Abuso del processo nel rito lavoro e divieto di proporre domande nuove ex art. 420 c.p.c.
22 Maggio 2018
Massima
Il divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio, sancito nel rito lavoro dall'art. 420 comma 1 c.p.c., non preclude, in caso di mutamento in corso di causa del fatto posto a fondamento della domanda, alla parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate domande, di proporne ulteriori nei confronti del medesimo convenuto, con un nuovo e separato ricorso, il quale deve ritenersi completo con l'indicazione, a sostegno delle suddette ulteriori domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio e di cui sia chiesta la riunione per ragioni di economia processuale. In tale ipotesi non ricorre alcuna parcellizzazione della domanda, vietata perché in contrasto con i principi di correttezza e buona fede e con il canone costituzionale del giusto processo, ma una domanda nuova per modificazione della causa petendi, sicché non si configura alcun abuso del processo. Il caso
Tizio agiva in primo grado per ottenere l'accertamento della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati con Poste Italiane S.p.A. e la conversione di detto rapporto in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Successivamente, pendente il primo giudizio, depositava altro ricorso avverso la medesima convenuta, con il quale chiedeva accertarsi l'illegittimità del contratto a termine per il nuovo profilo della violazione della clausola di contingentamento. Il primo giudizio veniva rigettato nel merito. Il secondo veniva dichiarato inammissibile per ritenuto abuso del processo. Avverso le due sentenze di primo grado, Tizio proponeva appello, che pure veniva rigettato. Con il ricorso in Cassazione, l'istante contestava la qualificazione della propria condotta processuale quale abuso del processo operata dal giudice di merito, essendo stati a suo dire pienamente rispettati, per un verso, i principi di buona fede e correttezza – per aver acquisito il bilancio delle Poste, da cui risultava il mancato rispetto della clausola di contingentamento (nuova causa petendi dedotta con il secondo giudizio), soltanto nel corso del primo giudizio – per altro verso, il canone della ragionevole durata del processo – avendo chiesto ed ottenuto la riunione dei due procedimenti. Infine, la preclusione alla proposizione autonoma di una nuova domanda con diversa causa petendi, erroneamente ritenuta dal primo giudice, non essendosi ancora formato il giudicato sul primo giudizio e visto il divieto di proporre nuove domande in seno al quel medesimo giudizio, si era tradotta in una violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.. La questione
La pronuncia in esame si inserisce nell'annoso dibattito ingenerato dalla nozione, di creazione pretoria, di abuso del processo, chiarendo che di esso non può parlarsi allorquando una parte processuale – ferma l'inammissibilità di domande nuove in seno al medesimo giudizio – abbia proposto con un successivo ricorso, nei confronti del medesimo convenuto, ulteriori domande, in conseguenza del mutamento, in corso di causa, del fatto posto a fondamento della domanda originaria. Le soluzioni giuridiche
Il ricorso veniva accolto in parte qua. In motivazione: «L'inammissibilità nel rito del lavoro di una domanda nuova per modificazione della causa petendi, in violazione dell'art. 420, comma 1 c.p.c., in conseguenza del mutamento in corso di causa del fatto posto a fondamento della domanda, variandone le circostanze materiali o introducendone di nuove, con una modificazione così del titolo della domanda, non preclude tuttavia alla parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate domande, di proporne ulteriori, nei confronti del medesimo convenuto, con un nuovo e separato ricorso il quale deve ritenersi completo con l'indicazione, a sostegno delle suddette ulteriori domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio di cui sia chiesta la riunione al secondo per ragioni di economia processuale (…). Non sussiste l'abuso del processo erroneamente ritenuto dalla Corte territoriale, che è configurabile nell'ipotesi diversa di un ingiustificato ed arbitrario frazionamento della domanda, per esclusiva utilità dell'attore inutilmente aggravante la posizione della controparte, in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo: traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. Nel caso di specie non ricorre alcuna parcellizzazione della domanda, ma una domanda nuova per modificazione di causa petendi, ben proponibile per le ragioni suindicate (ovviamente nei limiti di prescrizione e dell'assenza di giudicati preclusivi), sicché non si configura abuso alcuno dello strumento processuale, laddove sia ritenuto ammissibile (e non soltanto in virtù della più generale tutela del diritto di difesa, ai sensi dell'art. 24 Cost.) l'esercizio di un'azione».
Anche nel rito del lavoro, come in quello ordinario, vale il principio del cd. divieto di mutatio libelli, ossia la regola secondo cui le parti non possono proporre domande nuove rispetto a quelle fatte valere con gli atti introduttivi del giudizio, laddove invece, stante il disposto dell'art. 420 comma 1 c.p.c., hanno la facoltà di modificare le proprie domande, eccezioni e conclusioni (cd. emendatio libelli), subordinatamente però al verificarsi di due condizioni: l'autorizzazione del giudice e la sussistenza di gravi motivi. La ratio di tale divieto è facilmente intuibile, atteso che se fosse consentito di porre al giudice in corso di causa un nuovo tema di indagine spostando i termini della controversia, si avrebbe l'effetto di disorientare la difesa della controparte e, quindi, di alterare il regolare svolgimento del processo. In un sistema processuale che, dunque, vieta la mutatio, mentre ammette l'emendatio libelli, giurisprudenza consolidata sostiene che si avrebbe mutatio quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, segnatamente, su un fatto costitutivo radicalmente differente; al contrario, si tratterebbe di mera emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l'interpretazione o la qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere. Fatte queste premesse di ordine sistematico, l'ordinanza in esame ha il merito di chiarire che nel rito lavoro non è tuttavia precluso alla parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate domande, di proporne ulteriori con altro e successivo ricorso, il quale giocoforza sarà completo con l'indicazione, a sostegno delle ulteriori domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio, al quale va chiesta la riunione per ragioni di economia processuale. Le preclusioni previste dall'art. 420 c.p.c., essendo volte a garantire le esigenze del contraddittorio e del diritto di difesa, non impediscono infatti, per non determinarsi alcuna contraddizione con la ratio del relativo divieto, che una nuova domanda, la cui proposizione sia dalle stesse inibita, possa essere separatamente introdotta con un autonomo atto, destinato ad essere riunito a quello originario (Cass. civ., 1 dicembre 2010, n. 24339). Argomentando in questi termini, la pronuncia in commento afferma a chiare lettere che in una fattispecie del genere non si ravvisano i presupposti del cd. abuso del processo, atteso che la condotta di una parte processuale che, successivamente all'instaurazione di un giudizio, ne proponga un altro nei confronti del medesimo convenuto, azionando in seno a tale ultimo procedimento domande nuove basate su elementi fattuali sconosciuti al momento dell'introduzione della prima controversia, costituisce null'altro se non l'esercizio, legittimo e costituzionalmente tutelato, del suo diritto di azione. Viceversa, secondo la Corte, di abuso dello strumento processuale può parlarsi solo nell'ipotesi, diversa da quella scrutinata, di un ingiustificato ed arbitrario frazionamento di un'unica domanda, per esclusiva utilità dell'attore inutilmente aggravante la posizione della controparte, in contrasto con il dovere di lealtà e probità che deve improntare anche la fase processuale del rapporto obbligatorio e con il principio del giusto processo. Osservazioni
Il nostro ordinamento è carente di una precisa definizione di abuso del processo. Dottrina e giurisprudenza hanno proteso nel tempo a considerarlo quale proiezione, in ambito processuale, dell'abuso del diritto, incentrata sugli artt. 88 e 145 c.p.c., i quali impongono il dovere di lealtà e probità tra le parti e al giudice il dovere di esercizio del potere finalizzato al più sollecito svolgimento del processo. Su tale base testuale, è stato allora sostenuto che l'abuso del processo può intendersi quale esercizio improprio del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie processuali. Applicando tale nozione alle controversie che possono ingenerarsi nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato, l'opinione di massima è quella che ritiene che il divieto di frazionamento operi solo all'interno di un rapporto obbligatorio unico in senso proprio, e non all'interno di un rapporto unitario ma composito come quello lavoristico, che innesca una pluralità di obbligazioni di varia natura e fonte – legale e negoziale – che vanno a costituire titoli differenti e, con essi, diversi regimi e presupposti in fatto e in diritto (basti pensare ad alcuni diritti del dipendente la cui prescrizione, pacificamente, inizia a decorrere solo al momento della cessazione del rapporto, proprio perché solo allora essi divengono esercitabili). Se ciò è vero in linea di principio, deve tuttavia segnalarsi che sono state dichiarate improponibili domande successive frazionate che trovavano titolo nella cessazione del rapporto di lavoro, trattandosi della domanda di condanna al pagamento del premio di produzione relativo all'ultimo anno di lavoro, seguita ad un previo giudizio in cui il creditore, già pensionato, aveva esercitato alcuni diritti creditori concernenti l'ammontare del T.F.R., ed era quindi perfettamente in grado di esigere sin dall'inizio in via unitaria entrambe le pretese (Cass. civ., 1 marzo 2016, n. 4016). Analogamente, è stata giudicata abusiva la condotta del dipendente che chieda la condanna dell'ex datore di lavoro al pagamento di una somma a titolo di ricalcolo dell'indennità di premio fedeltà con inclusione dei compensi percepiti in modo continuativo, dopo avere in precedenza domandato la rideterminazione del T.F.R. per incidenza, nella relativa base di calcolo, delle medesime voci retributive continuative (Cass. civ., 3 dicembre 2013, n. 27064). In simili evenienze, si prospetta palesemente un aggravio – innanzitutto in termini di costi processuali - della posizione della parte datoriale, la quale, essendo convenuta in due procedimenti, è costretta a valutare la fondatezza di due pretese che, in realtà, fanno capo ad un rapporto di lavoro ormai concluso, il cui complesso di obbligazioni è dunque ben noto e consolidato. Ancora, la giurisprudenza di legittimità stigmatizza come frazionamento abusivo quello del lavoratore che impugni il licenziamento subìto con un processo per vizi procedimentali e con un altro per vizi di merito (Cass.civ., 11 marzo 2016, n. 4867). Da ultimo, vale la pena segnalare che il divieto di frazionamento della domanda giudiziale si colora di particolare significato nei giudizi in materia di pensione, in cui vige il principio della tendenziale certezza e definitività del decreto di pensione, revocabile e modificabile – d'ufficio o su istanza di parte – nei limiti precisati dagli artt. 204 e 205 d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1092. Ed invero, sussiste la violazione dei predetti canoni quando si torna a mettere in discussione lo stesso decreto di pensione, ogni volta per un motivo diverso ma solo apparentemente nuovo, sicché il decreto stesso e il connesso trattamento di pensione non potrebbero mai dirsi definitivi (Corte Conti Lombardia, 1 ottobre 2008, n. 625). La casistica testé analizzata, nonché, da ultima, la stessa fattispecie passata in rassegna dall'ordinanza in commento – in cui l'operatività in concreto dell'abuso dello strumento processuale viene saggiata alla luce del divieto di proporre domande nuove ex art. 420 c.p.c. – sollecitano, a parere di scrive, alcune riflessioni di ordine generale. La sensibilità dimostrata sul tema dalla Suprema Corte impone, invero, all'interprete di confrontarsi con due ineludibili tasselli dialettici: la buona fede e correttezza attuativa del contratto, da un lato, e l'interesse meritevole di tutela, dall'altro, dalla cui carenza viene distillato il divieto di esercizio abusivo del diritto di azione. La meritevolezza della tutela al frazionamento, in altri termini, non può che essere riscontrata caso per caso, operando quale valvola correttiva per attenuare la perentorietà del divieto. La conseguenza di tale riscontro sulla ricorrenza di un interesse oggettivamente apprezzabile alla proposizione separata di azioni riferibili al medesimo rapporto – richiesto, da ultimo, dalle stesse Sezioni Unite con la nota sentenza 16 febbraio 2017 n. 4090 – è che il giudice dovrebbe, in definitiva, svolgere un controllo per così dire “costituzionalmente orientato”, volto a verificare la sussistenza, nel caso di specie, non solo della possibilità di ricevere dal processo un vantaggio non altrimenti ottenibile se non per la via giudiziaria, ma anche che esso sia effettivamente meritevole ex artt. 111 Cost., 47 e 54 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e 6 Cedu. |