Incapacità a testimoniare: la casistica nella giurisprudenza di legittimitàFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 246
19 Luglio 2018
Il quadro normativo
La prova testimoniale consiste nella narrazione dei fatti della causa compiuta al giudice da soggetti che sono terzi, ovvero che non sono parti nel processo stesso. La legge prevede alcuni limiti e divieti, a garanzia della genuinità di detta prova, al fine di escludere quei soggetti che, per ragioni diverse, possono essere interessati all'esito del giudizio. In particolare, l'art. 246 c.p.c. dispone che non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Occorre, innanzitutto, rimarcare la differenza concettuale tra incapacità a testimoniare ed inattendibilità del teste. L'incapacità a testimoniare di cui all'art. 246 c.p.c. ha un fondamento di carattere oggettivo, relativo cioè alla posizione giuridica della persona chiamata a deporre rispetto al giudizio e all'oggetto di esso, mentre i successivi artt. 247 e 248 c.p.c. (oggetto di declaratoria di incostituzionalità rispettivamente nelle decisioni della Corte cost.n. 248/1974 e n. 139/1975) facevano riferimento a incapacità derivanti da condizioni soggettive del teste. La fattispecie in esame dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio: da tale situazione discende un'aprioristica attribuzione da parte dell'ordinamento di assoluta parzialità. La questione sull'incapacità a testimoniare non deve essere confusa con quella dell'attendibilità, che afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (precisione, completezza, contraddizioni) e soggettiva (credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti): si tratta di un giudizio effettuato successivamente alla deposizione nell'ambito della valutazione decisoria sul materiale istruttorio. Come accennato, le disposizioni di cui agli artt. 247 e 248 c.p.c. sono state oggetto di declaratoria di incostituzionalità sicché le deposizioni rese da parenti e la testimonianza del minore infraquattordicenne non costituiscono più un'ipotesi di aprioristica incapacità a testimoniare ma sono esclusivamente esposte alla valutazione di attendibilità (Cass. civ., n. 5485/1997). La limitazione della declaratoria di incostituzionalità agli artt. 247 e 248 c.p.c. e la salvezza dell'art. 246 c.p.c., è stata sottoposta ad un severo vaglio critico in dottrina, nel cui ambito sussistono voci che ritengono un relitto storico l'istituto dell'incapacità, del tutto incompatibile con il principio del libero convincimento del giudice: in particolare è stata messa in luce la contraddittorietà tra la norma in esame e l'art. 106 c.p.p. che ammette la deposizione della persona offesa pur costituitasi parte civile. Ai sensi dell'art. 246 c.p.c. la situazione di incapacità sussiste quando il teste sia portatore di un interesse personale, attuale e concreto, tale da legittimarlo a poter partecipare al giudizio nel quale è chiamato a deporre (Cass. civ., n. 11034/2006). Per contro, l'incapacità del teste non sussiste quando egli possa avere un interesse di mero fatto alla decisione: in tal caso il giudice deve comunque tenere conto di detta situazione nella valutazione di attendibilità del testimone. L'interesse alla partecipazione al giudizio, ai fini degli effetti di cui all'art 246 c.p.c., costituisce un aspetto particolare dell'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c. e deve essere valutato in relazione alla concreta situazione giuridica che forma oggetto del giudizio, quale risulta dal contesto delle domande e delle eccezioni (cfr. Cass. civ., n. 3752/79). La valutazione della situazione di incapacità viene ritenuta un giudizio di fatto, demandato ai giudici del merito, come tale incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (Cass. civ., n. 5232/2004). Il principio ispiratore sotteso alla fattispecie risiede nella valutazione che la capacità è in funzione dell'estraneità del soggetto al processo, estraneità compromessa non solo quando il soggetto sia direttamente coinvolto nel rapporto controverso, ma anche quando il suo interesse sia riferibile ad ulteriori azioni che per il loro stretto collegamento con la materia del contendere sono tali da determinare un obiettivo e già concreto interesse alla partecipazione nel giudizio di cui si discute. L'esclusione dalla qualità di teste colpisce, innanzitutto, chi non è terzo e le dichiarazioni della parte possono essere valutate esclusivamente con i limiti e nelle forme dell'interrogatorio formale e del giuramento. L'incapacità si estende anche al rappresentante legale della parte, salvo (Cass. civ., n. 14987/2012) sia cessata la qualità al momento in cui sia indotto come teste o sia ravvisabile uno specifico interesse a partecipare. Secondo l'indirizzo prevalente (Cass. civ., n. 29301/2017 e Cass. civ., n. 16151/2010) nessuna incapacità a testimoniare sussiste per i difensori della parte, non essendo rappresentanti legali, salvo incompatibilità derivante dalla contestualità della funzione di difensore e altre conflittualità di carattere deontologico. La predetta capacità opera in tutti i gradi del giudizio, anche se la persona che aveva assunto la qualità di parte l'abbia successivamente perduta per estromissione dal processo (cfr. Cass. civ., n. 314/1965). In applicazione dei principi in esame, va esclusa la testimonianza di chi è parte in una causa riunita ad un'altra per ragioni di connessione, atteso che dopo la riunione si verifica la comunicazione della qualità di parte a tutti i soggetti nei reciproci rapporti (cfr. Cass. civ., n. 5629/1979; in senso diverso Cass. civ., n. 6932/1987, secondo cui l'eventuale riunione delle cause connesse, per identità di questioni, non può far insorgere l'incapacità delle rispettive parti a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione unicamente incidere sulla attendibilità delle relative deposizioni, che spetta al giudice del merito di deliberare). Oltre la posizione di parte formale del processo, riveste una valenza centrale qualificare la posizione tale da determinare un obiettivo e concreto interesse alla partecipazione nel giudizio. La categoria dei soggetti “interessati” è stata analizzata nell'ambito dell'interesse che legittima le varie forme di intervento nel processo e, superando differenziazioni dottrinali in funzione della tipologia di intervento, nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., n. 1369/1989) è prevalso l'orientamento secondo cui l'incapacità a testimoniare prevista dall'art. 246 c.p.c. colpisce tutte le persone aventi un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, sia in veste di parti principali che di interventori, ai sensi dell'art. 105 dello stesso codice, non solo per fare valere un proprio diritto nei confronti di tutte le parti o di una di esse (intervento principale), ma anche per sostenere le ragioni di alcuna delle parti allorquando ricorra un proprio interesse (intervento adesivo), poiché potrebbero trovarsi nell'alternativa di giurare il falso o di pregiudicare, affermando il vero, un proprio diritto o un proprio interesse di fatto tutelabile in giudizio (Cass. civ., n. 1369/1989). Nello specifico, l'interesse, che legittima l'intervento a norma dell'art. 105, comma 2, c.p.c. e che determina l'incapacità a testimoniare, è stato individuato nella titolarità presunta o affermata di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del giudizio (Cass. civ., n. 1529/1999). Sotto diverso profilo, va osservato come, seguendo un'impostazione tradizionale e rigorosa (sostenuta da plurime decisioni di legittimità nell'importante settore della infortunistica stradale), il teste, se incapace a testimoniare, lo sarà sempre, rimanendo esclusa qualsiasi causa “riabilitativa”. In altri termini, la valutazione di incapacità va condotta sì nel caso concreto, ma a prescindere da quelle circostanze di fatto sopravvenute che nella singola fattispecie potrebbero escludere un residuo ed ulteriore interesse a partecipare al giudizio, ad esempio in caso di transazione o prescrizione del diritto spettante al testimone. Ad esempio, la circostanza che il soggetto indicato quale teste dall'attore danneggiato fosse stato già soddisfatto nelle sue pretese creditorie in conseguenza dell'avvenuto versamento della somma in contestazione non è idonea a “riattivare” una capacità di testimoniare che, appunto, va valutata a prescindere da vicende che costituiscano un posterius facti rispetto alla predicabilità ex ante dell'interesse a partecipare al giudizio (Cass. civ., n. 16499/2011); nello stesso senso, anche i successivi arresti (Cass. civ., n. 19258/2015, n. 3642/2013 e n. 16541/2012), secondo i quali la vittima di un sinistro stradale è incapace ex art. 246 c.p.c. a deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata nel medesimo sinistro, a nulla rilevando né che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto. Casistica
Se si passa dalle declamazioni di principio alla disamina dei concreti casi giurisprudenziali, svanisce il senso di certezza e di unità delle soluzioni. Pertanto, l'analisi della casistica sulla base delle pronunce di legittimità risulta un approccio indispensabile sia a livello dogmatico che operativo. Oltre ai casi di incapacità a testimoniare già accennati in materia di infortunistica stradale (Cass. civ., n. 2441/1975: incapacità del conducente di un veicolo in una causa avente ad oggetto la responsabilità civile del proprietario del veicolo stesso; Cass. civ., n. 16541/2012: la vittima di un sinistro stradale nei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento richiesto da un altro soggetto danneggiato dal medesimo sinistro), ricorrono con una certa frequenza nella prassi giudiziaria i seguenti casi di incapacità.
Sono stati invece considerati capaci di testimoniare.
Con riferimento ad alcuni status della persona (in particolare con riferimento al lavoratore e al coniuge), la complessità dei rapporti giuridici che si instaurano è tale da impedire una soluzione univoca, dovendosi invece individuare la posizione con riferimento al bene dedotto in giudizio e al regime giuridico connesso. Riguardo al prestatore di lavoro, se ne è affermata la capacità a testimoniare sia nella causa riguardante un compagno di lavoro (cfr. Cass. civ., n. 21418/2015), sia in quella tra datore di lavoro e un terzo (Cass. civ., n. 2375/1981). Per contro, nel giudizio tra datore di lavoro ed ente previdenziale, avente ad oggetto il mancato pagamento di contributi, qualora sorga contestazione sull'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, presupposto dell'obbligo contributivo, sussiste l'incapacità a testimoniare del lavoratore i cui contributi siano stati omessi; ciò non esclude, tuttavia, che il giudice, avvalendosi dei poteri conferitigli dall'art. 421 c.p.c., possa interrogarlo liberamente sui fatti di causa (così la giurisprudenza prevalente in ultimo affermata da Cass. civ., n. 1256/2016; in senso però contrario, per la capacità a deporre, consta Cass. civ., n. 3051/2011). Ancor più articolata è la valutazione dell'incapacità a testimoniare con riferimento allo status di coniuge. In materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall'art. 247 c.p.c. per effetto della declaratoria di incostituzionalità già sopra richiamata, l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità (Cass. civ., n. 25358/2015 e Cass. civ., n. 4202/2011). Si deve, invece, procedere alla verifica di volta in volta della natura del diritto oggetto della controversia, avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni sulla incapacità a testimoniare, che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza. Nell'ambito di tale verifica legata al caso concreto, è possibile distinguere i seguenti orientamenti di massima.
Regime processuale
Il panorama giurisprudenziale appare invece univoco in tema di eccezione di incapacità. In giurisprudenza è pacifico che le disposizioni limitative della capacità a deporre siano dettate nell'esclusivo interesse delle parti, per cui il relativo rilievo resta subordinato all'iniziativa dei soggetti interessati. Ne consegue che la nullità della testimonianza resa da persona incapace (in quanto portatrice di un interesse che avrebbe potuto legittimare il suo intervento in giudizio) deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. (salvo che il difensore della parte interessata non sia stato presente all'assunzione del mezzo istruttorio, nel qual caso la nullità può essere eccepita nell'udienza successiva), sicché, in mancanza di tempestiva eccezione, deve intendersi sanata. La preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, proposta a norma dell'art. 246 c.p.c., non può ritenersi comprensiva dell'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione. Nell'ipotesi in cui l'eccezione di nullità della testimonianza resa dall'incapace venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (Cass. civ., Sez.Un., n. 21670/2013). Se l'eccezione di nullità della deposizione del teste incapace, ritualmente proposta, non sia stata proprio presa in esame dal giudice davanti al quale la prova venne espletata, la stessa deve essere formulata con apposito motivo di gravame avanti il giudice di appello, ovvero, se sollevata dalla parte vittoriosa in primo grado, da questa riproposta poi nel giudizio di gravame a norma dell'art. 346 (Cass. civ., n. 6555/2005; Cass. civ., n. 3521/1986). Allorché , in sede di ricorso per cassazione, voglia, pertanto, dedursi l'omessa motivazione del giudice d'appello sull'eccezione di nullità della prova testimoniale per incapacità ex art. 246, c.p.c. il ricorrente ha l'onere, anche in virtù dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l'assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c., dovendo, in mancanza , ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo (Cass. civ., n. 23896/2016). In conclusione
L'analisi della giurisprudenza conferma che, a fronte della chiara enucleazione di consolidati principi con valenza generale e astratta, la valutazione della sussistenza dell'incapacità a testimoniare nell'ambito di alcune fattispecie concrete appare tutt'altro che univoca e scontata. Paradigmatico è il caso del coniuge nell'ambito di controversie idonee a incidere su beni ricadenti nel regime della comunione legale: in tale contesto, la conoscenza del profilo sostanziale in ordine al regime del bene sotteso al giudizio risulta dirimente al fine di sciogliere il nodo della capacità a testimoniare del coniuge. Sotto diverso profilo, sembra consolidarsi l'orientamento giurisprudenziale che impone una valutazione ex ante dell'interesse rilevante ai sensi dell'art. 246 c.p.c. escludendo la riattivazione di una capacità a deporre in forza di circostanze sopravvenute. Infine, ormai granitico appare l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che impone il massimo e tempestivo onere della difesa nell'eccezione dell'incapacità, da reiterarsi in tutti i principali passaggi del giudizio di primo grado (contestualmente e subito dopo la deposizione e in sede di precisazione delle conclusioni) e con autonomo motivo di doglianza in sede di appello. |