Il danno cd. terminale alla luce delle Tabelle milanesi edizione 2018
06 Settembre 2018
Le tabelle depositate in data 14 marzo 2018 dall'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, mentre hanno avuto grande risalto per quanto concerne i criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale, sembrano essere passate quasi inosservate per quanto concerne l'area estremamente delicata rappresentata dal danno cd. “terminale” (v., amplius, D. SPERA, Verso l'approvazione definitiva delle nuove tabelle milanesi, in Ridare.it). L'Osservatorio indica alcuni criteri orientativi per la liquidazione del pregiudizio in esame. Si suggerisce, in primo luogo, l'individuazione di un numero massimo di giorni (allo stato individuato, convenzionalmente, in 100), al di là del quale il danno terminale non può prolungarsi, tornando ad esser risarcibile il solo danno biologico temporaneo ordinario. Si è, inoltre, ritenuto di porre quale criterio di base la regola, sostenuta dall'esperienza medico-legale, secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal momento che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente successivo all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva. Si è, in quest'ottica, ritenuto di prevedere che nei primi tre giorni di danno terminale il giudice possa liquidare il danno muovendosi liberamente secondo la propria valutazione personalizzata ed equitativa, ma nel rispetto di un tetto massimo convenzionalmente stabilito in 30.000,00 euro, non ulteriormente personalizzabile. A partire dal quarto giorno, la valutazione giornaliera del danno sarà comunque personalizzabile, in relazione alle circostanze del caso concreto e del particolare sconvolgimento che risulti di volta in volta provato. Si propone che tale personalizzazione non superi il limite del 50%. Il valore del quarto giorno è stato individuato in 1.000,00 euro, mentre la progressiva diminuzione giornaliera è stata calcolata, con i necessari arrotondamenti, in modo tale da giungere, alla fine del periodo, ad un valore (98,00 euro) pari a quanto pro die stabilito dalla Tabella per il danno biologico temporaneo standard (98,00 euro). I valori espressi nella Tabella e corrispondenti all'ammontare del risarcimento base liquidabile in funzione del numero di giorni (da quattro a cento) della sofferenza terminale, sono da intendersi come aggiuntivi rispetto a quanto riconosciuto (entro il tetto massimo di 30.000,00 euro) in via di equità per i primi tre giorni di danno. Così, a titolo di esempio, a fronte di un (comprovato) danno terminale protrattosi per 10 giorni, il giudice potrà anzitutto valorizzare equitativamente i primi tre giorni di sofferenza liquidando una somma determinata entro il tetto massimo di euro 30.000,00 (non ulteriormente personalizzabile). A tale valore, equitativamente determinato entro quel limite, sarà da aggiungere l'importo indicato in tabella in corrispondenza del decimo giorno di sofferenza terminale, pari ad euro 6.803,00. Importo, tale ultimo, aumentabile del 50% in via di personalizzazione (qualora allegati e provati i fatti che la sostengono). E quindi, nel caso ipotizzato, si perverrebbe alla seguente quantificazione finale: • danno liquidabile per i primi 3 giorni: fino a 30.000 euro + • danno liquidabile dal giorno 4 al giorno 10: da 6.803 a (+ 50%) 10.204,5 euro = • valore massimo liquidabile 30.000 + 10.204,5 = 40.204,5 euro.
Sulla falsariga di quanto sinora affermato dalla giurisprudenza in tema di danno biologico terminale, di danno terminale non può parlarsi, se la morte sia stata immediata o sia avvenuta a brevissima distanza di tempo (v., amplius, D. SPERA, Tabelle milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officine del Diritto, Giuffrè, pp. 63-71). Occorre, dunque, che tra lesioni e decesso intercorra comunque un lasso temporale minimo non convenzionalmente individuabile, ma comunque apprezzabile (affinché la coscienza elabori e rappresenti il rischio di morte). La consapevolezza della fine della vita da parte della vittima è, infine, un presupposto necessario affinché possa esservi il risarcimento del danno terminale, che non potrà dirsi esistente, ad esempio, nel caso in cui nel tempo intercorso prima del decesso la vittima stessa abbia versato in stato di incoscienza. In questo senso si era già in passato pronunciata la giurisprudenza formatasi in tema di danno morale cd. catastrofale. Si offre così una definizione omnicomprensiva del “danno terminale”, ricomprendendo nella unitaria categoria i pregiudizi in precedenza definiti come “danno biologico terminale” e “morale catastrofale” (o da “lucida agonia”). In assenza di prova della sussistenza di uno stato di coscienza nell'intervallo tra il sinistro e la morte, la lesione del diritto alla vita non è suscettibile di risarcimento ed ai congiunti spetta il solo risarcimento conseguente alla lesione della possibilità di godere del rapporto parentale con la persona defunta in tutte le sue possibili modalità attuative (Cass. civ., n. 8828/2003). Premesso che si operava una summa divisio tra danno biologico cd. terminale e danno morale cd. catastrofale, il primo era considerato risarcibile solo allorché la vittima fosse rimasta in vita per un “lasso di tempo apprezzabile” (Cass. civ., 17 gennaio 2008, n. 870, e Cass. civ., 13 gennaio 2009, n. 458, hanno reputato l'intervallo di tempo tra il sinistro e la morte di tre giorni, rispettivamente, idoneo e inidoneo ad integrare gli estremi di quella fattispecie di danno non patrimoniale). In questa ipotesi poteva ritenersi entrato a far parte del patrimonio del de cuius il diritto di credito al risarcimento del danno biologico in senso stretto (sotto forma di compromissione dell'integrità psico-fisica) per il tempo che andava dal momento della lesione a quello precedente la morte. Tale diritto era reputato trasmissibile agli eredi ed azionabile in giudizio, iure hereditatis, nei confronti dell'autore dell'illecito e del responsabile civile. Non andava, pertanto, riconosciuto il danno biologico da lesioni immediatamente mortali o quasi (v. Cass. civ., 2 aprile 2001, n. 8177; conf. Cass. civ., 3 gennaio 2002, n. 24; 14 marzo 2002, n. 3728; Cass. civ., 16 giugno 2003, n. 9620; Cass. civ., 9 marzo 2004, n. 4754; Cass. civ., 10 agosto 2004, n. 14508; Cass. civ., 13 gennaio 2006, n. 517). La morte di un soggetto, causata in modo immediato dall'altrui atto illecito, non faceva, cioè, acquistare al defunto – e, quindi, non faceva trasmettere agli eredi – né il diritto al risarcimento del danno biologico, né quello al risarcimento del danno per perdita della vita, inconcepibile con riguardo ad un bene insuscettibile di essere reintegrato anche solo per equivalente (Cass. civ., 14 febbraio 2000, n. 1633). L'impostazione esposta determinava effetti rilevanti soprattutto sul piano probatorio. Non si accoglieva, infatti, la domanda risarcitoria del danno biologico, neppure quale invalidità temporanea della vittima e da questi trasmessa agli eredi, in difetto di prova sul lasso temporale intercorso tra fatto e decesso. Era evidente che, tanto inferiore fosse il lasso di tempo tra l'evento e il decesso, tanto minore spazio vi sarebbe stato per il consolidamento del danno biologico. Il danno in esame andava riconosciuto a prescindere dallo stato di lucidità o di coma in cui versava la vittima (Cass. civ., 24 maggio 2001, n. 7075, Cass. civ., 1 febbraio 2003, n. 18305, Cass. civ., 28 agosto 2007, n. 18163, Cass. civ., 22 marzo 2007, n. 6946; di segno opposto appariva Cass. civ., 14 febbraio 2007, n. 3260, la quale richiedeva che la vittima avesse percepito lucidamente l'approssimarsi della morte; conf. Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2007, n. 21976). Già in passato Cass. civ., sez. III, 1 dicembre 2003, n. 18305, aveva statuito che il danno biologico era risarcibile anche in caso d'incoscienza, poiché la lesione dell'integrità fisica era considerata presente ugualmente sia che la vittima avesse avuto coscienza della lesione sia che non l'avesse avuto; infatti, ciò che contava, si sosteneva, era l'esistenza della lesione biopsichica, che è un fatto oggettivo, non la conoscenza o la percezione di essa che la vittima potesse avere avuto. In caso di morte della vittima che fosse seguita alle lesioni dopo breve tempo, la sofferenza patita dalla vittima durante l'agonia vedova, invece, ritenuta automaticamente risarcibile non come danno biologico, ma come danno morale nella sua ampia accezione; tanto presupponeva che una sofferenza psichica vi fosse stata e, dunque, che la vittima fosse stata in condizioni tali da percepire il proprio stato (il che andava escluso in caso di coma immediatamente conseguito all'evento dannoso). Peraltro, già Cass. civ., sez. III, 17 ottobre 2016, n. 20915, tentando di evitare una sterile sovrapposizione di piani, aveva affermato che, in caso di sinistro mortale che avesse determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protraeva dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), potesse sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico o catastrofale). È evidente come l'applicazione del criterio c.d. cronometrico, con le sue contorsioni, finisse (e finisca tuttora) per creare una disparità di trattamento tra gli eredi della vittima deceduta dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, i quali acquistavano (e non acquistano tuttora) iure hereditatis un diritto al risarcimento del danno biologico terminale (che può essere anche di importo considerevole), e gli eredi della vittima deceduta dopo un arco temporale insufficiente a configurare un'effettiva ripercussione delle lesioni sull'integrità psico-fisica, i quali non acquistavano (e non acquistano tuttora) un analogo credito risarcitorio. Proprio al fine di superare, sia pure in parte, il vuoto di tutela che in tal modo si determinava, la Cassazione aveva creato la figura del danno c.d. catastrofale o catastrofico (in ordine all'autonomia della nozione di "danno catastrofale", v. Cass. civ., sez. III, sent. 20 gennaio 2015 n. 811). Era del pari evidente che tanto inferiore fosse stato il lasso di tempo tra l'evento e il decesso, tanto minore spazio vi sarebbe stato per il consolidamento del danno biologico, per evitare che il riconoscimento di quest'ultimo si sostanziasse in un risarcimento del diritto alla vita calpestato. In definitiva, in passato, nel caso di lesioni fisiche alle quali fosse seguita dopo breve tempo la morte (danno tanatologico), il giudice non avrebbe potuto riconoscere e liquidare (jure hereditario ai congiunti superstiti) il danno alla salute, ma solo la sofferenza psichica provata dalla vittima e sempre che quest'ultima fosse rimasta lucida durante l'agonia. Viceversa, in presenza dell'apprezzabile lasso temporale, poteva essere riconosciuto jure successionis il solo danno biologico terminale, anche se la vittima si fosse trovata durante l'agonia in stato di coma. Pertanto, nel caso in cui fosse maturato un apprezzabile lasso di tempo, il danno morale sarebbe rimasto assorbito nel danno biologico. Restava il rischio di non poter riconoscere alcunché nel caso di morte immediata o che fosse seguita dopo un non apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni, laddove il de cuius non fosse stato cosciente poco prima di morire (tenuto conto che il danno cd. tanatologico non è ristorabile). Più precisamente, a rigore, in caso di morte immediata o, nell'ipotesi in cui fosse seguita dopo un non apprezzabile lasso di tempo, se il de cuius non fosse stato cosciente poco prima di morire, sarebbero sussistite le condizioni per ammettere solo il danno jure proprio da perdita del rapporto parentale. Ora il rischio, nella prospettiva delle nuove tabelle milanesi, sembrerebbe allargarsi. Invero, resterebbe privo di copertura risarcitoria anche il caso in cui la vittima, pur essendo rimasto cosciente in attesa della fine (cd. lucida agonia), sia sopravvissuta per un lasso di tempo “non apprezzabile”. In tal guisa ragionando, si sconfessa di fatto l'indirizzo secondo cui, in caso di lesione che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, un danno ‘biologico' di natura psichica (ricondotto nella dimensione del danno morale), la cui entità non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dell'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito (Cass. civ., sez. lav., 18 gennaio 2011, n. 1072; Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2007, n. 3260; Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2001, n. 4783, in maniera incisiva fa riferimento alla «presenza di un danno "catastrofico" per intensità a carico della psiche del soggetto che attende lucidamente l'estinzione della propria vita»). In conclusione, si esclude che abbia rilevanza sul piano risarcitorio la mera sofferenza psichica (di massima intensità, anche se di durata contenuta) che non sia suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo. Occorrerebbe riflettere sul dato incontestabile a mente del quale nel danno psichico non è solo il fattore durata a determinare la patologia, ma è la stessa intensità della sofferenza e della disperazione (così Cass. civ., 24 gennaio 2001, n. 4783). La ratio sottesa alla scelta dell'Osservatorio la si individua tra le righe della relazione illustrativa alle tabelle, nella parte in cui si evidenzia che solo un lasso temporale minimo “apprezzabile” consente la prova di una sofferenza psicologica non istantanea né immediatamente consumatasi («… necessaria sussistenza di un minimo decorso di tempo apprezzabile affinché la coscienza elabori e rappresenti il rischio di morte»). Inoltre, si eleva al rango di un presupposto necessario affinché possa esservi il risarcimento del danno terminale, la comprovata percezione, da parte della vittima, della fine imminente (id est, la sua consapevolezza della fine vita). Sembrerebbe che l'alveo del pregiudizio in tal guisa delimitato nei confini sia quello del danno morale (abbandonandosi, per l'effetto, quello del danno biologico), sì come è desumibile dal riferimento operato alla regola di esperienza medico-legale secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal momento che la massima “sofferenza” è percepita nel periodo immediatamente successivo all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva, lasciando spazio ad una sorta di “adattamento”, se non, addirittura, alla speranza di sopravvivere.
I vantaggi assicurati dalle tabelle di Milano
L'impianto offerto dall'Osservatorio milanese appare, però, complessivamente reggere l'urto delle eventuali critiche (v. D. SPERA, Tabella del Tribunale di Milano, in Ridare.it). Non è revocabile in dubbio che il danno biologico non possa sic et simpliciter identificarsi nel maggiore o minore turbamento di carattere transeunte provocato dall'evento letale del proprio caro, atteso che tale situazione già riceve tutela sotto forma di danno morale, ma deve tramutarsi in un pregiudizio di carattere permanente, tale da poter essere qualificato alla stregua di una vera e propria malattia concretantesi in un serio e non occasionale disturbo della personalità o in disturbi psichici e fisici, idonea cioè ad incidere in maniera grave e non transitoria sulle complessive condizioni di salute dell'istante (Cass. civ., 25 febbraio 1997, n. 1704). A ben vedere, nel valorizzare i primi tre giorni di agonia, l'Osservatorio prende in considerazione il dato, rilevato in passato con riferimento al danno morale catastrofale, per cui il periodo di sopravvivenza, sebbene limitato nel tempo, consente al fatto illecito di produrre buona parte degli effetti pregiudizievoli. Importante è, peraltro, la precisazione che identifica il dies a quo di decorrenza del calcolo (vale a dire, della tabella giornaliera proposta) dal momento della percezione della fine. In secondo luogo, viene data concreta applicazione al condivisibile principio generale secondo cui la misura del danno deve essere determinata in relazione alla effettiva menomazione dell'integrità psicofisica subìta dal soggetto per il periodo di tempo tra il verificarsi delle lesioni ed il sopraggiungere della morte, respingendo l'idea secondo la quale, nel caso in cui il decesso sia causato dalle lesioni, il danno biologico debba essere risarcito "per intero", ossia come se il de cuius fosse vissuto per un tempo pari alle proprie speranze di vita (cfr. Cass. civ., 9 ottobre 2009, n. 21497; Cass. civ., 16 giugno 2003, n. 9620; Cass. civ., 24 febbraio 2003, n. 2775; Cass. civ., 16 maggio 2003, n. 7632). Invero, «poiché anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media». Al contempo, i criteri orientativi milanesi considerano l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che il danno in esame, se pur temporaneo, raggiunge la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l'esito mortale. La salute danneggiata non solo non recupera (cioè non "migliora") né si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, ma non la "progressione" verso di esso, poiché durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22228). Condivisibilmente l'Osservatorio ha rinnegato quell'orientamento che, in termini apodittici e generici, commisurava l'ammontare del diritto iure hereditatis al risarcimento del danno biologico terminale (sofferto da un congiunto deceduto nell'arco temporale compreso fra l'evento ed il momento del decesso) all'inabilità temporanea totale, limitandosi a tener conto, ai fini della sua liquidazione, delle circostanze del caso concreto (Cass. civ., 17 gennaio 2008, n. 870). Invero, la peculiarità del danno biologico terminale è che esso è di tale entità e intensità da condurre a morte un soggetto in un limitato, sia pure apprezzabile, lasso di tempo; pertanto, va distinto dal danno biologico da invalidità temporanea totale, in quanto è più intenso il minus esistenziale e la salute danneggiata, ripetesi, non solo non recupera (cioè non "migliora") nè si stabilizza, ma degrada verso la morte (Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632; conf. Cass. civ., sez. lav., 27 maggio 2009, n. 12326). Eppure, anche di recente la Suprema Corte ha avallato questo criterio, statuendo che, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, qualificabile come danno biologico terminale, che dà luogo a una pretesa risarcitoria, trasmissibile iure haereditatis, da commisurare soltanto all'inabilità temporanea (Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2018, n. 18328), sia pure adeguando la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, seppure temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte. La corte territoriale aveva, dunque, errato nel liquidare il danno in parola con il punto massimo d'invalidità permanente, così finendo per liquidare un pregiudizio diverso da quello subìto e, per un verso, parametrato alla totale compromissione dell'integrità fisica affatto accertata e, per altro verso, presupponente una stabilizzazione non acquisita perché, a sua volta, correlabile, come tale, solo alla sopravvivenza del soggetto all'evento pregiudizievole. In terzo luogo, i nuovi parametri prendono in debita considerazione la circostanza che il danno biologico terminale è un danno nel quale, proprio stante la tendenza ad un aggravamento progressivo, i fattori della personalizzazione debbono valere in grado assai elevato (Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003; conf. Cass. civ., 30 gennaio 2006, n. 1877). Per quanto i due metodi si avvicinino, è, infine, evidente la differenza che intercorre con i criteri enunciati dal Tribunale di Roma, il quale si avvale dei parametri dei giorni permanenti in vita (aspetto dinamico; € 1.216,00 per ogni giorno di sopravvivenza per i primi 10 giorni ed un importo decrescente per i giorni successivi fino al 30°, oltre il quale il risarcimento per ogni ulteriore giorno viene fissato in € 110,00) e dell'età della vittima (aspetto statico, a prescindere dalla durata della sopravvivenza; varia da un massimo di € 5.622,00 ad un minimo di € 562,00). Viceversa, l'Osservatorio milanese ha scelto consapevolmente di non valorizzare, in sede di quantificazione del danno, l'aspetto statico. Considerazioni finali
Non è revocabile in dubbio che i criteri orientativi enunciati porranno fine all'anarchia liquidativa registrata negli ultimi anni nelle corti di merito, che ha condotto a risarcimenti disomogenei, pur a fronte di situazioni analoghe sul piano fattuale. Abbracciando un principio di unitarietà e di omnicomprensività, si eviterà altresì il pericolo di duplicazione di medesime poste di pregiudizio. Nella medesima direzione si muove la scelta di ritenere assorbita nella liquidazione del danno terminale quella del danno biologico temporaneo “ordinario”, il quale tornerà ad essere risarcibile (da solo) nell'eventualità in cui la durata del pregiudizio si protragga oltre il limite temporale dei 100 giorni convenzionalmente individuato. Resterà tuttora alla giurisprudenza il compito di scrutinare, come è ovvio, le singole fattispecie concrete. Ora come allora non si accoglierà la domanda risarcitoria del danno terminale iure hereditatis, neppure quale invalidità temporanea della vittima e da questi trasmessa agli eredi, in difetto di prova sul lasso temporale intercorso tra fatto e decesso (richiesto in passato quanto al danno cd. terminale) e in difetto assoluto di elementi atti a sostenere che la vittima percepiva quanto stava accadendo (richiesto in passato quanto al danno cd. catastrofico o catastrofale). Ugualmente, al pari del passato, spetterà al giudice, in base ai referti medici ed alle prove testimoniali, accertare lo stato di lucidità della vittima prima della morte e, in base alla gravità della lesione, trarne le conseguenze, traducibili in termini pecuniari, delle sofferenze non solo fisiche, ma anche psicologiche, patite nell'arco temporale tra la lesione e la morte. Seri dubbi residueranno, alla stessa stregua di quanto avveniva in precedenza, per l'ipotesi cd. border line di persona priva di sensi, indotta in coma farmacologico. Dovrebbe, invece, escludersi la risarcibilità del danno quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente lo stato di coma (e tale stato sia perdurato fino al decesso) e la vittima non sia rimasta lucida nella fase che precede il decesso (v. in tal senso anche Cass. civ., 16 maggio 2003, n. 7632; Cass. civ., 31 maggio 2005, n. 11601; Cass. civ., 6 agosto 2007, n. 17177; Cass. civ., n. 3260/2007). In quest'ottica, Cass. civ., 8 gennaio 2010, n. 79, ha sostenuto che la persona ridotta in coma a causa di un incidente stradale è “sostanzialmente deceduta” e, quindi, non ha diritto al risarcimento del danno biologico e morale (Cass. civ., 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. civ., n. 6754/2011). |