Imposta di registro dovuta nella ricognizione di debito: nuove indicazioni dalla Cassazione

Stefano Pasetto
05 Settembre 2018

Il contributo, prendendo spunto dall'ordinanza della Suprema Corte di Cassazione n. 481/2018, approfondisce i motivi per i quali a un atto di ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. debba soggiacere sempre a imposta di registro in "misura fissa" e non, come sovente preteso dall'Agenzia delle Entrate (anche sulla scorta di pronunce di legittimità più risalenti a quella in commento), in "misura proporzionale".
Massima

Per la Suprema Corte di Cassazione la ricognizione di debito ex art. 1988 c.c. va qualificata come mera dichiarazione di scienza, con la quale si “conferma” la sussistenza di un rapporto preesistente sorto in relazione a precedenti contratti stipulati tra le parti, con l'effetto che detta dichiarazione non genera (né può generare per essere tale) una nuova obbligazione, bensì rappresenta un semplice riconoscimento degli effetti economici di questi ultimi atti. In questo senso, la ricognizione di debito – non essendo un atto avente a oggetto contenuto patrimoniale – è di per sé da sottoporre a imposta di registro in misura fissa e non proporzionale. Quanto scritto vale a maggior ragione nel momento in cui l'operazione sottostante cui si riferisce la ricognizione di debito sia soggetta a IVA, giacché l'esclusione da un'applicazione dell'imposta di registro in misura proporzionale sarebbe nondimeno “preclusa” per il principio di alternatività tra IVA e imposta di registro previsto dall'art. 40 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (T.U.R.).

Il caso

Con l'ordinanza n. 481 dell'11 gennaio 2018 (ud. 12 novembre 2017), la Sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione affronta il dibattuto tema dell'imposta di registro da applicare all'atto con il quale ex art. 1988 c.c. un soggetto riconosce un proprio debito. Segnatamente, il caso portato all'attenzione della Suprema Corte ha a oggetto il ricorso presentato dallo studio legale associato D., G. e B. avverso la sentenza della CTR Lombardia, Milano, sez. XX, 15 marzo 2013, n. 72, che aveva dichiarato legittimo “l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro dovuta [(secondo l'Agenzia delle Entrate in misura proporzionale)] in relazione ad un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano per prestazioni professionali rese a favore dell'ingiunto, nonché [alla] scrittura privata con cui la parte ingiunta … aveva riconosciuto, [per l'appunto, ex art. 1988 c.c.] il debito in favore dello studio ricorrente”.

La questione

La questione – al centro dell'ordinanza della Suprema Corte di Cassazione e che qui si intende brevemente analizzare – è il corretto trattamento, in termini di imposta di registro, cui deve soggiacere l'atto ricognitivo di debito ex art. 1988 c.c. Al riguardo, è noto come su siffatto argomento a oggi manchi un orientamento condiviso e questo in virtù dell'assenza nell'attuale “panorama fiscale” di una specifica norma. Infatti, nessuna disposizione del TUR – differentemente dall'(antica) previgente disciplina (v. infra par. 4) – tratta la ricognizione di debito, sicché, come (purtroppo) accaduto in altri ambiti, è giocoforza lasciato “libero campo” all'interprete identificare una possibile soluzione del problema. Nel tempo si sono andate quindi formando (e contrapponendo tra loro) le quattro diverse tesi qui di seguito brevemente riportate.

La prima tesi – per il vero nel passato, anche recente, più volte sostenuta dalla stessa giurisprudenza di legittimità [cfr. le sentenze della Sezione V Civile della Suprema Corte di Cassazione del 28 maggio 2007, n. 12432, del 20 giugno 2008, n. 16829, e del 15 luglio 2016, n. 14480, nonché le ordinanze della Sezione VI-5 Civile dell'8 giugno 2016, n. 11692, e del 18 gennaio 2017, n. 1247] – considera la ricognizione di debito una “dichiarazione di volontà” e per tale motivo, ai fini dell'imposta di registro, la riconduce tra gli atti “dichiarativi”, con conseguente tassazione, ai sensi dell'art. 3 della parte I della Tariffa allegata al TUR, nella misura proporzionale dell'1% e con la registrazione dell'atto in “termine fisso”.

La seconda tesi sostiene invece che la ricognizione di debito integri “gli estremi di un atto avente ad oggetto crediti/debiti o una quietanza” [D. Amendola, 2011] e, pertanto, la medesima “sconta” imposta di registro secondo l'art. 6 della parte I della Tariffa allegata al TUR, ossia nella misura proporzionale dello 0,50%, fermo restando la registrazione dell'atto in “termine fisso”.

La terza tesi – alla quale ha aderito, talvolta, pure la giurisprudenza di legittimità [cfr., per tutte, la sentenza della Sezione V Civile della Suprema Corte di Cassazione del 12 novembre 2014, n. 24107], oltre che, con maggiore frequenza, l'Agenzia delle Entrate [cfr. D. Amendola, 2011, e ciò malgrado l'adesione alla prima tesi da parte della Direzione Regionale della Lombardia con la nota del 16 settembre 2011, n. 114394] – “arriva” poi ad attribuire alla ricognizione di debito un “contenuto patrimoniale” e, vista la mancanza di specifiche norme, determina l'imposta di registro secondo la cd. “disciplina residuale” (art. 9 della parte I della Tariffa allegata al T.U.R.), ossia nella misura proporzionale del 3%, con la registrazione dell'atto sempre in “termine fisso”.

Da ultimo, per la quarta tesi la ricognizione di debito è una mera dichiarazione di “scienza” (e non di “volontà”), improduttiva di nuovi fatti giuridici, poiché, in base al dettato civilistico (v. infra par. 4), dà solo evidenza dello status quo di rapporti contrattuali già in essere, “cristallizzandoli” a livello probatorio (fino a prova contraria). L'imposta di registro, secondo quest'ultima tesi, è di conseguenza da adottarsi nella misura fissa degli attuali 200,00 euro, con la registrazione dell'atto a) in “termine fisso” ex art. 11 della parte I della Tariffa allegata al TUR per gli atti pubblici o le scritture private autenticate, ovvero b) in “caso d'uso” ex art. 4 della parte II della Tariffa allegata al T.U.R. per le scritture private non autenticate [cfr. A. Busani, 2017].

La soluzione giuridica

La Suprema Corte di Cassazione – innovando rispetto ai suoi precedenti “arresti” – nell'ordinanza in commento aderisce alle posizioni della quarta tesi (v. supra par. 3). Per giungere a siffatta conclusione e così dirimere la questione, la Suprema Corte di Cassazione indaga anzitutto sull'effettivo significato civilistico attribuibile alla ricognizione di debito in base all'art. 1988 c.c., il quale, come noto, statuisce che “la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale[, specificando che] l'esistenza di questo si presume fino a prova contraria”.

Dal dettato della norma, la Suprema Corte di Cassazione ricava come, con l'atto di ricognizione di debito, “il debitore di un rapporto obbligatorio (cosiddetto “rapporto fondamentale” o “sottostante”) [si limiti a dichiarare] di riconoscere l'esistenza del debito, [con il conseguente effetto di a) dispensare] il creditore a favore del quale è fatta [la dichiarazione], dall'onere di provare [ex art. 2697 c.c.] il rapporto fondamentale, [e, nel contempo, b) invertire l'onere della prova circa l'insussistenza del debito (che a questo punto, in ragione proprio della dichiarazione, graverà in futuro sul dichiarante), visto che, come espressamente indica la norma, la sua] … esistenza … si presume [ex lege] fino a prova contraria”.

In altri termini, la ricognizione di debito non è altro che una “mera dichiarazione di scienza in relazione alla sussistenza di un rapporto preesistente nascente da pregressi contratti stipulati tra le parti, per cui la medesima non ha creato una nuova obbligazione, ma [ha] semplicemente riconosciuto ex post gli effetti economici di quegli atti” e ciò solamente per i richiamati fini probatori. Del resto, se ci si sofferma sullo specifico caso oggetto dell'ordinanza, la ricognizione di debito era stata prodotta e menzionata nel ricorso atto a ottenere il decreto ingiuntivo al solo scopo di “avvalorare l'esistenza dei crediti professionali per i quali veniva esercitata [da parte dello studio legale associato D., G. e B.] l'azione monitoria …; essa [aveva], pertanto, natura “puramente dichiarativa”, non modificando [in alcun modo] la sfera patrimoniale del debitore che [l'aveva sottoscritta] (e tanto meno quella del creditore che [l'aveva ricevuta])”.

Sulla scorta di queste brevi considerazioni civilistiche, la Suprema Corte di Cassazione fa discendere le correlate implicazioni di ordine fiscale.

In particolare – non determinando la ricognizione di debito conseguenze sul piano sostanziale, ma solo su quello procedurale – la Suprema Corte di Cassazione ritiene che l'imposta di registro debba essere in misura fissa (i richiamati 200,00 euro) e “non nella misura del 3%, come preteso dall'Ufficio [dell'Agenzia delle Entrate]”. Peraltro, come messo in luce nell'ordinanza, “la tesi della non applicabilità dell'imposta di registro in misura proporzionale pare trovare [ulteriore] conferma anche nel fatto che il R.D. n. 3269/1923 (poi sostituito dal d.P.R. n. 131/1968) citava espressamente la ricognizione del debito nella Tariffa ad esso allegata[, cosa questa che,] per contro[,] nella Tariffa allegata al d.P.R. n. 131/1986 non è stata ripresa …, il che [ben] può anche essere interpretato quale intenzione del legislatore di voler escludere la ricognizione del debito da quelle assoggettabili a imposta di registro in misura proporzionale”.

Infine, la Suprema Corte di Cassazione non manca di segnalare per completezza come, nel caso portato alla sua attenzione, l'imposta di registro, a prescindere da tutto, si sarebbe comunque dovuta applicare “in misura fissa … per il principio della alternatività tra IVA e imposta di registro (ex art. 40 del TUR)”, poiché l'operazione oggetto della ricognizione di debito (la prestazione professionale svolta dallo studio legale) era “già risultata soggetta ad IVA”.

Osservazioni

Le conclusioni cui giunge la Suprema Corte di Cassazione con questa ordinanza non possono che trovare d'accordo chi scrive.

Risulta infatti una “piacevole sorpresa” che, dopo molte non condivisibili pronunce, finalmente anche la giurisprudenza di legittimità abbia modificato la propria posizione, in favore di una che, nel rispetto dell'art. 20 T.U.R., tiene effettivamente conto dell'intrinseca natura e degli effetti giuridici della ricognizione di debito. Nei precedenti pronunciamenti non si era (forse) colto come la ricognizione di debito, al pari di tutti gli altri atti o negozi “ricognitivi”, non possa che sostanziarsi in un atto con il quale viene affermato, “da parte di chi [lo] pone in essere, la propria consapevolezza circa una data situazione giuridica non incerta (che è preesistente all'atto ricognitivo e che, perciò, da esso non viene innovata, e cioè non originata, modificata o estinta)” [A. Busani, 2017].

In sostanza, “la ricognizione di debito – ritenuta pura dichiarazione di scienza, che non esprime alcuna volontà – certifica “solamente” una situazione già verificatasi” [V. Pappa Monteforte, 2011], con “effetti incidenti [solamente] sulla distribuzione dell'onere della prova” [A. Fedele, 2015].

Del resto, civilisticamente essa non avrebbe, “per assurdo”, “l'effetto sostanziale di far sorgere il debito, [neppure] qualora lo stesso non [fosse] già preesistente (e, quindi, [fosse] riconosciuto per errore o per simularne l'esistenza)” [A. Torrente – P. Schlesinger, 2015]. La ricognizione di debito, dunque, differisce (e non di poco) rispetto agli atti o negozi “dichiarativi”, piuttosto che “accertativi”: i primi, infatti, riguardano “le fattispecie nelle quali (come nella divisione) si [ha] …, per effetto della riconfigurazione operata dal negozio dichiarativo, una modificazione della situazione giuridica preesistente, … senza il prodursi di effetti obbligatori o reali[, nel mentre i secondi hanno per oggetto quelle fattispecie nelle quali] … si cancella … [l']incertezza di una data situazione … oppure la si chiarisce, la si precisa, e la si sostituisce con una situazione acclarata” [A. Busani, 2017].

Orbene, proprio per le descritte peculiarità della ricognizione di debito viene difficile pensare di poterla assimilare a un atto o negozio dichiarativo (come propenderebbe, invece, la prima tesi). Manca la “modificazione della situazione giuridica preesistente”, elemento quest'ultimo che, a parere dello scrivente, rende di per sé impraticabile anche la “strada” indicata dalla seconda tesi (visto che nei fatti “accomuna” la ricognizione di debito alla “quietanza” o alla “remissione di debito”) [cfr. A. Contrino, 2011, e V. Pappa Monteforte, 2011].

Altrettanto assente nella ricognizione di debito è (e non potrebbe essere diversamente) la presenza di un proprio “contenuto patrimoniale” (meglio, di un'autonoma “prestazione a contenuto patrimoniale”); invero, quello in essa “indicato” non è altro che la “fotografia” (la prova processuale) del risultato di prestazioni a contenuto patrimoniale “avutesi” in preesistenti rapporti giuridici (a prescindere, viene da aggiungere, dal fatto che la causa debendi sia o meno esplicitata nell'atto e, pertanto, che quest'ultimo sia in forma “titolata”, piuttosto che “pura” [cfr. V. Pappa Monteforte, 2011; contra la sentenza della Sezione V Civile della Suprema Corte di Cassazione del 19 luglio 2017, n. 17808]).

Ciò, naturalmente, “compromette” la possibilità di aderire alla terza tesi, posto che l'articolo 9 della parte I della Tariffa allegata al T.U.R. è categorico nel prevedere l'applicabilità dell'aliquota del 3% ai soli atti aventi a oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale, per i quali il T.U.R. non definisce in altra parte una specifica tassazione.

Ecco, quindi, come l'unica soluzione realmente rispettosa dell'effettivo contenuto della ricognizione di debito diviene quella “fornita” dalla quarta tesi. Quest'ultima – oggi fatta propria anche dalla Suprema Corte di Cassazione – è la sola ad avere ben presente che nell'atto in parola non vi è alcuna

a)modifica della situazione giuridica preesistente” e, conseguentemente,

b)prestazione a contenuto patrimoniale”.

La ricognizione di debito deve essere perciò assoggettata sempre a imposta di registro in misura fissa (200 euro) [cfr. A. Busani, 2017, p. 3710, A. Contrino, 2011, pp. 662 ss., e D. Amendola, 2011, pp. 32 ss.], il che, se si vuole, rende irrilevante la considerazione che, laddove l'operazione sottostante oggetto della ricognizione di debito fosse soggetta a IVA, l'atto sarebbe comunque da tassare in misura fissa in ossequio al principio di alternatività “IVA – registro” di cui all'art. 40 T.U.R.

D'altronde, “per gli atti di natura meramente dichiarativa[, quale è, come visto, la ricognizione di debito], l'applicazione dell'imposta proporzionale si appalesa del tutto fuori luogo e ingiustificata, se appena si considera che tale soluzione altererebbe quella gerarchia espressa dalla tariffa, in termini di graduazione della misura della tassazione in funzione degli effetti giuridici degli atti e delle caratteristiche dei beni oggetto dei medesimi, che affonda le sue radici nel principio di capacità contributiva” [A. Contrino, 2011, pp. 662 ss.].

Infine, giova rimarcare che, per via dell'(obbligata) adesione alla quarta tesi, la registrazione dell'atto non potrà mai essere “automaticamente” in “termine fisso”; lo sarà soltanto qualora si tratti di atto pubblico o di scrittura privata “autentica”, nel mentre laddove l'atto sia una scrittura privata “non autentica” (come soventemente avviene nella pratica) la medesima si avrà esclusivamente in “caso d'uso”.

Riferimenti bibliografici

D. Amendola, Il trattamento della ricognizione di debito ai fini dell'imposta di registro, in Il Fisco, Roma, 2011, fasc. n. 32, pt. I;

A. Busani, La tassazione degli atti “dichiarativi”, “ricognitivi” e di “accertamento”, in Corriere Tributario, Milano, 2017, fasc. n. 47-48;

A. Contrino, Note sulla nozione di “atto di natura dichiarativa” nel tributo di registro, in Rassegna Tributaria, Roma, 2011, fasc. n. 3;

A. Fedele, Il regime fiscale della datio in solutum, in Rivista di Diritto Tributario, Milano, 2015, fasc. 3;

V. Pappa Monteforte, La ricognizione di debito nell'imposta di registro, in Notariato, Milano, 2011, fasc. 2;

A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, XXII edizione a cura di F. Anelli – C. Granelli, Milano, 2015.