Sara Caprio
25 Luglio 2018

I provvedimenti giudiziali possono assumere tre diverse forme: la sentenza, l'ordinanza ed il decreto. Il decreto è la forma più semplice ed elementare tra i provvedimenti giudiziali. Assolve per lo più ad una funzione lato sensu direttiva del processo come l'ordinanza dalla quale si distingue però perché di solito è emanato in assenza di contraddittorio.
Inquadramento

Il decreto è uno dei provvedimenti che il giudice può emanare. I provvedimenti giudiziali possono assumere tre diverse forme: la sentenza, l'ordinanza ed il decreto. Si ritiene che sia un elenco tassativo, per cui il giudice non può pronunciare un provvedimento in una forma diversa da quella prevista dalla legge. Ne discende che se la legge nulla prevede in merito alla forma che il provvedimento deve assumere il giudice deve pronunciarlo nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo, scegliendola pur sempre tra quelle indicate dalla legge (Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2012, 533).

Il decreto è la forma più semplice ed elementare tra i provvedimenti giudiziali. Assolve per lo più ad una funzione lato sensu direttiva del processo come l'ordinanza dalla quale si distingue però perché di solito è emanato in assenza di contraddittorio. Si precisa tuttavia che pur essendo vero quanto poc'anzi asserito, non mancano ipotesi in cui la legge impone la pronuncia del decreto solo dopo che siano state ascoltate le parti, come previsto in materia di divisione ereditaria ex art. 736 c.c., o la persona nei confronti della quale il provvedimento stesso è pronunciato (art. 336 c.c.) o ancora il pubblico ministero (art. 738 c.p.c.).

Ambito applicativo

Per quanto concerne l'ambito applicativo del decreto si può facilmente constatare che tale provvedimento è ampiamente utilizzato: 1) nel procedimento contenzioso, nel quale può assolvere una funzione decisoria, si pensi al decreto ingiuntivo emanato all'esito del procedimento monitorio (artt. 633 e ss. c.p.c.); 1a) di direzione del processo, si pensi al decreto di fissazione dell'udienza nel rito del lavoro (art. 415 c.p.c.); 1b) di organizzazione dell'ufficio giudiziario, si pensi al decreto con cui viene designato il giudice incaricato dell'istruzione della causa (art. 168-bisc.p.c.); 1c) oppure cautelare, si pensi alle ipotesi in cui il provvedimento cautelare viene emesso inaudita altera parte (art. 669-sexies c.p.c.); 2) sia nell'ambito della volontaria giurisdizione, ove il decreto trova la sua applicazione più significativa: tutti i provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, infatti, assumono la forma del decreto, salvo che la legge disponga altrimenti (art. 737 c.p.c.).

In particolare, la forma del decreto viene prevista spesso dal legislatore per provvedimenti non giurisdizionali aventi una funzione sostanzialmente organizzativa dell'ufficio giudiziario, si pensi alla fissazione del calendario delle udienze riservate alle prima comparizione delle parti da parte del presidente del tribunale (art. 163 c.p.c.), oppure delle camere di consiglio e delle udienze di discussione (artt. 113-114 disp. att.); si pensi alla designazione della sezione e del giudice incaricato dell'istruzione della causa (art. 168-bisc.p.c.) o alla sostituzione di quest'ultimo (art. 174 c.p.c.), o ancora alla riunione delle cause identiche o connesse (artt. 273 – 274 c.p.c.). Nella maggioranza dei casi, invece, il decreto ha ad oggetto la direzione del processo, si pensi alla fissazione delle varie udienze, all'assegnazione dei termini nei casi previsti dalla legge, nonché alla proroga o all'abbreviazione degli stessi e all'eventuale rimessione in termini, ove consentita; si pensi ancora alla regolarizzazione, quando sia possibile, degli atti invalidi o irregolari, al rilascio di autorizzazioni derogatorie di prescrizioni e termini ordinari, come quella avente ad oggetto la cd. dimidiazione dei termini di comparizione, o all'autorizzazione all'esecuzione immediata dopo la notificazione del precetto, o ancora alla dichiarazione di contumacia, alla cancellazione della causa dal ruolo …….

Requisiti di contenuto - forma

Il decreto è disciplinato dall'art. 135 c.p.c., dal quale si desume il regime giuridico dello stesso ed i requisiti di contenuto-forma prescritti dalla legge. Il decreto può essere pronunciato sia d'ufficio che su istanza anche verbale di parte; può, a seconda dei casi, essere steso in calce al ricorso di parte oppure, se l'istanza è stata proposta oralmente, essere inserito nel medesimo verbale in cui è stata raccolta l'istanza. Il decreto deve essere munito di data e sottoscritto dal giudice o, in caso di giudice collegiale, dal presidente.

Di regola il decreto, a differenza dell'ordinanza e della sentenza, non necessita di motivazione, salvo che non sia richiesta espressamente dalla legge come in caso dei procedimenti camerali ex art. 737 c.p.c.. L'assenza di motivazione potrebbe apparire in contrasto con quanto prescritto dall'art. 111, comma 6, Cost. secondo il quale tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Secondo alcuni il contrasto sarebbe risolto considerando abrogata la prima parte del comma 4 dell'art. 135 proprio perché contrasterebbe con una norma costituzionale (Chizzini, Provvedimenti del giudice (diritto processuale civile), in Dig. It., IV civ., XVI, Torino, 1999; Tarzia-Fontana, Decreto (diritto processuale civile), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1998). Secondo altri, invece, la motivazione può mancare e, quindi, il dettato costituzionale può essere disatteso, qualora il decreto abbia contenuto meramente ordinatorio (Capponi, La legge processuale civile, Torino, 2009, 16).

In evidenza

La giurisprudenza ritiene che la motivazione del decreto, ove necessaria, come nel caso in cui il decreto sia emesso per definire un procedimento in camera di consiglio, non deve essere ampia come quella della sentenza, né succinta, come quella dell'ordinanza, ma può ben essere sommaria, nel senso che il giudice, senza ritrascriverli, può limitarsi ad indicare quali fatti, tra quelli indicati nell'istanza che lo hanno sollecitato, lo hanno convinto ad accordare il provvedimento richiesto (Cass. civ., 20 settembre 2002, n. 13762); in alternativa, la motivazione può desumersi dal complesso di quanto è stato verbalizzato, sotto la direzione del giudice, e dal dispositivo che conclude il verbale (Cass. civ., 13 febbraio 2004, n. 2776).

La motivazione è sempre necessaria qualora un provvedimento assunto in forma di decreto ha ciò nonostante contenuto sostanziale di sentenza, dato che assolve in questo modo ad una funzione decisoria (Cass. civ., 8 aprile 2004, n. 6939; Cass. civ., 4 febbraio 2003, n. 1600; Cass. civ., 19 febbraio 2002, n. 16256).

Efficacia

Il regime giuridico del decreto dipende dal procedimento all'esito del quale è emanato, per cui mentre i decreti cautelari, ordinatori ed amministrativi hanno efficacia immediata, i decreti di giurisdizione volontaria acquistano efficacia una volta decorso il termine per il reclamo, salvo che il giudice disponga, per ragioni di urgenza, che abbiano efficacia immediata (art. 741 c.p.c.). Le ingiunzioni assunte in forma di decreto a volte hanno efficacia immediata (art. 28, l. n. 300/70), altre volte, invece, efficacia differita (art. 647 c.p.c.).

Per quanto concerne la revocabilità, la modificabilità e l'impugnabilità dei decreti non è possibile individuare una disciplina unitaria, ossia valevole per tutte le ipotesi in cui la legge prevede l'utilizzazione di questo provvedimento. Possono distinguersi decreti modificabili o revocabili: a) in ogni tempo (art. 742 c.p.c.); b) in seguito all'instaurazione di un giudizio (art. 690, comma 2, c.p.c.); c) a conclusione di un giudizio (art. 28 l. n. 300/1970); d) non revocabili né modificabili (art. 697, in relazione all'art. 695 c.p.c.). Anche la disciplina dei rimedi offerti dalla legge a chi è pregiudicato da un decreto non è unitaria. Possono distinguersi: a) l'istanza di revoca rivolta al giudice che ha emanato il decreto (art. 742 c.p.c.); b) l'opposizione, atto con cui il soggetto contro cui è stato emesso il decreto conviene in giudizio colui che ha richiesto il decreto, per ottenerne l'eliminazione (art. 645 c.p.c.); d) il reclamo al giudice superiore (art. 739 c.p.c.); e) le impugnazioni straordinarie previste per le sentenze (art. 656 c.p.c.) (Tarzia-Fontana, Decreto (diritto processuale civile), cit.).

Prevalenza della sostanza sulla forma

Può accadere che il giudice si pronunzi dando al suo provvedimento una forma diversa da quella che avrebbe dovuto avere secondo legge. Vi è dunque l'esigenza di un controllo sull'adeguatezza della forma-contenuto del provvedimento in rapporto alla sua funzione istituzionale. Ci si chiede se il regime giuridico dell'atto è quello che si ricava dalla forma assunta in concreto dal provvedimento ovvero quello che sarebbe applicabile qualora il provvedimento avesse avuto la forma prevista dalla legge. In linea generale, si può in via di prima approssimazione affermare che la giurisprudenza applica il principio secondo cui in ogni caso prevale la sostanza del provvedimento sulla sua forma, purché il provvedimento abbia il minimo di requisiti formali per entrare nel tipo che sarebbe congruo in relazione al suo contenuto. Ciò implica che mentre sarà sempre salvabile la sentenza resa in luogo del decreto o dell'ordinanza, l'ordinanza o il decreto pronunciati in luogo della sentenza saranno inevitabilmente nulli, quanto meno in relazione al requisito della sottoscrizione, dato che per la sentenza sono necessarie le firme del presidente del collegio e dell'estensore, mentre per l'ordinanza e per il decreto è richiesta quella del solo presidente (Balena, Elementi di diritto processuale civile, Bari, 2014, 244 ss.).

Il principio della prevalenza della sostanza sulla forma è stato utilizzato anche per risolvere il problema dell'individuazione del mezzo di impugnazione al quale è assoggettato un provvedimento pronunciato per errore dal giudice in una forma diversa da quella che avrebbe dovuto assumere per legge; si pensi, ad es., ad un provvedimento ordinatorio emesso con la forma della sentenza o viceversa Si rivela determinante il contenuto del provvedimento del giudice, così che esso è concretamente impugnabile con il mezzo previsto in relazione alla forma che l'atto avrebbe dovuto assumere e non a quella che erroneamente lo riveste (Cass. civ., 15 luglio 2009, n. 16471; Cass. civ., 31 gennaio 2008, n. 2392; Cass. civ., 19 dicembre 2006, n. 27143; Cass. civ., Sez. Un., 24 febbraio 2005, n. 3816).

Differenti forme di decreto

Vi sono, come accennato, dei casi specifici in cui il decreto riveste una funzione particolare. Si pensi al decreto ingiuntivo con cui il giudice su ricorso della parte ricorrente emana un provvedimento avente la forma del decreto ma con contenuto decisorio. Il decreto ingiuntivo è un provvedimento sommario emanato inaudita altera parte: il contraddittorio è differito, nel senso che spetta all'ingiunto scegliere di darvi corso tramite l'opposizione. Tale decreto può essere emanato in presenza di determinati presupposti normativi indicati agli artt. 633 e 634 c.p.c.. Una volta emanato il decreto ingiuntivo può in alcuni casi tassativi essere già munito della provvisoria esecutività (art. 642 c.p.c.) oppure ottenerla in pendenza dell'opposizione su richiesta del ricorrente (art. 648 c.p.c.), mentre di regola l'acquista quando diviene definitivo in caso di mancata opposizione. Avverso il decreto ingiuntivo è possibile quindi proporre: opposizione (art. 645 c.p.c.) entro quaranta giorni dalla notifica, opposizione tardiva nei casi di cui all'art. 650 c.p.c., non oltre però dieci giorni dal primo atto esecutivo, o revocazione ex art. 395, n. 1, 2, 5 e 6 c.p.c. ed opposizione di terzo revocatoria.

Il giudice può in alcuni casi emanare un decreto cautelare, anche se ciò avviene raramente: il provvedimento cautelare, infatti, viene emanato di regola con ordinanza. Tuttavia, si possono verificare ipotesi in cui viene concesso con decreto motivato, ma poi deve essere confermato, modificato o revocato con ordinanza nei successivi quindici giorni. La forma del decreto viene, dunque, utilizzata solo quando occorre concedere immediatamente il provvedimento, inaudita altera parte, perché non è possibile attendere l'instaurazione del contradditorio vuoi perché il lasso di tempo necessario potrebbe frustare l'utilità stessa del provvedimento richiesto vuoi perché avvisare la controparte comprometterebbe la buona riuscita della misura cautelare richiesta. Avverso il decreto cautelare non è previsto alcun rimedio, proprio perché deve essere confermato, revocato o modificato con ordinanza. Solo avverso quest'ultima infatti è possibile proporre reclamo cautelare.

Infine, il decreto di regola è il provvedimento finale dei procedimenti in camera di consiglio regolamentati dagli artt. 737 ss.c.p.c.. Tali procedimenti si caratterizzano principalmente per il fatto di non svolgersi nelle forme ordinarie né in pubblica udienza: ne costituiscono un esempio quelli di cd. volontaria giurisdizione, che non hanno natura contenziosa ma riguardano ad esempio la nomina e la revoca di curatori o tutori. Avverso il decreto camerale è possibile proporre reclamo davanti al giudice immediatamente superiore entro 10 giorni dalla sua comunicazione o notificazione. Il reclamo può essere proposto anche dal pubblico ministero avverso i decreti del tribunale e del giudice tutelare per i quali il suo parere è necessario. Il decreto acquista efficacia dopo il decorso del termine per proporre reclamo senza che questo sia stato proposto ed è sempre modificabile e revocabile, ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca.

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