Mutamento del rito: riferimento alla forma ipotetica per la produzione degli effetti della domanda

Cesare Trapuzzano
10 Settembre 2018

La consolidata giurisprudenza di legittimità, pur ammettendo una circoscritta equipollenza e fungibilità tra i due modelli di atto introduttivo tradizionalmente adoperati dal legislatore processuale (citazione e ricorso) e pur escludendo che l'erronea adozione dell'uno in luogo dell'altro sia di per sé motivo di nullità irrimediabile o comunque di definizione del processo in mero rito, pone un'importante ed incisiva limitazione allorché l'instaurazione del giudizio sia soggetta ad un termine di decadenza.
La posizione consolidata della giurisprudenza di legittimità

La consolidata giurisprudenza di legittimità, pur ammettendo una circoscritta equipollenza e fungibilità tra i due modelli di atto introduttivo tradizionalmente adoperati dal legislatore processuale (citazione e ricorso) e pur escludendo che l'erronea adozione dell'uno in luogo dell'altro sia di per sé motivo di nullità irrimediabile o comunque di definizione del processo in mero rito, pone un'importante ed incisiva limitazione allorché l'instaurazione del giudizio sia soggetta ad un termine di decadenza. In tali ipotesi si afferma che la tempestività dell'atto introduttivo deve essere valutata, non già alla luce del modello erroneamente utilizzato, bensì secondo quello che avrebbe dovuto impiegarsi, nel senso cioè che:

a) ove il processo debba promuoversi con ricorso, la domanda proposta con citazione può tenere luogo del ricorso, ma non dal giorno della notifica al convenuto, bensì solo dal momento in cui la citazione medesima sia depositata nella cancelleria del giudice adito, ciò che normalmente avviene con la costituzione dell'attore;

b) se, invece, sia stato utilizzato un ricorso in sostituzione della prescritta citazione, il giudizio si ha per iniziato non già dal giorno del deposito dell'atto introduttivo in cancelleria, bensì dal momento in cui esso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, sia notificato al convenuto (tra le ultime, Cass. civ., sez. VI-III, ord., 19 settembre 2017, n. 21671; Cass. civ., sez. VI-III, ord., 29 dicembre 2016, n. 27343; Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 2013, n. 797; Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2009, n. 8014; già prima, in tal senso, Cass. civ., Sez. Un.,14 marzo 1991, n. 2714).

Lo stesso principio è stato sostenuto con riferimento alla valutazione della tempestività degli atti di gravame, quand'anche relativi alle controversie ricadenti nella semplificazione dei riti (Cass. civ., sez. VI-II, ord., 2 agosto 2017, n. 19298; Cass. civ., sez. VI-I, ord., 6 luglio 2016, n. 13815; Cass. civ., sez. VI-I, ord., 11 settembre 2015, n. 18022; Cass. civ., sez. VI-I, 15 dicembre 2014, n. 26326; Cass. civ., sez. VI-I, ord., 26 giugno 2014, n. 14502; Cass. civ., Sez. Un., 10 febbraio 2014, n. 2907).

Pertanto, alla stregua di questo inquadramento generale, l'effetto impeditivo della decadenza processuale si produce in un momento successivo all'instaurazione del giudizio, col verificarsi di un evento che in qualche modo sanerebbe l'iniziale difetto di forma e renderebbe la citazione equipollente al ricorso e viceversa.

La giurisprudenza è solita affrontare il problema in esame - e giustificare la pur limitata equipollenza tra citazione e ricorso - invocando il principio di convalidazione per raggiungimento dello scopo di cui all'art. 156, comma 3, c.p.c. oppure facendo richiamo al principio di conservazione degli atti processuali, talora ricollegato all'art. 159 c.p.c.. Fa eccezione la sola ipotesi della causa di lavoro o comunque assoggettata al rito del lavoro, erroneamente introdotta con citazione, in cui la prosecuzione del giudizio è argomentata attraverso la disciplina del mutamento del rito contenuta nell'art. 426 c.p.c., seppure, per lo più, alla rammentata condizione che anteriormente al deposito in cancelleria dell'atto di citazione non si sia già verificata una decadenza. Sebbene la Corte di cassazione sia attestata su posizioni univoche nel ritenere che, all'esito dell'introduzione della causa con atto avente forma diversa da quella prescritta dalla legge, il mutamento del rito importa che gli effetti sostanziali e processuali della domanda si determinano dal momento della litispendenza che si sarebbe radicata ove l'atto introduttivo avesse avuto la forma prescritta, e non sulla base della litispendenza determinata alla stregua della forma errata dell'atto, tuttavia, con riferimento all'impugnazione delle delibere condominiali, la “eclettica” sentenza della stessa Corte 14 aprile 2011, n. 8491, resa a Sezioni Unite, per un verso, ha sostenuto che il termine “ricorso” adoperato nell'art. 1137 c.c. non deve essere inteso in senso tecnico, ossia come prescrittivo di una determinata forma dell'atto introduttivo, bensì nel suo significato più generico di istanza rivolta al giudice, con la conseguenza che per le impugnazioni delle delibere condominiali deve aversi riguardo alla disciplina generale di cui all'art. 163 c.p.c., secondo cui la domanda si propone mediante citazione a comparire a udienza fissa; e, per altro verso, ha affermato che, nel caso di errore relativo alla forma dell'atto introduttivo di tale giudizio, ossia nell'ipotesi in cui l'impugnazione della delibera sia proposta con ricorso, anziché con citazione, l'impugnazione deve considerarsi pur sempre tempestiva, a condizione che entro il termine previsto dall'art. 1137 il ricorso sia depositato nella cancelleria del giudice adito, indipendentemente dalla data in cui esso viene poi notificato al convenuto, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza. E ciò perché, secondo la Corte di legittimità, l'adozione della forma del ricorso è pur sempre idonea al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale che sorge già mediante il tempestivo deposito in cancelleria, mentre estendere alla notificazione la necessità del rispetto del termine non risponde ad alcuno specifico e concreto interesse del convenuto e, nel contempo, grava l'attore di un incombente il cui inadempimento può non dipendere dalla sua inerzia, ma dai tempi impiegati dall'ufficio giudiziario per la pronuncia del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione. Sicché attraverso tale pronuncia la Cassazione deroga al suo consolidato orientamento secondo cui, nel caso in cui la domanda sia proposta con atto avente forma diversa da quella prescritta, la litispendenza si determina sulla scorta dei criteri riferiti alla forma dell'atto che avrebbe dovuto essere (“forma ipotetica”) e non alla forma dell'atto così come effettivamente materializzata (“forma concreta”). Resta comunque fermo che la sentenza citata si colloca pur sempre nell'ambito della previsione dell'art. 1137 c.c. e persegue l'evidente fine di raggiungere un effetto di sanatoria a favore degli impugnanti che abbiano fatto incolpevole affidamento sul tenore letterale della norma, che – prima della riforma di cui all'art. 15 della legge 11 dicembre 2012, n. 220testualmente si riferiva alla proposizione dell'impugnazione “con ricorso”, seppure utilizzando una locuzione atecnica e impropria.

Ancora, con specifico riguardo ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, l'orientamento di legittimità è pacifico nel ritenere che, quando l'art. 645 c.p.c. espressamente evoca la “citazione”, quale forma dell'atto attraverso cui si propone l'opposizione, intende riferirsi alla forma ordinaria di proposizione dell'opposizione, cui si applica il processo a cognizione piena, ma non importa affatto che, qualora la controversia sia soggetta al rito del lavoro, l'opposizione debba essere spiegata con citazione, anziché con ricorso (Corte cost., ord., 24 maggio 2000, n. 152).

Il tema è stato affrontato anche in dottrina con soluzioni contrastanti. Secondo una prima soluzione, vi sarebbe assoluta fungibilità tra le forme degli atti introduttivi dell'opposizione, con la conseguenza che, ove l'opposizione debba essere proposta mediante il deposito di un ricorso, la notifica di una citazione, purché perfezionatasi entro il termine previsto per il deposito del ricorso, sarebbe sufficiente ad evitarne la tardività, e viceversa, ove l'opposizione debba essere proposta mediante la notifica di una citazione, il deposito di un ricorso, purché perfezionatosi entro il termine previsto per la notifica della citazione, sarebbe sufficiente ad evitarne la tardività. In base ad altra tesi, la sanatoria dell'opposizione spiegata secondo modalità irrituali, sanatoria conseguente al mutamento del rito, deve essere conformata al modello che l'atto avrebbe dovuto assumere, sicché, ove l'opposizione debba essere proposta con ricorso, ma sia stata di fatto spiegata con citazione, soltanto nel momento in cui la citazione è depositata in cancelleria per l'iscrizione a ruolo è possibile affermare una sua corrispondenza funzionale con il deposito del ricorso; e, allo stesso modo, ove l'opposizione debba essere proposta con citazione, ma sia stata di fatto spiegata con ricorso, soltanto nel momento in cui il ricorso è notificato alla controparte, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, è possibile affermare una sua corrispondenza funzionale con la notifica della citazione.

Inammissibilità della questione in materia processuale, che non sia manifestamente irragionevole

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate in materia processuale sarebbero inammissibili ove si ritenesse che il risultato auspicato ecceda la funzione di controllo e di sindacabilità spettante alla Corte costituzionale, ricadendo nell'ambito delle scelte discrezionali rimesse al legislatore. Infatti, specie con riferimento alla materia processuale, si ritengono insindacabili le scelte normative desumibili da una determinata lettura delle norme, ove esse non siano connotate da manifesta irragionevolezza (Corte cost., 23 giugno 2016, n. 152; Corte cost., 30 maggio 2016, n. 121; Corte cost., 28 ottobre 2014, n. 243; Corte cost., 23 gennaio 2013, n. 10). E, in tal senso, l'approccio ermeneutico della norma, fornito in sede nomofilattica, dovrebbe essere riconducibile ad una precisa logica, oltre ad avere una congrua spiegazione sistematica. Al riguardo, l'argomento relativo all'individuazione del momento di produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, nel caso in cui la controversia sia introdotta con atto avente forma errata, avrebbe condotto a conclusioni manifestamente irragionevoli ove l'esegesi dell'art. 426 c.p.c. fosse stata rivolta ad escludere in radice qualsiasi effetto di sanatoria in conseguenza dell'errore sulla forma dell'atto introduttivo, con la previsione della sanzione di inammissibilità tout court della domanda, ossia di una declaratoria in rito quale conseguenza indefettibile e irrimediabile di tale errore: in tale evenienza per il solo fatto di avere “scambiato” il modello di atto introduttivo, ne sarebbe conseguita l'inammissibilità del giudizio, indipendentemente da qualsiasi riferimento temporale. Per converso, l'interpretazione della giurisprudenza di legittimità contempla la conversione mediante la possibilità di disporre il mutamento del rito, garantendo la conservazione dell'atto nullo per errore sulla forma. Tuttavia, tale conservazione non opera con effetti illimitati, ma la portata della sanatoria, che a tali fini può definirsi condizionata, è circoscritta entro confini esattamente delineati (il cui rispetto dipende dall'assolvimento di un onere di qualificata diligenza della parte processuale, rivestente la qualità di opponente al decreto monitorio). In altri termini, per effetto del mutamento del rito, intanto la conservazione dell'atto introduttivo nullo per errore sulla forma impedirà qualsiasi decadenza, in quanto esso sia tempestivo con riferimento alla litispendenza che si determina sulla scorta dei criteri che sarebbero valsi qualora l'azione fosse stata proposta con l'atto avente la forma corretta. Ma ciò non significa che sia negata - a monte e a priori - la conservazione dell'atto nullo, pur quando esso abbia raggiunto lo scopo, bensì che la sua operatività è subordinata alla condizione che gli effetti sostanziali e processuali della domanda siano ricondotti al momento in cui si sarebbe radicata la litispendenza, qualora la forma dell'atto fosse stata corretta. Si tratta di una conservazione temperata o relativa e non con effetti sananti assoluti. E ciò ritenendo che il mutamento del rito si realizzi non solo per il futuro, ma anche con riferimento agli effetti dell'atto introduttivo già formalizzato, la cui disciplina, all'esito della conversione, deve adeguarsi alle prescrizioni stabilite per l'atto che avrebbe dovuto rivestire una certa forma, piuttosto che alle prescrizioni stabilite per la forma in concreto rivestita dall'atto introduttivo. L'incidenza del mutamento del rito anche sugli effetti della domanda già proposta, con atto avente forma errata, si giustifica altresì alla stregua dell'imputabilità dell'errore sulla forma dell'atto alla parte che ha introdotto il giudizio. Con riferimento all'opposizione a decreto ingiuntivo, la causa petendi dedotta nel ricorso monitorio – e ripresa o precisata nel relativo decreto ingiuntivo – costituisce elemento idoneo a consentire all'ingiunto la determinazione del rito cui soggiace l'opposizione e della forma dell'atto confacente ad introdurla. Ove l'opponente abbia prescelto un rito errato e proposto l'opposizione secondo forme non contemplate da tale rito, le conseguenze che ne discendono, sul piano degli effetti della domanda, sono comunque ascrivibili alla sua responsabilità. E ove vi siano obiettive difficoltà nella selezione del rito, elementari regole di cautela e prevenzione impedirebbero comunque la produzione di effetti preclusivi, mediante l'instaurazione del contenzioso entro tempi ristretti, anziché a ridosso della scadenza del termine di proposizione, ciò consentendo la sanatoria dell'atto, anche all'esito della disposizione del mutamento del rito. Così nel dubbio circa la tipologia di rito, cui sottostà l'opposizione applicabile alla fattispecie concreta, è esigibile che il difensore accorto notifichi un atto avente la forma della citazione – e, all'esito, provveda all'immediata iscrizione a ruolo mediante deposito in cancelleria –, il tutto entro il termine di 40 giorni dalla notifica del provvedimento monitorio. Questa impostazione è altresì funzionale alla garanzia di tipicità delle forme degli atti introduttivi dei giudizi, forme individuate in base al rito prescritto in ragione della materia su cui la controversia verte. Infatti, pur essendo il nostro ordinamento improntato al principio di libertà delle forme degli atti processuali, sono comunque fatte salve le prescrizioni sull'adozione di specifici modelli formali con riferimento a determinati atti, come accade per i modelli di domanda introduttiva del giudizio, in relazione al rito da seguire per il tipo di controversia instaurata.

Viceversa, qualora si aderisse alla tesi secondo cui, disposto il mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si determinano comunque in ragione della forma concreta assunta dall'atto introduttivo, e non in base alla forma che esso avrebbe dovuto avere, si giungerebbe all'affermazione di un principio di completa equipollenza e fungibilità tra ricorso e citazione, con la conseguenza che la totale assimilazione dei loro effetti renderebbe del tutto irrilevante la scelta della parte in ordine all'identificazione della forma dell'atto introduttivo, indipendentemente ed in spregio alle prescrizioni astratte regolatorie di detto vincolo di forma. Ebbene una siffatta indifferenza delle forme dell'atto introduttivo del giudizio, potenzialmente valevole anche per i giudizi impugnatori in senso stretto, alla stregua dell'integrale assimilazione dei loro effetti, non potrebbe che competere alla discrezionalità del legislatore, e non certo può essere sancita dalla Consulta. Né la via dell'incidente di costituzionalità può essere il percorso più appropriato per risolvere l'avvertito problema processuale della proliferazione dei riti e della conseguente difficoltà obiettiva di individuare il rito confacente alla controversia da instaurare nonché la correlata forma dell'atto introduttivo. Tanto più che, a fronte dell'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, che si è espressa nel senso anzidetto, alcuni arresti più risalenti sostenevano che, all'esito del passaggio dal rito ordinario al rito speciale, o viceversa, il giudice sarebbe stato in ogni caso tenuto ad applicare, ai fini della verifica del rispetto dei termini decadenziali, le norme relative al rito introdotto dall'atto in concreto proposto, con la conseguenza che, ove l'opposizione fosse stata introdotta con citazione, anziché con ricorso, la notifica della citazione, purché compiuta entro il termine stabilito per il deposito del ricorso, sarebbe stata sufficiente ad evitarne la tardività (Cass. civ., sez. III, 13 settembre 1995, n. 9664, quanto al processo di opposizione avverso l'ordinanza di affrancazione del fondo enfiteutico; Cass. civ., sez. lav., 16 novembre 1994, n. 9675, con riferimento al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo; Cass. civ., Sez. Un., 7 marzo 1985, n. 1876, con riguardo al procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione). Quest'ultimo indirizzo è stato seguito anche da un filone della giurisprudenza di merito (Pret. Como, 2 gennaio 1986; Pret. Roma, 24 aprile 1988; Pret. Napoli, 20 dicembre 1995; Trib. Cagliari, 20 luglio 2004; Trib. Napoli, 26 gennaio 2005; Trib. Cremona, 16 maggio 2005). Sicché non è escluso che la questione possa trovare una composizione anche in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità. Sollecitare, per converso, l'intervento della Corte su tale argomento implicherebbe la scelta di una determinata soluzione interpretativa, con lo svolgimento di una funzione creativa che non spetta alla Corte (Corte cost., ord., 16 luglio 2014, n. 205; Corte cost., ord., 24 febbraio 2010, n. 59).

Per converso, il vaglio di ammissibilità si sarebbe potuto ritenere superato ove la soluzione processuale prescelta in via interpretativa dalla giurisprudenza di legittimità – direttamente “attaccata” dal giudice rimettente quale “diritto vivente” - fosse stata qualificata come manifestamente irragionevole, in quanto lesiva del diritto di difesa e del giusto processo, nella parte in cui subordina l'impedimento di ogni decadenza alla forma ipotetica dell'atto, anziché a quella assunta in concreto (Corte cost.,20 novembre 2017, n. 241). In questa prospettiva non avrebbe avuto alcun senso parametrare il dies a quo di decorrenza degli effetti sostanziali e processuali della domanda alla litispendenza non come in concreto realizzatasi, ma come si sarebbe determinata ove l'azione fosse stata incardinata con un atto avente i requisiti di forma prescritti rispetto alla tipologia di controversia instaurata. In base a questa ricostruzione, il principio di conservazione degli atti nulli mediante la disposizione del mutamento del rito avrebbe operato solo per il futuro, ossia per il rito da seguire all'esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando fermi gli effetti già prodotti dall'atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta. Siffatta conclusione è stata argomentata anche in ragione della giurisprudenza costituzionale formatasi sulla translatio iudicii, secondo cui gli effetti sostanziali e processuali della domanda sono comunque fatti salvi, sulla scorta del riferimento alla forma dell'atto introduttivo del giudizio come in concreto prospettata dall'attore, qualunque essa sia, nonostante l'organo giudiziario adito sia privo di giurisdizione (oltre che nel caso di incompetenza), per effetto dell'indicazione dell'autorità cui spetta la giurisdizione e del conseguente passaggio della causa davanti al giudice fornito di giurisdizione, con debito atto di riassunzione (Corte cost.,n. 223/2013; Corte cost., n. 77/2007). L'assunto sarebbe stato il seguente: se è fatto salvo l'atto che ha introdotto la causa davanti al giudice carente di giurisdizione, a maggior ragione potrebbe essere fatto salvo l'atto che ha introdotto un rito errato, anche all'esito della disposizione del mutamento di tale rito.

Disparità di trattamento con la previsione specifica di cui all'art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150/2011

La comparazione invocata con riguardo alla diversa regolamentazione della produzione degli effetti processuali e sostanziali della domanda, in conseguenza del mutamento del rito disposto nelle procedure speciali disciplinate dal d.lgs. sulla c.d. semplificazione dei riti n. 150/2011, disponendo l'art. 4, comma 5, che detti effetti si producono facendo riferimento alla litispendenza determinata dalla forma dell'atto in concreto prescelta, e non da quella che esso avrebbe dovuto avere, avrebbe potuto giustificare una pronuncia di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale prospettate, ove si fosse reputato che tale eterogeneità di discipline sarebbe stata del tutto irragionevole e ingiustificata. Così non avrebbe avuto senso prevedere la sanatoria più ampia per i riti speciali e una sanatoria più ristretta per i riti contemplati dal codice di procedura. Questa conclusione avrebbe richiesto la pronuncia di una sentenza additiva semplice, volta a sancire l'illegittimità costituzionale dell'art. 426 c.p.c., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, importa che la produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda avvenga con riferimento alla “forma ipotetica” dell'atto e non alla “forma concreta”, diversamente da quanto emergerebbe dal riferimento normativo utilizzato come tertium comparationis.

Questa opzione non appare però esente da critiche e sembra determinare conseguenze non compatibili con le linee generali dell'ordinamento giuridico e, in particolare, con le regole che disciplinano l'interpretazione della legge e l'ambito applicativo delle leggi eccezionali ex artt. 12 e 14 disp. prel. al c.c. Infatti, la previsione che àncora il momento di produzione degli effetti della domanda alla “forma concreta” dell'atto introduttivo, anziché alla “forma ipotetica”, è contenuta in una legge speciale sopravvenuta al codice di rito e si riferisce espressamente ai riti speciali disciplinati da detta legge. Sicché l'art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150/2011 sembra porsi espressamente in un rapporto derogatorio, piuttosto che abrogativo, rispetto all'art. 426 c.p.c., secondo la chiave di lettura che ne ha dato la giurisprudenza di legittimità. Infatti, nel disporre che, con riferimento ai riti speciali, nel caso di mutamento del rito, la litispendenza si determina avendo riguardo alla forma dell'atto nullo e non a quella dell'atto risultante dalla conversione, il legislatore pare implicitamente avere postulato due ragioni sottese alla prescrizione: a) da un lato, sembra avere recepito la regola giurisprudenziale in forza della quale, con riferimento ai procedimenti regolati dal codice di rito (fuori dall'ambito eccezionale dei riti speciali), cui si applica l'art. 426 c.p.c., prevale la “forma ipotetica” e non quella concreta, ai fini di stabilire la litispendenza (ossia si seguono le norme relative al rito mutato e non quelle relative al rito antecedente al mutamento), poiché, ove il legislatore avesse presupposto la valenza generale del principio dettato per i riti speciali, non avrebbe avvertito il bisogno di contemplare una regola ad hoc per i soli riti speciali; b) dall'altro lato, l'intervento operato sui soli riti speciali sembra confermare la volontà del legislatore di delimitare ai soli riti speciali la portata di tale regola, circa la prevalenza della “forma concreta” sulla “forma ipotetica”, ai fini della determinazione del momento di decorrenza degli effetti della domanda all'esito del mutamento del rito, altrimenti la norma sarebbe stata inserita nel codice di rito e non nella disciplina dedicata ai riti speciali. Pertanto, il legislatore della semplificazione dei riti ha implicitamente convalidato la vigenza di una regola opposta per i riti ordinari, diversi da quelli semplificati.

In definitiva, rispetto alle tipologie di controversie espressamente indicate dal decreto sulla semplificazione dei riti, cui rispettivamente si applicano il rito del lavoro, il rito sommario di cognizione e il rito ordinario di cognizione, il legislatore ha dettato una regola derogatoria del principio generale secondo cui, nel caso di mutamento del rito, si ha riguardo, ai fini della litispendenza, alla “forma ipotetica” e non alla “forma concreta” dell'atto introduttivo. E ciò per impedire la maturazione di effetti preclusivi nel caso di errore nella forma dell'atto introduttivo, con specifico riferimento ai giudizi oppositivi o impugnatori in senso lato ivi disciplinati. Infatti, nell'esercizio della delega si è inteso realizzare una chiara inversione di tendenza rispetto al passato, razionalizzando e semplificando le disposizioni processuali contenute nella legislazione speciale, mediante un unico testo normativo, il quale si pone in rapporto di complementarità rispetto al codice di procedura civile, in sostanziale prosecuzione del libro IV del medesimo codice. Le relative disposizioni processuali sono applicabili alla tipologia di controversie oggetto dell'intervento normativo, con una formulazione ideata appositamente per fugare i dubbi interpretativi conseguenti all'adattamento dei modelli processuali. L'esigenza di far confluire in un unico testo tutte le norme processuali speciali è volta a garantire la coerenza del sistema processuale e a ridurre le diseconomie che l'eccessiva parcellizzazione dei modelli processuali aveva dimostrato di provocare. Le osservazioni generali di cui alla relazione illustrativa precisano, al riguardo, che l'importanza dell'inversione di tendenza che il decreto ha inteso realizzare non ha immediate ripercussioni sulle norme del codice di rito, semmai postula che detta inversione sia seguita da ulteriori concreti interventi normativi, volti ad incrementare l'efficienza e la razionalità delle norme processuali, anche nell'ottica di un recupero di garanzie reso necessario dalla riforma dell'art. 111 Cost. In questa prospettiva si conferma la natura derogatoria alle regole processuali generali delle numerose disposizioni contenute in tale testo, comprese quelle specificamente atte a conseguire effetti di riequilibrio di posizioni sostanziali delle parti caratterizzate da una disarmonia originaria, ovvero quelle rese necessarie dal collegamento con specifiche fattispecie extra-processuali. Tra queste ricade la prescrizione che recepisce e rimodula la normativa in materia di mutamento del rito, già contemplata dal codice di procedura civile. Pertanto, le previsioni contenute nell'articolo 4 regolamentano esclusivamente l'ipotesi in cui una delle controversie previste dal decreto legislativo venga erroneamente introdotta applicando un rito differente rispetto a quello previsto dalla legge. E così il comma 5, che sancisce che gli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale si producono secondo le norme del rito applicato prima del mutamento, al fine di escludere in modo univoco l'efficacia retroattiva del provvedimento che dispone il mutamento medesimo, scaturisce dalla circostanza, espressamente riferita ai riti speciali ivi regolati, della virtuale consolidabilità del rito erroneamente seguito dalle parti, sullo sfondo di differenze puramente di disciplina procedurale e non più di tecniche delle tutele, e dall'esigenza di circoscriverne al minimo l'incertezza interpretativa: il fine precipuo di tali riti speciali è quello di evitare incertezze interpretative in merito al regime delle preclusioni, tutelando l'affidamento riposto sulle regole procedimentali seguite fino al momento del mutamento.

Questa ricostruzione esclude l'integrazione di una irragionevole disparità di trattamento, atteso appunto che le disposizioni poste a confronto sono riconducibili a situazioni eterogenee che ne giustificano la differente disciplina.

Violazione del diritto di difesa e del giusto processo

La decorrenza degli effetti della domanda, nel caso di mutamento del rito, dal momento in cui si sarebbe radicata la litispendenza, ove l'atto introduttivo fosse stato proposto secondo le forme corrette, potrebbe in tesi determinare un vulnus all'effettività della tutela giurisdizionale e al principio del giusto processo, comportando la possibile maturazione di decadenze che, per contro, non sarebbero maturate avendo esclusivo riguardo alla forma assunta in concreto dall'atto introduttivo, con ripercussioni ulteriori sull'equità del processo, derivanti dalle conseguenze che discendono dall'errore sulla forma della domanda. Inoltre, tale meccanismo preclusivo si sarebbe posto in contrapposizione con la salvezza degli effetti della domanda proposta davanti ad autorità priva di giurisdizione o competenza, nonostante il passaggio della controversia ad altra giurisdizione o ad altro ufficio giudiziario nell'ambito della stessa giurisdizione.

Tuttavia, ove si valorizzasse l'aspetto inerente all'integrazione di un errore sul rito – e sulla forma dell'atto introduttivo –, imputabile alla parte istante, gli effetti preclusivi che ne conseguirebbero sarebbero del tutto compatibili con il diritto di difesa. E ciò perché le preclusioni e decadenze maturano non già per il solo errore sull'atto in sé, ma per l'eventuale tardività all'esito del mutamento, comparata al modello che l'atto avrebbe dovuto assumere. D'altro canto, la sanatoria discendente dalla translatio iudicii non è automatica, ossia non avviene mediante rinvio d'ufficio del giudice privo di giurisdizione o incompetente al giudice che ha la giurisdizione o la competenza, ma postula comunque che vi sia un rituale e tempestivo atto di riassunzione, ossia un atto d'impulso della parte istante che rispetti le forme e i termini di legge, a pena di estinzione. In proposito, l'art. 59, comma 2, ultimo periodo, l. n. 69/2009 stabilisce che la domanda si ripropone davanti al giudice cui spetta la giurisdizione con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile; e il comma 4 aggiunge che l'inosservanza dei termini fissati per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l'estinzione del processo, che è dichiarata anche d'ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda. Sul punto, la giurisprudenza ha ancora precisato che, qualora un giudice abbia declinato la propria giurisdizione, l'atto che determina la prosecuzione del giudizio è diversamente regolato a seconda che debba essere proposto davanti ad un giudice la cui giurisdizione abbia, o meno, le medesime caratteristiche della prima, sicché, ove si passi da un processo di tipo prevalentemente impugnatorio ad uno esclusivamente di cognizione sul rapporto, o viceversa, l'atto di prosecuzione deve assumere la forma di una riproposizione della domanda, stante il necessario adattamento del petitum, mentre, se il giudizio prosegua verso altro avente le medesime caratteristiche, detto atto assume la forma di un atto di riassunzione, regolato dall'art. 125 disp. att. c.p.c. (Cass. civ., Sez. Un., ord., 15 dicembre 2016, n. 25837). Pertanto, pur quando l'atto di riassunzione non operi come nuova domanda o nuova impugnazione, ma quale mero impulso processuale volto a riattivare la prosecuzione del giudizio conclusosi con la declinatoria di giurisdizione, ricollocando le parti nella posizione che già avevano, le sue carenze, sebbene possano sicuramente essere colmate grazie all'istituto della sanatoria, producono effetto ex nunc (Cass. civ., sez. V, 7 ottobre 2016, n. 20166). Identiche conclusioni valgono per la riassunzione davanti al giudice dichiarato competente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 50 c.p.c. e 125 disp. att. c.p.c.; così la riassunzione deve avvenire con comparsa da notificare entro il termine di legge, a pena di estinzione del processo. Per l'effetto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'atto di riassunzione deve avvenire con la forma della comparsa prevista dagli artt. 50 c.p.c. e 125 disp. att. c.p.c., anziché con ricorso, e tale comparsa deve essere notificata alla controparte nel termine assegnato dal giudice (Cass. civ., sez. V-II, ord., 20 dicembre 2011, n. 27850). Sicché compete al giudice ad quem stabilire se la riassunzione, come concretamente attuata, sia tempestiva e, più in generale, risponda ai requisiti di forma e di contenuto necessari perché si verifichi l'effetto della continuazione del processo e sia evitata l'estinzione (Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2010, n. 11498; Cass. civ., sez. I, 6 marzo 1997, n. 1968). Una regolamentazione a parte, che in ogni caso non incide sull'affermazione del principio innanzi esposto, è dedicata alla riassunzione del processo interrotto o sospeso davanti allo stesso giudice adito prima della verificazione dell'evento interruttivo o sospensivo; in tal caso, attenendo la riassunzione allo stesso giudizio all'inizio intrapreso, essa può avvenire indistintamente con ricorso, comparsa o citazione, essendo tali atti del tutto equiparati ed idonei a consentire la prosecuzione del medesimo processo (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2015, n. 9000; Cass. civ., Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183).

D'altro canto, la stessa Corte costituzionale, sollecitata ad emettere una pronuncia additiva delle norme del codice di procedura civile (artt. 641, 645 e 447-bis), nella parte in cui non prevedono espressamente che, nel caso dei decreti ingiuntivi concessi in materia di locazione e quindi soggetti al rito del lavoro, essi debbano indicare che l'opposizione si propone con ricorso, da depositarsi nella cancelleria del giudice nel termine di quaranta giorni dalla notificazione del provvedimento monitorio opposto, ha dichiarato la questione manifestamente infondata, poiché, secondo la lettura assolutamente pacifica della giurisprudenza di legittimità e di merito, l'opposizione a decreto ingiuntivo emesso per crediti di lavoro deve essere proposta con ricorso e, qualora essa sia erroneamente proposta con citazione, questa intanto può produrre gli effetti del ricorso in quanto venga depositata in cancelleria nel termine di cui all'art. 641 c.p.c., non essendo sufficiente che, entro il suddetto termine, sia avvenuta la sola notificazione (Corte cost., ord., n. 152/2000), aggiungendo la citata ordinanza che il suddetto consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi in materia di controversie di lavoro e previdenziali in senso stretto, ha trovato conferma anche nella materia delle locazioni, alla quale, in forza dell'espresso richiamo di cui all'art. 447-bis – introdotto dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 –, si applica il medesimo rito. Ma l'ordinanza innanzi richiamata non si è limitata a recepire tale principio; ha, infatti, evocato alcuni suoi precedenti per affermare: a) che la diversa disciplina dell'opposizione a decreto ingiuntivo nel rito ordinario ed in quello del lavoro è giustificata e non irragionevole, essendo finalizzata alla concentrazione della trattazione ed alla immediatezza della pronuncia (Corte cost., ord., 28 luglio 1988, n. 936); b) che il principio della legale conoscenza delle norme nulla ha da vedere con il principio di eguaglianza e con la tutela del diritto di difesa, e ancora che, a maggior ragione, esso non può non valere quando la parte si avvalga, come nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, del necessario patrocinio del difensore, ben in grado di desumere la causa petendi dagli atti notificati alla parte (Corte cost.,29 ottobre 1987, n. 347; Corte cost., 22 aprile 1980, n. 61).

La pronuncia della Consulta

Con la sentenza 2 marzo 2018, n. 45 la Consulta ha dichiarato l'inammissibilità delle questioni sollevate, ritenendo che l'interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la produzione degli effetti sostanziali e processuali della domanda, nel caso di mutamento del rito, deve essere ancorata al momento in cui si sarebbe determinata la litispendenza, in base alla forma che l'atto avrebbe dovuto avere, anziché alla forma errata che in concreto ha avuto, non sia manifestamente irragionevole. Sicché, vertendo tali questioni su aspetti processuali, esse sconfinano nella discrezionalità del legislatore ed eccedono dalla funzione istituzionalmente spettante alla Corte costituzionale, non prospettandosi la disposizione normativa censurata come manifestamente irragionevole nell'ottica ermeneutica in cui si applica sulla scorta del consolidato “diritto vivente”.

In conclusione

Le argomentazioni e i rilievi spesi dal giudice rimettente (anche in sintonia con la posizione di parte della dottrina processualcivilistica) muovevano nella direzione di una ridefinizione del passaggio dal rito ordinario al rito speciale – quale ora recata dall'art. 426 c.p.c., in termini di “diritto vivente” – su una linea di maggior coerenza con la disciplina dei nuovi riti speciali, nel senso che il mutamento del rito (rispondente ad un principio di conservazione dell'atto proposto in forma erronea) operasse, in ogni caso, solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all'esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando – in altri termini – fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all'atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta (cioè, nel caso in esame, sulla base di un atto di citazione tempestivamente comunque notificato alla controparte).

Sennonché, ad avviso della Corte, una tale auspicata riformulazione del meccanismo di conversione del rito sub art. 426 c.p.c. riflette, appunto, una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, di una sanatoria piena, e non dimidiata, dell'atto irrituale, per raggiungimento dello scopo. Ma non per questo risponde ad una esigenza di reductio ad legitimitatem della disciplina attuale, posto che tale disciplina (a sua volta coerente ad un principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti) non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali. Con riguardo alla fattispecie in esame, la Corte ha già avuto, peraltro, anche occasione di affermare che la diversa disciplina dell'opposizione a decreto ingiuntivo nel rito ordinario e in quello del lavoro (applicabile anche alle controversie in materia di locazione) è giustificata, essendo finalizzata alla concentrazione della trattazione ed alla immediatezza della pronuncia. Inoltre, il principio della legale conoscenza delle norme non può non valere quando la parte si avvalga, come nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, del necessario patrocinio del difensore, ben in grado di desumere la causa petendi dagli atti notificati alla parte. A fronte, dunque, di un petitum implicante l'opzione per la modifica di una regola processuale – opzione di per sé meritevole di considerazione, ma comunque rientrante nell'ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore – la questione in esame è stata, pertanto, dichiarata inammissibile.

Guida all'approfondimento
  • Balbi, voce Ingiunzione (procedimento di), in Enc. giur. Treccani, XVII, Roma, 1997, 23;
  • Balena, Le conseguenze dell'errore sul modello formale dell'atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle Sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, 647 ss.;
  • Balena, Sull'errore (talora assai dubbio) concernente la forma dell'atto di impugnazione, in Giusto proc. civ., 2014, 1119;
  • Ebner-Filodoro, Opposizione a decreto ingiuntivo in materia di lavoro, in Lav. e prev. oggi, 1985, 1617 ss.;
  • Frasca, Il rito dell'opposizione a decreto ingiuntivo in materia locativa prima e dopo la riforma del processo civile e le questioni controverse, in Foro it., 1998, I, col. 3274 ss.;
  • Luiso, Il rito dell'appello in materia di opposizione alle sanzioni amministrative e la conversione del ricorso in citazione, in Riv. dir. proc., 2007, 945;
  • Luiso, Le sezioni unite si pronunciano sull'appello in materia di opposizione alle sanzioni amministrative, in Giusto proc. civ., 2011, 165;
  • Lupano, Sull'introduzione del processo secondo un modello formale errato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 121 ss.;
  • Olivieri, Gli atti di parte nella fase introduttiva, in Riv. dir. proc., 2004, spec. § 4;
  • Pezzano, in Andrioli-Barone-Pezzano-Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987, 1050 ss.;
  • Poli, Le sezioni unite sul regime del ricorso proposto erroneamente al posto della citazione e viceversa, in Riv. dir. proc., 2014, 1201, spec. 1207 e ss.;
  • Ronco, Pluralità di riti e fase introduttiva dell'opposizione a decreto ingiuntivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc. 2, 2001, 433;
  • Rossi, Sulle modalità di proposizione dell'opposizione a decreto ingiuntivo in materia locatizia, in Studi in onore di Modestino Acone, vol. 2, Napoli, 2010, 990 ss.;
  • Valitutti-De Stefano, Il decreto ingiuntivo e la fase di opposizione, Padova, 2000, 1121 ed ivi nota 51.

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