Arrestato per possesso di droga in “pausa pranzo”: licenziamento eccessivo

La Redazione
06 Settembre 2018

La condotta del dipendente che, al momento di rientrare in azienda dopo la pausa pranzo, venga sorpreso e arrestato dai carabinieri perché in possesso di 25 grammi di hashish, presenta un incontestabile rilievo disciplinare, non tale tuttavia da legittimare la risoluzione in tronco del rapporto di lavoro.

Il caso. L'arresto. Scenario della vicenda uno stabilimento della Fiat. Protagonista un magazziniere, che viene “sorpreso dai carabinieri, durante una pausa, in possesso di 25 grammi di hashish, custoditi nella tuta di lavoro”, mentre “sta rientrando in azienda”, e per questo “viene arrestato”.

L'episodio, riportato anche da un quotidiano locale, è ritenuto gravissimo dalla società, che di conseguenza opta per il provvedimento più drastico, cioè il licenziamento.

Inevitabile la reazione del dipendente, che sceglie di adire le vie legali, contestando la decisione aziendale. Le sue obiezioni non convincono però i Giudici, né in Tribunale né in Corte d'Appello: così egli vede “dichiarato risolto il rapporto di lavoro, alla data del licenziamento”, ma, allo stesso tempo, ottiene che “la società gli paghi una indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”.

In secondo grado, in particolare, viene ritenuta “condivisibile la tesi della società secondo la quale se il dipendente non fosse stato arrestato dai carabinieri, sarebbe rientrato in azienda detenendo un discreto quantitativo di sostanza stupefacente (circa 25 grammi di hashish)”, ma, allo stesso tempo, viene osservato che il quantitativo di droga “non consentiva di affermare neppure in via presuntiva il fine di spaccio, mentre restava rilevante soltanto la condotta di detenzione per uso personale, quale condotta certamente extra-lavorativa, tenuta nell'arco temporale di ”non lavoro” in quanto dedicato alla “pausa pranzo”“.

In sostanza, secondo i Giudici d'Appello, “la peculiarità del comportamento” tenuto dal dipendente, che “si distingueva dal mero fatto extra-lavorativo”, “presentava indubbiamente elementi di maggiore gravità rispetto al fatto extra-lavorativo”, ma “correttamente va esclusa la proporzionalità per fatto addebitato e sanzione espulsiva adottata” ed “il vincolo fiduciario ha subito un pregiudizio” sì ma “non tale da giustificare l'estinzione del rapporto di lavoro con la massima sanzione espulsiva”.

Ciò nonostante, è impossibile ritenere legittima, in questa vicenda, l'applicazione di meri “provvedimenti disciplinari”, anche perché “potenzialmente, in caso di consumo di gruppo della sostanza, sarebbero state pregiudicate l'igiene e la sicurezza dell'intera azienda e non dello stabilimento”, e poi “la società aveva ricevuto un oggettivo discredito, essendo stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio Fiat, con la sostanza custodita nella tasca della tuta, durante la “pausa pranzo” e durante il rientro in azienda”.

Gravità della condotta. La visione data dai Giudici d'Appello non convince però né l'azienda né il lavoratore. Ecco spiegati i loro ricorsi in Cassazione, ricorsi che affrontano la stessa tematica, ossia il “peso” dell'episodio incriminato, ma con obiettivi diametralmente opposti: il dipendente punta a vedere ridimensionato il comportamento tenuto, con la conseguenza di “rendere applicabile la tutela reintegratoria”, mentre la società chiede ai Giudici di sancire la forte gravità della violazione compiuta dal lavoratore e di riconoscere perciò “la legittimità del licenziamento” adottato.

Per i Giudici del ‘Palazzaccio' l'analisi dell'episodio incriminato, così come compiuta in Appello, va condivisa. In sostanza, è evidente che “il fatto contestato (detenzione di venticinque grammi di hashish, non a fini di spaccio, durante la pausa pranzo, al di fuori del luogo di lavoro ma con rientro verso lo stabilimento) ha un suo incontestabile rilievo disciplinare”, ma “non tale da legittimare una risoluzione in tronco del rapporto”.

Su questo fronte, in particolare, in Appello è stato “valutato il carattere extra-lavorativo della condotta, sia pur con la particolarità del caso concreto che prevedeva il rientro nello stabilimento” e si è stabilito che “l'episodio in questione potesse essere comparato a quello del rinvenimento del dipendente trovato in stato di manifesta ubriachezza durante l'orario di lavoro, sanzionato con una misura conservativa” Di conseguenza, alla luce delle “specifiche circostanze oggettive e soggettive” che avevano caratterizzato il fattaccio, si è escluso che “il vincolo fiduciario fosse irrimediabilmente compromesso”, vista “la assenza di potenziale pregiudizialità derivante al datore di lavoro dal comportamento del dipendente”.

Tale valutazione è corretta, logica e condivisibile, sanciscono i Giudici della Cassazione, respingendo il ricorso presentato dalla Fiat.

Va invece presa in considerazione l'ipotesi, fatta balenare dall'avvocato del lavoratore, dell'applicazione di una punizione lieve.

Su questo fronte i Giudici della Cassazione non ritengono convincente il ragionamento fatto in Appello, laddove si è ritenuto non applicabile “una sanzione conservativa” per il lavoratore, opinando che “era coinvolta dal comportamento del dipendente l'intera azienda, vista la possibile condivisione del “fumo” con altri colleghi di lavoro, essendo notorio il cosiddetto passaggio di sigaretta da un soggetto ad un altro nei fenomeni di consumo di gruppo”.

Allo stesso tempo, è ritenuta poco plausibile la tesi accusatoria dell'”oggettivo discredito prodotto a danno della società per essere stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio Fiat, con sostanza custodita nella tasca della tuta stessa, durante la pausa pranzo e nel mentre ritornava in azienda”.

Su questo punto, in particolare, i Giudici della Cassazione si mostrano assai perplessi. Essi osservano che “la ricostruzione adottata” in Appello è carente, “sia in ordine al presupposto da cui parte, circa la possibile condivisione del “fumo” con altri colleghi, ben potendo la detenzione essere finalizzata esclusivamente ad un consumo personale, magari da attuarsi fuori l'ambiente lavorativo e fuori l'orario di lavoro, sia per l'asserito coinvolgimento di tutta l'azienda in un cosiddetto fenomeno di consumo di gruppo e non del solo stabilimento cui era addetto il lavoratore”.

Secondo i Giudici del ‘Palazzaccio' è carente anche la prova del “discredito prodotto a danno della società”, anche perché “con la diffusione meramente locale del quotidiano che aveva riportato la notizia, non risultava dimostrata alcuna lesione degli interessi di parte datoriale nella loro oggettività in considerazione di un episodio avente comunque carattere extra-lavorativo”.

Da rivedere, quindi, la decisione pronunciata in Corte d'appello, riprendendo in esame, in particolare, l'obiezione – plausibile, a questo punto – con cui il legale del lavoratore punta a vedere ridimensionata la gravità del comportamento tenuto dal suo cliente.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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