Inibitoria generica: presupposti e orientamenti
13 Luglio 2018
Il quadro normativo
Ai sensi dell'art. 282 c.p.c., così come novellato dall'art. 33 legge 26 novembre 1990, n. 353, la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti. Essa è cioè dotata dell'efficacia esecutiva, ovvero dell'attitudine a fondare un processo di esecuzione forzata. L'esecutività della sentenza di primo grado può essere sospesa, giusto il disposto di cui all'art. 283 c.p.c., su istanza di parte proposta con l'impugnazione principale o con quella incidentale, quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. È questa la cd. inibitoria generica. Una delle questioni di maggiore interesse relativa ai presupposti in presenza dei quali il giudice dell'appello può sospendere l'esecutività della sentenza impugnata, afferisce proprio alla nozione dei “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti", presupposti che, in forza della legge 28 dicembre 2005, n. 263 hanno sostituito la precedente espressione "gravi motivi". Se, infatti, prima della suddetta modifica normativa, la giurisprudenza si interrogava sul se “i gravi motivi” dovessero essere riferiti anche alla sussistenza del fumus boni juris, l'introduzione dell'espressione “fondati” sembrerebbe aver definitivamente dato risposta positiva. Vedremo, come, in realtà la giurisprudenza non è affatto pacifica sul punto, rinvenendosi orientamenti e pronunce che talora valorizzano la necessità della sussistenza anche del fumus e talora, invece, disancorano la concessione dell'inibitoria dalla valutazione di probabile fondatezza dei motivi di impugnazione per legarla unicamente al requisito della gravità dei motivi addotti, intesi quali pericolo di un danno grave e irreparabile. Le sentenze di primo grado esecutive ex lege
Già prima della modifica legislativa del 1990, si discuteva se l'esecuzione provvisoria potesse essere attribuita alle sole sentenze di condanna o anche a quelle costitutive, escludendosi in ogni caso quelle di mero accertamento. Nonostante l'ampia formulazione del novellato art. 282 c.p.c., che come visto attribuisce efficacia esecutiva alle sentenze di primo grado senza operare distinzione alcuna, è pacifico che tra queste non vi rientrano le sentenze di accertamento. Quanto alle sentenze costitutive, la Suprema Corte è granitica nell'affermare che le stesse non possano aver efficacia anticipata rispetto alla formazione del giudicato. Diversa è invece la questione relativa alle statuizioni di condanna accessorie a pronunce costitutive, quali ad esempio il capo di condanna al pagamento delle spese. Più precisamente, la Suprema Corte ha statuito che «ancorché l'art. 282 c.p.c., nella formulazione vigente per effetto della sostituzione operata dall'art. 33 l. n. 353/1990, non consenta di ritenere che l'efficacia delle sentenze di primo grado aventi natura di accertamento e/o costitutiva sia anticipata rispetto alla formazione della cosa giudicata sulla sentenza e debba, dunque, affermarsi che dette sentenze possono vedere anticipata la loro efficacia rispetto a quel momento soltanto in forza di espressa previsione di legge (come accade, ad esempio, nell'art. 421 c.c.), qualora ad esse acceda una statuizione condannatoria (come, ad esempio, quella sulle spese di una sentenza di rigetto di una domanda), tale statuizione, in forza della riferibilità dell'immediata efficacia esecutiva della sentenza di primo grado a tutte le pronunce di condanna, indipendentemente dalla loro accessorietà ad una statuizione principale di accertamento e/o costituiva, deve considerarsi provvisoriamente esecutiva» (Cass. civ., sez. III, sent., 10 novembre 2004,n. 21367). Stesso principio è stato ritenuto applicabile alle statuizioni di condanna consequenziale a pronunce costitutive ex art. 2932 c.c., come ad esempio quella di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo («qualora l'azione ai sensi dell'art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo è da considerare immediatamente esecutiva» Cass. civ., sez. III, sent., 3 settembre 2007, n. 18512). Il subprocedimento ex art. 351 c.p.c. e le differenze con il procedimento cautelare uniforme
Sotto il profilo squisitamente processuale, il procedimento per ottenere l'inibitoria è disciplinato all'art. 351 c.p.c., il quale offre all'appellante (principale o incidentale) una duplice alternativa:
Nel primo caso, la decisione sull'inibitoria sarà assunta, con ordinanza non impugnabile, alla prima udienza. Nel secondo caso, invece, si aprirà un vero e proprio sub procedimento incidentale e di evidente natura cautelare. In particolare, il giudice competente (presidente della Corte d'appello o Tribunale a seconda se ad essere impugnata sia una sentenza del Tribunale o una sentenza del Giudice di Pace) provvederà sul ricorso, ordinando, con decreto in calce al ricorso, la comparizione delle parti in camera di consiglio. Con lo stesso decreto, se ricorrono giusti motivi di urgenza, il Presidente della Corte o il Tribunale può disporre provvisoriamente l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza; in tal caso, all'udienza in camera di consiglio il collegio o il tribunale, conferma, modifica o revoca il decreto con ordinanza non impugnabile. Non pare revocabile che il procedimento in esame segua e riproponga la stessa scansione processuale del procedimento cautelare uniforme (artt. 669-bis e ss. c.p.c.). Tuttavia, a differenza dei procedimenti cautelari di cui all'art. 669-bis e ss. c.p.c., l'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza impugnata, formulata ai sensi dell'art. 283 c.p.c., introduce sempre un subprocedimento incidentale, privo di autonomia rispetto al giudizio di merito (cfr. in questo senso, Cass. civ., sez. VI-2, ord., 5 febbraio 2013, n. 2671), perché, a differenza dei primi (i quali, come noto, possono essere avviati anche ante causam, ovvero prima dell'introduzione della causa di merito), presuppone sempre la previa proposizione dell'appello. Esso, quindi, potremmo dire costituire sempre e comunque un subprocedimento incidentale “in corso di causa”. Così come avviene per i procedimenti cautelari di cui all'art. 669-bis e ss c.p.c., la natura incidentale del procedimento ex art. 283 e 351 c.p.c. e la sua connessione con il giudizio di merito vanno ricondotte unicamente al profilo relativo alla valutazione dei presupposti per la concessione della sospensiva (id est i “gravi e fondati motivi” di cui all'art. 283 c.p.c. e i “giusti motivi di urgenza” di cui all'art. 351 c.p.c. ai fini dell'ottenimento della sospensiva inaudita altera parte) e non anche in termini strettamente processuali. Ed infatti, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire, così rimarcando l'autonomia “processuale” del procedimento, che «La costituzione nella fase dei provvedimenti sull'esecuzione provvisoria della sentenza, disciplinata dall'art. 351 c.p.c., non implica l'automatica costituzione della parte nella fase di merito, atteso che, da un lato, la legge regola il procedimento di inibitoria come autonomo e, dall'altro, diversamente interpretando, l'appellato, costituendosi nella fase sommaria preliminare, sarebbe tenuto a proporre appello incidentale in un termine più breve rispetto a quello fissato dagli artt. 166 e 343 c.p.c. (Nella specie, la Suprema Corte. ha ritenuto che, in una ipotesi in cui la parte era deceduta dopo aver presentato le sue difese in sede di inibitoria ma prima della sua costituzione in appello, l'effetto interruttivo si fosse prodotto automaticamente, al momento e per effetto dell'evento morte, ai sensi dell'art. 299 c.p.c., non essendo necessaria anche la dichiarazione dello stesso in udienza o la sua notificazione alle altre parti, in quanto adempimenti previsti dall'art. 300, commi 1 e 2, c.p.c. per la diversa ipotesi in cui l'evento medesimo colpisca la parte costituita a mezzo procuratore). (Cass., sez. III, sent., 19 settembre 2017, n. 21596). L'autonomia processuale del procedimento di cui all'art. 351 c.p.c. si apprezza anche nella ritenuta ammissibilità dell'appello incidentale proposto con comparsa depositata nel termine di venti giorni antecedenti l'udienza di comparizione fissata con l'avverso atto di citazione in appello, pur se successivamente al deposito di un distinto atto di resistenza all'avversa istanza di sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza impugnata nel procedimento incidentale ex artt. 283 e 351 c.p.c. Ed invero, ha avuto modo di affermare la Suprema Corte, «la resistenza dell'appellato nella sede da ultimo indicata è funzionale e limitata a tale procedimento e non può esaurire il diritto di difesa dell'appellato, sia in relazione alla resistenza all'avversa impugnazione, sia in relazione al diritto all'impugnazione incidentale anche tardiva ex art. 334 c.p.c.» (Cass., sez. II, sent., 4 aprile 2008, n. 8828). Evidente differenza tra l'inibitoria e il procedimento cautelare ex artt. 669-bis e ss. c.p.c. si rinviene nella non impugnabilità dei provvedimenti resi dal giudice d'appello sulla provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado neppure a norma dell'art. 111 Cost. (Cass., sez. VI-3, ord., 3 luglio 2015, n. 13774) a fronte della reclamabilità delle ordinanze cautelari ex art. 669-terdecies c.p.c. Mentre, al pari di queste ultime, le decisioni sulle inibitorie sono destinate ad essere assorbite dalla decisione del merito della controversia. Ed infatti, la sentenza di secondo grado, per il suo carattere sostitutivo, è destinata ad assorbire interamente l'efficacia di quella di primo grado, sicché non occorre che in essa il Giudice si pronunci su eventuali censure avverso il provvedimento adottato in sede di inibitoria. Neppure ove il giudice d'appello si sia egualmente pronunciato su tali censure, la relativa decisione è impugnabile per cassazione, «non avendo il ricorrente interesse a dolersi di una statuizione la cui efficacia si è esaurita con la pronuncia della sentenza di secondo grado, a meno che non deduca una questione relativa alla legittimità degli atti esecutivi eventualmente compiuti dalla parte vittoriosa in forza della sentenza di primo grado e prima della definizione del giudizio d'appello» (Cass., sez. I, sent., 2 ottobre 2015, n. 19708). Si evidenzia, infine, rammentare che la legge n. 183/2011, con il chiaro intento di disincentivare le richieste di inibitoria pretestuose, ha introdotto l'attuale secondo comma dell'art. 283 c.p.c. a mente del quale il giudice d'appello, allorché́ dichiari l'istanza inammissibile o manifestamente infondata, può̀ condannare la parte che l'aveva proposta ad una pena pecuniaria compresa tra 250 e 10.000 euro. Il provvedimento è dato con ordinanza non impugnabile ma revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Si è già detto della evidente natura cautelare del provvedimento che accolga l'istanza di sospensione totale o parziale dell'esecutività della sentenza di primo grado e si è già anticipato che i presupposti per la concessione dell'inibitoria sono stati individuati con la legge 28 dicembre 2005, n. 263 nei gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti,in luogo dei soli “gravi motivi” di cui alla formulazione precedente dell'art. 283 c.p.c. La giurisprudenza di merito ha a lungo dibattuto sulla portata dei presupposti per l'accoglimento dell'inibitoria. Si registrano, sul punto, due diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento “i gravi motivi” di cui all'art. 283 c.p.c., anche nella formulazione precedente alla novella del 2005, devono individuarsi, da una parte, nella delibazione sommaria della fondatezza dell'impugnazione, e, dall'altra, nella valutazione del pregiudizio patrimoniale che il soccombente può subire (anche in relazione alla difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato) dall'esecuzione della sentenza e devono ricorrere entrambi. Secondo altro indirizzo ermeneutico i gravi motivi al concorso dei quali la norma dell'art. 283 c.p.c. subordina la sospensione vanno individuati, alternativamente, nella rilevante probabilità della riforma della decisione gravata dall'impugnazione ovvero nel pericolo dell'irreparabilità del pregiudizio derivante al diritto controverso dall'esecuzione della sentenza. Aderire al primo orientamento implica necessariamente ritenere che ai fini della concessione dell'inibitoria, debbano coesistere simultaneamente gli stessi presupposti richiesti per ottenere provvedimento cautelare di cui all'art. 669-bis e ss. c.p.c.: il cd. fumus boni iuris e il periculum in mora, ossia la probabile esistenza del diritto fatto valere e il rischio di un pregiudizio ad un tale diritto, avente i caratteri dell'imminenza e della irreparabilità, che potrebbe verificarsi per il ritardo del provvedimento definitivo a causa dei tempi del procedimento ordinario. In questa prospettiva, il fumus boni iuris, ai fini specifici dell'inibitoria, impone una valutazione estesa al merito della decisione, ovvero alla probabile e prima facie apprezzabile fondatezza dei motivi dell'impugnazione. Trattasi, così come avviene nei procedimenti cautelari ex artt. 669-bis e ss. c.p.c., di una delibazione sommaria e, secondo parte della giurisprudenza di merito, la probabile fondatezza dei motivi di impugnazione «deve essere di assoluta ed immediata evidenza quanto a incongruità della sentenza impugnata (anche per la presunzione di legittimità che assiste le sentenze di primo grado, in quanto esecutive per legge)» (App. Ancona, 9 maggio 2017). Con riferimento al periculum in mora, esso va inteso quale pericolo dell'irreparabilità del pregiudizio derivante al diritto controverso dall'esecuzione della sentenza. A seconda della pregnanza del fumus o della gravità del periculum, il giudice d'appello è tenuto a interrogarsi sul se un fumus particolarmente evidente possa supplire ad un debole periculum ovvero se un periculum rilevante possa, al contrario, supplire ad un fumus incerto. Trattasi di interrogativi ai quali non può fornirsi risposta univoca e generalizzata, dovendo, la valutazione del giudice, parametrarsi al caso concreto di volta in volta sottoposta alla sua attenzione. Del resto, come chiarito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 4060/2005: «La sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado che il giudice d'appello, ai sensi dell'art. 283 c.p.c., nel testo novellato dalla legge n. 353/1990 può̀ disporre in presenza di "gravi motivi" è rimessa ad una valutazione globale d'opportunità̀, poiché̀ tali motivi consistono per un verso nella delibazione sommaria della fondatezza dell'impugnazione e per altro verso nella valutazione del pregiudizio patrimoniale che il soccombente può subire (anche in relazione alla difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato) dall'esecuzione della sentenza, che può̀ essere inibita anche parzialmente se i capi della sentenza sono separati». Non mancano pronunce di merito che consentono di individuare, con riferimento al requisito del periculum, situazioni in cui il rischio di irreversibile danno al diritto gravato all'esecuzione della sentenza di primo grado sia particolarmente significativo e, per ciò solo, assorbente rispetto alla valutazione sommaria della probabile fondatezza dei motivi di impugnazione. Ci si riferisce agli effetti di demolizione o, in genere, di ripristino dello stato luoghi; a capi di condanna al pagamento di somme di importo rilevante, con rischio di insolvenza da parte del debitore; ad ipotesi in cui la controparte vittoriosa in primo grado risulti scarsamente solvibile, con il rischio che l'appellante difficilmente potrà̀ ottenere le restituzioni in caso di ribaltamento della pronuncia di primo grado ad opera della sentenza d'appello; ovvero ancora ai casi in cui lo stesso debitore appellante versi in condizioni economiche precarie, ad esempio perché ammesso al patrocinio a spese dello stato. Allo stesso modo e specularmente, quando i motivi d'appello, alla luce delle risultanze del primo grado di giudizio, appaiono dotati di un elevato grado di serietà̀ e di oggettiva controvertibilità̀ tali da integrare pienamente gli estremi del presupposto del fumus boni iuris richiesto dall'art. 283 c.p.c., il giudice d'appello a prescindere dall'entità del periculum, potrà sospendere l'efficacia esecutiva della sentenza impugnata. In conclusione
Se è vero che indubbiamente l'attuale formulazione dell'art. 283 c.p.c., ove àncora la concedibilità della inibitoria alla sussistenza di “gravi e fondati motivi”, richiede la contestuale coesistenza di fumus e periculum, è anche vero che, come sovente accade, il giudice, ai fini della decisione sulla inibitoria, è tenuto ad una equilibrata valutazione dello spessore dei motivi di appello e, nel contempo, della gravità del pregiudizio (id est pregiudizio difficilmente emendabile) che la parte appellante può subire dalla immediata esecuzione della sentenza di primo grado. Trattasi di valutazioni prognostiche da effettuarsi caso per caso, avendo cura di operare un adeguato bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti in lite. Riferimenti
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