Illegittima la richiesta di esibire il certificato dei carichi penali ai fini dell’assunzione
19 Luglio 2018
Il caso. Una dipendente di Poste Italiane, già inserita nella graduatoria nazionale dei lavoratori a tempo determinato della società, veniva convocata per la scelta della sede ma non veniva successivamente assunta in servizio essendo risultato dalla certificazione del casellario giudiziale un carico pendente. La lavoratrice chiedeva al Tribunale di condannare la società ad immetterla in servizio. I Giudici, sia in primo che in secondo grado, accoglievano la domanda sottolineando che il CCNL prevedeva la presentazione del certificato penale di data non anteriore a tre mesi e non anche quello dei carichi pendenti. Poste Italiane ricorre dunque in Cassazione sostenendo, per quanto d'interesse, che l'espressione “certificato penale” debba essere intesa in senso ampio, comprensivo anche dei carichi pendenti.
Assunzione condizionata. La doglianza risulta priva di fondamento in quanto propone un'interpretazione che non è in grado di scalfire il dato testuale che emerge dal CCNL secondo cui i documenti da presentare ai fini dell'assunzione comprendono il solo certificato penale di data non anteriore a tre mesi. L'espressione “certificato penale” evoca infatti il certificato di cui agli artt. 23 e 25, d.P.R. n. 313 del 2002 (t.u. del casellario giudiziario) di cui al e non è suscettibile di plurime interpretazioni. A maggior ragione, condizionando l'assunzione all'esibizione del certificato, sarebbe ammissibile un'interpretazione estensiva poiché si risolverebbe nell'introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno previsto. L'art. 8 dello Statuto dei lavoratori vieta inoltre al datore di lavoro, sia in fase di assunzione che nel corso del rapporto di lavoro, di effettuare indagini su fatti non rilevanti rispetto alla valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. Tale valutazione si fonda sulla conoscenza delle informazioni relative all'esistenza di condanne penali passate in giudicato, non potendo in definitiva estendersi alla conoscenza dei procedimenti penali in corso, anche in virtù del principio costituzionale della presunzione d'innocenza. In conclusione la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
(fonte: Diritto e Giustizia) |