, quale giudice del rinvio in diversa composizione, ogni decisione anche per le spese del giudizio di cassazione. Pur se la motivazione ne compie un riferimento apparentemente secondario, va giustamente sottolineato il rinvio compiuto dalla sentenza in commento alla “storica” decisione della Cass. civ., Sez.Un. 15 giugno 2015, n. 12310 (in Foro it. 2016, 1, I, 255, con nota di Cea e su wwww.ilProcessoCivile.it, con nota di Tedesco), secondo cui «La modificazione della domanda ammessa a norma dell'art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali; ne consegue l'ammissibilità della modifica, nella memoria prevista dall'art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo». Seppure in dottrina si siano levate alcune voci anche critiche nei confronti di detta decisione, va evidenziato come la stessa costituisca ormai “diritto vivente” ed inizi a produrre i suoi effetti anche al di fuori della fattispecie che la stessa aveva originariamente affrontato. Le Sezioni Unite del 2015, infatti, come pure non si è mancato di notare, avevano riguardato una ipotesi abbastanza ricorrente, quella del mutamento della domanda da pronuncia ex art. 2932 c.c. a richiesta di accertamento del verificatosi effetto traslativo sulla scorta del medesimo contratto, qualificato però in senso definitivo e traslativo e non meramente preliminare ed obbligatorio (come invece la prima domanda presuppone). La legittimità di tale diversa prospettazione della domanda giudiziale era già stata saltuariamente affermata e, tuttavia, soltanto con la decisione a Sezioni Unite del 2015 (est. Di Iasi) se ne è dato un fondamento teorico unificante e generale, giungendo ad ammettere che la modificazione consentita della domanda possa persino riguardare la causa petendi o il petitum, purchè resti immutata la vicenda fattuale e sostanziale sulla quale la nuova domanda (denominata complanare) viene ad innestarsi, in modo che la controparte non ne riceve in realtà alcuna compromissione al proprio diritto di difesa e non si determina alcun sproporzionato od irragionevole allungamento dei tempi processuali. Tali principi vengono dalla sentenza in commento calati sul rito societario, adattando il riferimento alla prima memoria di cui all'art. 183 c.p.c. - quale termine utile per esercitare una emendatio libelli “allargata” alle domande modificate - alla memoria prevista dall'art. 6 del d.lgs. n. 5/2003, con la quale «l'attore può replicare con memoria notificata al convenuto e depositata in cancelleria, nonché depositare nuovi documenti» e, più in particolare, può con tale atto di replica «a) precisare o modificare le domande e le conclusioni già proposte; b) a pena di decadenza proporre nuova domande ed eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle difese proposte dal convenuto…». Da qui il riferimento ad altre due precedenti decisioni della Suprema Corte che avevano interpretato in termini non restrittivi ma ampliativi le facoltà esercitabili dall'attore con la citata memoria di replica ex art. 6 (cfr. Cass. civ.,sez. I, n. 816/2016 e Cass. civ., sez. I, n. 29/2017). Con la seconda decisione appena ricordata il Supremo Collegio aveva, infatti, già avuto modo di precisare che «nel rito societario già disciplinato dal d.lgs. n. 5/2003, le domande nuove che l'attore può proporre ai sensi dell'art. 6, comma 2, lett. b), devono essere conseguenza «delle difese proposte dal convenuto», in tale ampia espressione dovendosi ricomprendere ogni possibile deduzione difensiva di quest'ultimo, e quindi non solo le eccezioni, in senso stretto o lato, ma anche le mere difese». Tali affermazioni portano, nel caso concreto, ad un completo ribaltamento della soluzione offerta dai giudici di secondo grado, la cui decisione viene così cassata, dovendosi in definitiva ritenere che la domanda risarcitoria subordinata dell'attrice, precisata soltanto con la ricordata memoria di replica, costituisse una mera emendatio libelli e non una modifica non consentita della domanda di nullità e restituzione dell'indebito, così come già ritenuto in primo grado. Osservazioni
La decisione in commento non ha un interesse esclusivamente “archeologico”, come potrebbe opinarsi in prima battuta, riguardando un rito speciale ormai abrogato. Vi sono, invece, almeno tre ordini di motivi che inducono a sottolineare l'importanza dell'arresto in esame. Il primo motivo, di ordine processuale, riguarda il fatto che il rito societario previsto dal più volte citato d.lgs. n. 5/2003 è stato bensì abrogato dalla fondamentale riforma del processo civile operata con la l. n. 69/2009, a decorrere dal 4 luglio 2009, ma con l'art. 54 comma 6 si è previsto che le disposizioni abrogate continuassero ad applicarsi a tutte le controversie già pendenti alla data di entrata in vigore della ricordata legge di riforma. In questo modo il rito societario si è applicato (ed ha continuato ad essere operativo, seppure “in via di esaurimento”) ad un campione consistente di giudizi riguardanti i plurimi default del mercato obbligazionario di quegli anni, dai casi Parmalat o, come nella fattispecie in esame, Cirio, sino ai bond argentini o alla prima ondata delle controversie riguardanti investimenti in strumenti finanziari derivati e swap. Quindi una decisione destinata a produrre effetti su un contenzioso quantitativamente ed economicamente di tutto rispetto, laddove naturalmente lo stesso possa dirsi ancora pendente. Il secondo motivo, di ordine sostanziale, conferma se non estende la conclusione precedente. Chi si è occupato di contenzioso riguardante strumenti finanziari ricorderà come fosse fortissimo il contrasto, in dottrina e nella giurisprudenza di merito, in ordine alle conseguenze giuridiche connesse alle violazioni dei doveri di informazione e di verifica circa l'adeguatezza dell'investimento da parte degli intermediari finanziari. In estrema sintesi, un orientamento ampiamente diffuso valorizzava la circostanza che tali violazioni spesso si traducessero in clausole contrattuali mancanti o distoniche rispetto al T.U.F. vigente e, conseguentemente, sanzionava in termini di nullità virtuale la patologia contrattuale denunciata. La conseguenza era il diritto dell'investitore, a seguito della pronuncia di invalidità negoziale, di vedersi restituite ex art. 2033 c.c. (cd. indebito oggettivo) le somme investite al netto delle rendite medio tempore incassate dall'investimento. Un orientamento diverso, inizialmente minoritario, all'opposto riteneva che violazioni comportamentali spesso compiute prima o in occasione della stessa stipula del contratto-quadro non riguardassero aspetti strutturali del negozio concluso fra l'investitore e l'intermediario e, rimossa una ulteriore teoria isolata che scomodava i vizi della volontà come il dolo omissivo o l'errore, concludeva come al più potesse parlarsi di inadempimento contrattuale dell'intermediario, ma non di nullità negoziale. Conseguentemente dal punto di vista economico il risparmiatore poteva aspirare al solo risarcimento dei danni subiti o, nei casi più gravi, alla stessa risoluzione del contratto oltre al risarcimento del danno (se provato). Il problema processuale era che, all'epoca, prima delle Sezioni Unite del 2015 e della decisione in commento, qualsiasi passaggio in corso di causa fra l'una e l'altra domanda era prevalentemente considerata una inammissibile mutatio libelli. Tale conseguenza è apparsa in molti casi esiziale rispetto alle aspettative attoree, se si considera che le notissime sentenze “gemelle” Rordorf (dal nome dell'estensore) a Sezioni Unite finirono per avvallare il secondo e fino a quel momento minoritario orientamento: «In relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. "nullità virtuale"), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (nella specie, in base all'art. 6 l. n. 1/1991) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. "contratto quadro", il quale, per taluni aspetti, può essere accostato alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro"; in ogni caso, deve escludersi che, mancando una esplicita previsione normativa, la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c., la nullità del cosiddetto "contratto quadro" o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso» (Cass. civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Giust. Civ. 2008, 5, I, 1175, con nota di Nappi e Banca borsa tit. cred. 2010, 6, II, 686, con nota di Corradi). Tale decisione, ribadita in pari data da altra pronuncia a Sezioni Unite, ebbe – per così dire – un effetto “spiazzante” per molti procedimenti nei quali inizialmente era stata proposta dall'attore la sola domanda di accertamento della nullità negoziale ed ha determinato una “corsa ai ripari” introducendo nella memoria di replica ed in risposta alla comparsa di costituzione dell'intermediario anche una richiesta di risarcimento del danno. Quindi molti procedimenti si trovano (o si sono trovati) nella stessa situazione processuale sulla quale si è pronunciata la decisione in commento. Il terzo motivo, di ordine sistematico, comporta il riconoscimento degli effetti “espansivi” della pronuncia delle Sezioni Unite del 2015 in un settore del tutto diverso rispetto a quello, tutto sommato settoriale, che le Sezioni Unite citate avevano riguardato (relativo al mutamento da pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c. a consentita domanda di accertamento dell'intervenuto effetto traslativo sulla base del medesimo contratto diversamente qualificato). Applicato anche al campo dei contratti di investimento in strumenti finanziari, il principio in parola è infatti destinato a future molteplici applicazioni, anche a tutti i giudizi ordinari che – dopo l'abrogazione del d.lgs. n. 5/2003 – hanno riguardato le stesse materie dell'intermediazione finanziaria, dovendosi semplicemente far riferimento alla prima delle memorie di cui all'art. 183 comma 6 c.p.c., destinata a contenere «precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte», piuttosto che alla memoria di cui all'art. 6 delle abrogate disposizioni. Il limite è ormai soltanto quello della non modificazione dei fatti sostanziali a base delle pretese processuali, da valutarsi sia rispetto al diritto di difesa della controparte (che non deve essere illegittimamente compresso dalla modifica), sia rispetto alla non irragionevole dilatazione dei tempi processuali, tenuto conto che la durata ragionevole del processo, rilevante costituzionalmente, va vista anche in termini complessivi e come possibilità di trattare nell'unico processo tutte le domande cd. “complanari” evitando che un inutile formalismo imponga la reiterazione del giudizio su una domanda modificata ma nascente dalla medesima vicenda sostanziale. Si tratta, come è evidente, di una novità giurisprudenziale destinata a ripensare parzialmente la stessa scansione processuale disegnata dalle riforme del 2009 e ad impegnare anche in altri settori del diritto delle obbligazioni la professionalità del giudice e dei difensori, che in un'ottica di proficua collaborazione, dovrebbe far sì che nella prima udienza di trattazione siano sollevate e discusse tutte le questioni rilevabili d'ufficio e chiesti i chiarimenti necessari di cui si ritenga opportuna la trattazione (cfr. art. 183 comma 4 c.p.c.), al fine di far emergere l'effettivo bene della vita avuto presente dalle parti, delineare i fatti realmente contestati da quelli pacifici, chiarire il contenuto delle domande proposte nel giudizio. In termini più generali, infine, pur se in questa sede la questione può essere unicamente accennata, la decisione in commento porta a chiedersi se sia ancora attuale la distinzione fra diritti eterodeterminati ed autodeterminati, considerato che il riferimento alla medesimezza della situazione sostanziale è concetto che può abbracciare più di una causa petendi finendo per ammettere che l'attore possa “aggiustare il tiro” lite pendente a fronte delle difese e non delle sole domande riconvenzionali del convenuto.
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