Nesso di causa ed oneri probatori: recenti deragliamenti della Cassazione?

02 Ottobre 2018

L'Autore offre una lettura critica delle recenti pronunce della Suprema Corte in materia di oneri probatori connessi all'accertamento del nesso di causa, e conclude come le stesse siano lungi dal mettere in discussione il modello presuntivo ed il principio di vicinanza alla fonte della prova sanciti dalle Sezioni Unite del 2008.
Premessa: le questioni

La questione, che si pose al principio del nuovo millennio in punto prova del nesso di causalità materiale (soprattutto sul fronte della responsabilità medico-sanitaria), fu essenzialmente se, nell'ambito della responsabilità da inadempimento, ogni onere probatorio circa il nesso tra lesione della sfera del creditore e condotta del debitore gravi interamente sul primo, oppure operi una sorta di condivisione della prova del nesso tra creditore e debitore, o, comunque, una parte delle incertezze, che vengano a residuare, in punto causalità materiale possano ricadere presuntivamente sul secondo.

Nel 2008 le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577) pervennero ad affermare a chiare lettere la necessità di superare il dogma per cui la prova del nesso di causa graverebbe per intero sul creditore, perorando un modello che si è venuto vieppiù a cristallizzare nel segno della presunzione del nesso di causa dinanzi - N.B. - alla prova di determinate circostanze (essenzialmente il verificarsi o l'aggravamento di una patologia del paziente a seguito della prestazione fornita od omessa) ed a fronte dell'idoneità della prestazione, così come specificatamente censurata, alla causazione dell'evento di danno (idoneità in tutta evidenza supportata a livello scientifico e medico-legale).

Tale modello fu poi affinato dalla Cassazione in diverse successive pronunce (cfr. §§ 2 e 3).

Sennonché da ultimo (a partire da Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2017, n. 18392) sono intervenute, sull'onda anche di contributi dottrinali (cfr. D. SPERA, La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti, in Ridare.it), alcune sentenze ed ordinanze che, riaffermando la vecchia massima (spetta all'attore provare il nesso di causa) e, soprattutto, adducendo inediti ragionamenti, paiono deragliare rispetto al modello della prova presuntiva (cfr. § 4).

Senz'altro, in seguito alla comparsa di quest'ultimo indirizzo, il quadro della giurisprudenza di legittimità è divenuto decisamente meno chiaro e, quindi, suscettibile di interpretazioni/applicazioni contrastanti da parte dei giudici del merito: trattamenti discriminatori a seconda dei fori territoriali o, internamente a questi, dei magistrati aditi sono dietro l'angolo. Ciò non era in nessun modo auspicabile.

Occorre, comunque, verificare se e sino a che punto il quadro della distribuzione degli oneri probatori sia da considerarsi mutato da parte di tale ultima giurisprudenza e se i ragionamenti ivi espressi siano ineccepibili. Invero, un'attenta e corretta lettura dei precedenti dovrebbe condurre a ritenere come essi siano lungi dal porre in crisi il modello presuntivo (laddove correttamente concepito).

Va poi segnalato un altro potenziale deragliamento di una parte della giurisprudenza di legittimità sul versante del principio della vicinanza alla fonte della prova: infatti, secondo la pronuncia Cass. civ. n. 29315/2017 e l'ordinanza Cass. civ. n. 19204/2018 tale principio non coinvolgerebbe il nesso causale fra la condotta dell'obbligato e il danno lamentato dal creditore. Questa singolare tesi è contraddetta da consolidata giurisprudenza di legittimità e, comunque, necessita di essere a sua volta scrutinata con attenzione, invero per respingerla in toto prima che abbia a radicarsi: una deviazione sul punto sarebbe davvero imperdonabile (cfr. § 6).

Il modello della “prova presuntiva” del nesso causale

Alcune linee evolutive hanno preceduto e condotto la giurisprudenza di legittimità dell'ultimo decennio (in primis, le Sezioni Unite dell'11 gennaio 2008) ad operare importanti chiarimenti.

Linee evolutive alla base dell'intervento delle Sezioni Unite
Innanzitutto va ricordata l'affermazione del parametro di giudizio/ragionamento presuntivo offerto dal “risultato previsto” (o “esigibile”), logica già da tempo sviluppata e nota (cfr. Cass. civ., 21 dicembre 1978, n. 6141, che, muovendo dalla «natura contrattuale» della responsabilità dell'ente ospedaliero, ha affermato il principio per cui «nel settore chirurgico, quando l'intervento operatorio non sia di difficile esecuzione ed il risultato conseguitone sia peggiorativo delle condizioni finali del paziente, il cliente adempie l'onere a suo carico provando che l'intervento operatorio era di facile esecuzione e che ne è conseguito un risultato peggiorativo, dovendosi presumere l'inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale del chirurgo; spetta, poi, all'ente ospedaliero fornire la prova contraria, o dall'esistenza di una particolare condizione fisica del cliente non accettabile con il criterio dell'ordinaria diligenza professionale, o che la prestazione professionale era stata eseguita idoneamente e l'esito peggiorativo era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile»), caldeggiata dalla dottrina (cfr., per es., C.M. BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni, II ed., Comm. Cod. Civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, 180: «che il danno lamentato sia imputabile all'omissione o alla inesattezza della prestazione dovuta può essere presunto quando l'esatta prestazione è normalmente idonea ad evitare il danno») e, infine, consacrata dalla pronuncia Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, per cui, «provati dal paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto, se la prestazione dell'attività non consegue il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso incombe invero al medico (a fortiori ove trattisi di intervento semplice o routinario) dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza che lo stesso ha impedito di ottenere».

Prendendo le mosse da questo principio la giurisprudenza di legittimità ha successivamente reiterato la regola probatoria per cui, in caso di mancata o inesatta realizzazione di un intervento, il medico e la struttura sono conseguentemente tenuti a «dare la prova che il risultato “anomalo” o anormale rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza, dipende da fatto a sè non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto» (così, per esempio, Cass. civ., sez. III, 9 ottobre 2012, n. 17143).

La seconda linea evolutiva è consistita nel consolidamento della regola operazionale secondo la quale si può presumere raggiunta la prova del collegamento causale tra condotta ed evento dannoso, ogniqualvolta - in assenza di un diverso giudizio controfattuale (generalmente imperniato, in ambito di responsabilità da inadempimento, sulla dimostrazione da parte del convenuto di un fattore interruttivo, e cioè solitamente sulle prove fornite dal debitore circa la sussistenza di una “causa non imputabile”) - la condotta imputata risulti essere astrattamente idonea a cagionare l'evento dannoso.

Quest'ultima regola - già colta da una parte della dottrina (cfr., per es., M. ROSSETTI, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in Danno e resp., 2001, 1, 13, il quale scattò la seguente fotografia: «il nesso causale tra condotta del medico e danno si presume, quando il sanitario abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno, anche in assenza di certezza circa l'effettiva eziogenesi dell'evento dannoso») - comportava come all'attore spettasse la dimostrazione dei fatti materiali e dei dati scientifici sostanzianti la astratta idoneità lesiva della condotta postulata come causa o concausa del danno lamentato; nel 2007 la regola operazionale in questione fu infine colta molto lucidamente dalla Cassazione che per l'appunto circoscrisse la prova gravante sul creditore alla «astratta riconducibilità delle conseguenze dannose … in capo all'agente» (così Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619).

Infine, si è aggiunta l'idea - la cui bontà risulta vieppiù confermata dalla realtà fenomenologica (gli sviluppi delle nanotecnologie confermano il punto) - che in ambiti quali quello medico-sanitario non possa risultare indifferente la vicinanza del debitore alle prove inerenti le prestazioni fornite ed alla relazione causale di queste sulla persona del creditore.

Le Sezioni Unite dell' 11 gennaio 2008
Con le pronunce dell'11 gennaio 2008 (cfr., nello specifico, Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577) le Sezioni Unite hanno poi tirato le fila delle predette evoluzioni, ritenendo che fosse da superarsi il dogma assoluto per cui la prova del nesso di causa graverebbe per intero sul creditore: «il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato enunciato, poiché esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio dalla predetta sentenza delle Cass. civ.,.Sez. Un. n. 13533/2001 (vedasi anche Cass. civ, Sez. Un., 28 luglio 2005 n. 15781 )».

In particolare, le Sezioni Unite hanno precisato che, essendo «l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non […] qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno», «l'allegazione del creditore non può che attenere ad un inadempimento qualunque esso sia, ma ad inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno». Secondo questa prospettiva, dunque, l'allegazione in questione deve sì necessariamente recare l'imputazione, al soggetto evocato in giudizio, dell'evento di danno lamentato (trattasi, dunque, di una “allegazione qualificata”), sebbene - questo il punto da rimarcarsi - entro il limite dell'astratta efficienza delle prestazioni ricevute (od omesse) alla causazione della lesione del bene salute o vita.

Si osservi come le Sezioni Unite non solo abbiano circoscritto il contenuto di siffatta «allegazione» attorea all'indicazione dell'astratta idoneità dell'allegato inadempimento (o inesatto adempimento) alla produzione dell'evento dannoso (ferma restando la necessità per l'attore di dimostrare le circostanze materiali alla base della relazione causale ossia l'insorgenza o l'aggravamento della patologia nel contesto, innanzitutto temporale, delle prestazioni somministrate od omesse), ma altresì abbiano operato lo spostamento di ogni ulteriore carico probatorio, relativo ai profili causali, in capo al convenuto, così chiamato od a dimostrare la coincidenza fra esiti delle prestazioni fornite ed esatto adempimento, oppure a smentire, attraverso una prova positiva (la causa non imputabile), la sussistenza di qualsivoglia nesso di causa (esclusivo o concausale) fra, da un lato, il risultato peggiorativo accusato e provato dal paziente e, dall'altro lato, le prestazioni diligentemente somministrate («competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno»).

Questo nuovo assetto è stato poi ribadito dalla pronuncia Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991, ove si è sottolineato come il ragionamento probatorio del “più probabile che non” inevitabilmente debba tener conto della diversità corrente, in termini di distribuzione degli oneri probatori, tra responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale:

  • nella fattispecie della responsabilità aquiliana - ovviamente quella di cui alla clausola generale sub art. 2043 c.c. - il giudice del merito «valuterà comparativamente le prove addotte da ciascuna delle parti, gravando in tal caso l'onere probatorio comunque sul danneggiato (pur legittimando, caso per caso, ragionamenti presuntivi quanto la regola della prossimità e disponibilità della fonte di prova)»;
  • viceversa, nella responsabilità da inadempimento «il giudice esaminerà, da un lato, l'allegazione, da parte del creditore/danneggiato, dell'idoneità della condotta (commissiva od omissiva) alla produzione dell'evento di danno, dall'altro lato, la eventuale prova positiva, fornita dal debitore/danneggiante, della causa non imputabile, e cioè di un fatto sufficientemente certo che inequivocabilmente escluda in radice il nesso etiologico».

In questo secondo caso, ciò che deve risultare “più probabile che non”, ai fini dell'imputazione della responsabilità, è in primis l'idoneità della prestazione effettuata od omessa, addebitata al convenuto, alla causazione del danno subito dal paziente, spettando al debitore dimostrare l'esatto adempimento oppure la causa non imputabile impeditiva della prestazione concretamente realizzabile/esigibile.

Il modello presuntivo
La pronuncia della Cass. civ., 11 gennaio 2008,n. 577 poteva sollevare il seguente dubbio: in tale modello è sufficiente che il danneggiato “alleghi” l'astratta efficienza causale (o concausale) dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento), oppure altresì la “dimostri” in giudizio attraverso i consueti mezzi di prova (documentali, testimoniali e, soprattutto, presuntivi)?

Al riguardo le Sezioni Unite avevano fatto riferimento unicamente al concetto della “allegazione”, senza mai associare la diversa formula dell'onere di provare, invero concetti distinti.

Secondo una parte della giurisprudenza di legittimità e di merito successiva all'intervento delle Sezioni Unite del 2008, sarebbe in effetti sufficiente l'allegazione qualificata (o “vestita”) dell'astratta idoneità dell'inadempimento alla causazione dell'evento lesivo.

Ad ogni modo, onere di allegazione od incombenza di prova che sia, in entrambe queste prospettive viene in rilievo come le Sezioni Unite del 2008 e le successive pronunce ispiratesi alla sentenza Cass. civ. n. 577/2008 siano approdate non già ad un totale ribaltamento della prova del nesso di causa sul debitore, bensì, più appropriatamente, ad un modello presuntivo del nesso di causa: infatti, è evidente che, nell'ipotesi di mancata prova, da parte del debitore, del suo esatto adempimento o dell'impossibilità di eseguire puntualmente la prestazione, l'allegazione avvallata dal consulente tecnico d'ufficio (a fortiori, se dimostrata, per quanto possibile, nei suoi presupposti fattuali) da parte dell'attore dell'astratta idoneità della prestazione somministratagli alla produzione del danno e, insieme a tale elemento, la prova del verificarsi o dell'aggravamento di una patologia in connessione spazio-temporale con l'attività del debitore siano tali da giustificare l'imputazione, in via presuntiva, della responsabilità da inadempimento.

La sicura ricorrenza di un modello presuntivo siffatto è stata espressamente rilevata dai giudici di legittimità stessi, i quali, infatti, hanno concluso come in effetti si prospetti un vero e proprio «nesso eziologico presunto» (così Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2010, n. 1538; cfr., altresì, Cass. civ., sez. III, 9 ottobre 2012, n. 17143, che ha rilevato come, laddove vi sia la «concretizzazione del rischio che la regola violata tende a prevenire», «in base al principio del nesso di causalità specifica non può prescindersi dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest'ultima astringe rimane invero presuntivamente provato»).

In questo scenario, allora, le incertezze sul nesso causale non hanno a riflettersi esclusivamente sul creditore, bensì anche sul debitore, sul quale giustappunto - dinanzi alla prova, da parte dell'attore, del fatto materiale dell'insorgenza/aggravamento di una patologia in occasione delle prestazioni somministrate od omesse (evento dannoso opposto al risultato normalmente conseguibile) ed all'allegazione dell'idoneità lesiva delle prestazioni - incombono gli oneri probatori ad efficacia liberatoria relativi alla causa del mancato conseguimento del risultato oggetto della prestazione ed esigibile in forza del rapporto obbligatorio; ciò risulta in sintonia con la stessa lettera della norma, espressamente l'art. 1218 c.c. imponendo al debitore di dimostrare, quale prova liberatoria alternativa all'attestazione dell'esatto adempimento, la «causa a lui non imputabile» tale da avergli impedito la puntuale esecuzione della prestazione (cfr. infra § 4).

Tutto ciò è conforme a quanto indicato dal legislatore del 1942 al punto n. 571 della Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile: ivi, infatti, si rileva come la causa non imputabile impeditiva dell'esatto adempimento della prestazione (l'«evento incolpevole») possa essere desunta anche da «elementi presuntivi» quali, per es., la «dimostrazione della condotta diligente del debitore»; orbene, parimenti l'assenza di una prova liberatoria sul versante della causazione dell'evento può trarsi presuntivamente sulla base dei predetti fattori (idoneità della condotta; insorgenza o aggravamento di patologia in corrispondenza con la prestazione omessa o somministrata; difformità dal risultato normalmente conseguibile; ecc.).

È, peraltro, da notarsi, dovendosi al riguardo smentire talune singolari “rappresentazioni” di parte della dottrina (generalmente impegnata nell'assistenza di imprese assicuratrici, strutture sanitarie, medici, ecc.), come il debitore, in questo quadro, sia lungi dal risultare assoggettato ad un regime di responsabilità oggettiva o para-oggettiva: la sua eventuale responsabilità discende dalla prova dell'insorgenza o dell'aggravamento di un danno in connessione spazio-temporale con le sue prestazioni, dall'idoneità delle stesse a cagionare il danno e, in definitiva, dalla sua incapacità di dimostrare di avere correttamente adempiuto o dell'intervento di una causa non imputabile tale da impedirgli o vanificare l'esatto adempimento. Invero, non appare affatto una pretesa eccessiva e, in ogni caso, una deviazione dal modello della responsabilità per inadempimento quella di esigere da un medico o da una struttura sanitaria, che abbiano avuto in cura un paziente, una spiegazione del perché questi sia morto in concomitanza delle prestazioni somministrate, in presenza dell'idoneità delle stesse alla causazione del decesso ed in assenza di motivazioni potendosi presumere il nesso di causa.

Recenti conferme di legittimità del modello presuntivo

Il modello descritto al § 2 è stato ancora da ultimo confermato dalle seguenti pronunce di legittimità (cfr. inoltre: Cass. civ., sez. III, 21 aprile 2016, n. 8035; Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2015, n. 24220; Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2015, n. 21782; Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2013, n. 27855):

  • Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2014, n. 2185: la Corte ha ribadito il principio per cui «in tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente per danni derivanti dall'esercizio di attività di carattere sanitario, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l'onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno»; la Corte ha pure osservato che tale regola, la quale «in tema di onere della prova […] fissa il limite oltre il quale “lo sforzo probatorio dell'attore non può spingersi” (così la sentenza n. 15993 del 2011)», logicamente «non necessita di ricevere applicazione qualora il giudice di merito sia pervenuto ad una ricostruzione del fatto che escluda, in termini di nesso di causalità, ogni collegamento tra il comportamento colposo dei sanitari e l'evento di danno successivamente determinatosi», il che può avvenire allorquando la corte territoriale, «con motivazione correttamente argomentata e priva di vizi logici, costruita facendo proprie le conclusioni dei consulenti tecnici all'uopo nominati», abbia escluso ogni collegamento causale tra la prestazione somministrata/omessa e gli eventi che sono seguiti; in breve, il danneggiato non è tenuto a «fornire la prova del nesso di causalità tra il trattamento sanitario a lui praticato e l'insorgenza successiva di altre patologie», ma la domanda risarcitoria non può trovare accoglimento, se «l'esistenza di tale nesso causale è stata positivamente esclusa» dal giudice del merito «con il supporto dei consulenti tecnici»;
  • Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2014, n. 20547: «l'attore danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e di allegare l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno. Ne consegue che qualora, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore»; in questo caso la Corte ha cassato la sentenza di merito, che, escludendo il nesso di causalità, aveva rigettato la domanda risarcitoria avanzata dai familiari di una paziente deceduta, in quanto la c.t.u. aveva assegnato un identico grado di possibilità alle due cause di morte tecnicamente ipotizzabili, una sola delle quali ascrivibile alla condotta del sanitario, con conseguente stallo in tema di accertamento del nesso causale»;
  • Cass. civ., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8664: «in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante, con la conseguenza che qualora all'esito del giudizio permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore»;
  • Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 2017, n. 24073, ove si rinviene il medesimo principio recato dalla precedente sentenza; si trattava dell'operazione di asportazione totale di un rene, cui era stata sottoposta una donna su consiglio del sanitario il quale aveva diagnosticato una neoplasia in base alla presenza di un'estesa neoformazione evidenziata dalla indagine ecografica, confermata dal risultato della TAC all'addome, tuttavia omettendo di approfondire l'indagine diagnostica mediante esecuzione di un esame bioptico estemporaneo, essendo risultato affetto l'organo asportato, al successivo esame istologico, da una patologia infettiva (pielofrenite xantogranulomartosa, PXG) che avrebbe richiesto una nefrectomia soltanto parziale in luogo della asportazione totale dell'organo; la S.C. ha ritenuto come tanto l'affermazione del CTU, per cui nella maggior parte dei casi la certezza della diagnosi di PXG viene posta solo dopo l'intervento, quanto l'argomento difensivo della struttura sanitaria, secondo cui non vi sarebbe stata certezza che la biopsia estemporanea avrebbe condotto ad escludere la indicazione di neoplasia, non elidessero la efficienza causale della condotta omissiva predicabile in base alla «astratta idoneità» («fondata sulle migliori acquisizioni scientifiche allo stato disponibili che reputano necessaria l'effettuazione dell'esame inserito nel protocollo») dell'esame bioptico a disvelare la corretta patologia, per l'appunto riversandosi sull'azienda ospedaliera l'onere di fornire la prova contraria, dimostrando che l'esecuzione della biopsia avrebbe, con certezza, in ogni caso dato un risultato negativo per diagnosi di infezione ovvero un dato non oggettivamente interpretabile come di PXG;
  • Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2017, n. 26516, ove si è altresì precisato che «la necessità - affermata fin da Cass. civ., Sez. Un. n. 577/2008 - dell'allegazione di un inadempimento qualificato, astrattamente idoneo a costituire causa del danno, non onera l'attore che agisca in ambito di responsabilità sanitaria della necessità di individuare specificamente la condotta omessa o l'errore commesso, essendo sufficiente che venga individuata la prestazione asseritamente mal adempiuta e che venga ipotizzato un nesso causale fra la stessa e il pregiudizio lamentato».
Un nuovo indirizzo di legittimità?

Da ultimo il quadro innanzi descritto, perlomeno secondo alcuni interpreti, sarebbe posto in discussione da certune pronunce - per ora minoritarie rispetto al quadro sin qui tracciato - della stessa Cassazione, che, pur ribadendo esplicitamente fedeltà all'orientamento scaturito dalle Sezioni Unite del 2008, hanno concluso nel senso che graverebbe per intero sul creditore l'onere di provare il nesso di causalità fra, da un lato, l'azione o l'omissione del sanitario e, dall'altro lato, il danno di cui domanda il risarcimento (cfr., in particolare, Cass. civ. sez. III, 26 luglio 2017, n. 18392, seguita, in senso adesivo, dai seguenti interventi: Cass. civ., sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. civ., sez. III, ord. 29 gennaio 2018, n. 2061; Cass. civ., sez. VI-3, ord. 21 marzo 2018, n. 7044; Cass. civ., sez. III, ord. 19 luglio 2018, n. 19204).

La pronuncia n. 18392/2017: rilievi critici
Ad inaugurare questo trend è stata la pronuncia Cass. civ., sez. III, 26 luglio 2017, n. 18392.

Questa sentenza si è richiamata innanzitutto ai precedenti, anche di legittimità, che hanno continuato a reiterare, senza mai fornire motivazioni, la tralatizia massima per cui, anche ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l'inesatto adempimento della prestazione medica, il danneggiato deve fornire la prova non solo del contratto e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie), ma anche del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, restando a carico dell'obbligato la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

Ciò posto, la pronuncia in questione è, tuttavia, andata oltre la mera evocazione della massima tradizionale. Infatti, ha apprestato alcune giustificazioni.

In primo luogo, ha rilevato che «non solo il danno ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all'attore di provare»: «invero se si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata da colui che allega tale ascrizione la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta», con la conseguenza che, «se, al termine dell'istruttoria, resti incerti la reale causa del danno, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano quindi sull'attore». Ed ancora: «La causalità relativa all'evento ed al danno consequenziale è comune ad ogni fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, e caratterizza negli stessi termini, sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, gli oneri di allegazione e di prova del danneggiato. Il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l'eziologia immanente alla nozione di danno anche l'eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l'attore deve provare».

A questo punto, però, la Cassazione si è trovata nella necessità di chiarire la sua posizione rispetto al modello delle SS.UU. del 2008 e, più nello specifico, alla «enunciazione del principio di diritto secondo cui nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, l'attore danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del contratto e l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e di allegare l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno (Cass. civ., 30 settembre 2014, n. 20547; Cass. civ., 2 dicembre 2013, n. 27855; Cass. civ., 1 luglio 2011, n. 15993 e già Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 577)».

A questo fine la sentenza del 2017 ha optato per la seguente prospettiva: «si tratta di contrasto apparente», giacché in seno al principio di diritto consacrato dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 577/2008 «la causa che viene […] in rilievo non è quella della fattispecie costitutiva della responsabilità risarcitoria dedotta dal danneggiato, ma quella della fattispecie estintiva dell'obbligazione opposta dal danneggiante».

Tralasciandosi per un momento la evidente forzatura recata da tale interpretazione del precedente delle Sezioni Unite del 2008 (inconfutabile, infatti, è che queste si siano riferite al nesso di causalità materiale; altresì palese è come la sentenza dell'11 gennaio 2008 e tutta la giurisprudenza alla sua origine così come quella successivamente ispiratasi ad essa si siano poste - circostanza non evidenziata dalla pronuncia n. 18392/2017 - nella diversa prospettiva dell'imposizione sul debitore della prova della causa non imputabile nei casi di riscontro presuntivo dell'allegazione attorea del nesso di causa tra inadempimento ed evento lesivo), si concorda certamente con la Cassazione del 26 luglio 2017 laddove ha ricordato che l'art. 1218 c.c. fa testualmente riferimento alla «impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile» (questa è la lettera dell'articolo) e, dunque, anche allo scenario di cui all'art. 1256 c.c. Questa connessione, del resto, è stata esplicitata molto chiaramente anche dal legislatore del '42 al punto n. 571 della Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile.

Semmai può nutrirsi più di un dubbio in ordine alla netta divisione tracciata da Cass. civ. n. 18392/2017, la quale, delineando così un «duplice ciclo causale» (in realtà pure, a leggere la sentenza, un “duplice ciclo colposo”), ha differenziato fra, da un lato, a monte «il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto)» (ossia il ciclo relativo all'evento dannoso) e, dall'altro lato, a valle il «ciclo causale» relativo alla «impossibilità di adempiere»: il primo «deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante». In questo quadro, pertanto, sarebbe soltanto nel caso, in cui il creditore abbia dimostrato il nesso di causalità materiale tra evento e danno, che il debitore, in alternativa alla dimostrazione dell'esatto adempimento, deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)

Orbene, tale duplicità di “cicli causali” solleva degli interrogativi.

A sua confutazione non rilevano tanto le critiche che si possono operare ad alcune premesse effettuate dalla sentenza; appaiono, per es., discutibili le seguenti:

1) che la non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione sarebbe da valutarsi alla stregua della diligenza ordinaria ai sensi del comma 1 dell'art. 1176 c.c., mentre la diligenza professionale di cui al comma 2 varrebbe quale parametro tecnico per valutare se c'è stato l'adempimento; infatti, ciò non è semplicemente vero atteso che lo standard di condotta, di cui al comma 2, si applica indistintamente per valutare ogni profilo della performance contrattuale del debitore qualificato;

2) che mentre «la responsabilità contrattuale sorge dall'inadempimento di un obbligo, sicché l'attore deve provare la fonte dell'obbligo», «la responsabilità extracontrattuale richiede invece, stante la mancanza di un'obbligazione, un criterio di giustificazione, e tali sono il dolo e la colpa, che è pertanto onere dell'attore dimostrare»; difatti, non è affatto sostenibile che nella responsabilità aquiliana difetti un'obbligazione; come indicato dall'art. 1173 c.c., in seno all'art. 2043 c.c. fonte dell'obbligazione è il fatto illecito, ossia la condotta colposa o dolosa - in quanto difforme da obblighi comportamentali tra i quali anche il generalissimo precetto del neminem laedere - che cagiona un danno ingiusto. Del resto, tali premesse sono lungi dal supportare la duplicità in questione.

Ciò che assume rilievo e può obiettarsi è semmai che il duplice “ciclo causale” sia lungi dal corrispondere alla ratio legis, atteso che al contrario il legislatore del '42 si espresse nel senso di un vero e proprio unicum. Nello specifico questi indicò che «nell'art. 1218 […] si parla puramente e semplicemente di causa non imputabile al debitore» nel senso che «la non imputabilità dell'evento, ossia l'assenza di colpa, riguardo al verificarsi del medesimo e al conseguente impedimento ad adempiere, costituisce il requisito subiettivo, che deve concorrere con quello obiettivo dell'impossibilità della prestazione, perché il debitore inadempiente sia esente da responsabilità». Questo passaggio della relazione del Ministro Guardasigilli indica molto chiaramente come l'espressione «causa non imputabile», che sostanzia la prova liberatoria gravante sul debitore, si riferisca tanto al verificarsi dell'evento di danno quanto per l'appunto pure, al contempo, «al conseguente impedimento ad adempiere».

Inoltre, anche a prescindere da quanto indicato dalla relazione del Ministro Guardasigilli (sul punto lungi dall'essere brillante e pure forse datata), rimane non condivisibile la divaricazione operata da Cass. n. 18392/2017 tra adempimento della prestazione (primo ciclo causale) e conservazione della possibilità di adempiere (secondo ciclo causale), solo a quest'ultimo versante riferendosi, nel modello proposto da tale pronuncia, la prova liberatoria sancita dall'art. 1218 c.c..

Siffatta drastica marginalizzazione della prova liberatoria “causa non imputabile” unicamente al predetto secondo profilo non risulta sostenibile non solo in quanto la norma, tanto nella sua lettera quanto a livello di sua ratio legis, istituisce una prova assolutoria che riguarda direttamente la produzione dell'evento lesivo stesso, ma anche e soprattutto in ragione del fatto che l'inadempimento ha luogo proprio in quanto non si è conservata, da parte del debitore, la possibilità di adempiere (ossia non si è provveduto a prevenire il danno così impedendosi il risultato associato normalmente alla prestazione promessa).

Aggiungasi che la mancata prevenzione della causa, che rende impossibile la prestazione, si pone all'origine della sequenza causale che conduce alla violazione della sfera del creditore, ove, peraltro, anche il difetto nella prevenzione è qualificabile alla stregua di un fenomeno oggettivo di inattivazione di una regola di comportamento, senza, dunque, che possa individuarsi - come, invece, ha fatto Cass. civ., n. 18392/2017 - una qualche distinzione rispetto all'inadempimento della prestazione (giustappunto anch'esso consistente nella deviazione da uno standard di condotta richiesto per il raggiungimento di un dato obiettivo, deviazione valutabile, nel caso del professionista, ex comma 2 dell'art. 1176 come pure la omessa prevenzione o la produzione della causa impeditiva dell'adempimento).

Quid juris?
Ciò chiarito, sarebbe allora opportuno prendere atto, confermandosi esatta l'intuizione felice delle Sezioni Unite del gennaio 2008, che a fronte dell'allegazione attorea di un inadempimento (scientificamente, medicolegalmente, ecc.) qualificato (ossia tale da risultare oggettivamente idoneo alla causazione dell'evento di danno lamentato, per esempio per difetto del risultato normalmente conseguibile date le circostanze del caso concreto) e della prova, sempre da parte dell'attore, delle circostanze storiche costituenti le basi fattuali per il ragionamento probatorio (ossia l'intervento di una patologia o l'aggravamento di una situazione patologica pregressa in concomitanza od in successione temporale alla prestazione effettuata od omessa) l'art. 1218 c.c. abbia l'effetto di spostare sul debitore la prova delle circostanze che supportano l'esatto adempimento o, in alternativa, l'assenza del nesso di causalità materiale.

È corretto pretendere che l'attore fornisca la prova delle predette circostanze fattuali, cioè del verificarsi di una patologia o del peggioramento di una condizione pregressa in un determinato contesto e periodo (per es. la contrazione di una particolare infezione durante la degenza ospedaliera), circostanze spazio-temporali tali da contribuire, tutt'uno con l'allegazione (laddove fondata!) dell'inadempimento causalmente “vestito”, se non alla prova positiva del nesso di causa alla presunzione di questo. È corretto in quanto in effetti tali circostanze sono parti costitutive della fattispecie azionata lungi dal poter essere inglobate fra gli elementi fattuali che sorreggono la prova dell'estinzione dell'obbligazione (adempimento o causa non imputabile).

Sul punto, pertanto, non si può che concordare con Cass. civ. n. 18392/2017, laddove, sì ivi denotando piena contiguità con le Sezioni Unite del 2008, ha concluso nel senso che spetta al danneggiato dimostrare che «la patologia sia riconducibile, ad esempio, all'intervento chirurgico» praticato dai medici della struttura sanitaria convenuta, solo a questo punto imponendosi alla parte debitrice di «provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l'esatta esecuzione della prestazione».

Ai fini di questa conclusione, tuttavia, non s'impone affatto il ricorso alla suddivisione tra i due “cicli causali” proposti da Cass. civ. n. 18392/2017, bipartizione che, per quanto asserito da questa pronuncia, presenta l'evidente rischio/vizio di ridimensionare eccessivamente contenuto e, quindi, ruolo di tale prova, così potendo condurre nei casi concreti ad autentici deragliamenti rispetto alle condivisibili implicazioni del modello presuntivo correttamente inteso (va da sé che non costituirebbe una corretta applicazione di tale modello l'ascrizione della causa ignota alla struttura sanitaria in assenza della prova delle predette circostanze e di una seria verifica sull'idoneità delle prestazioni omesse o somministrate alla causazione dell'evento dannoso occorso).

Il senso autentico dell'espressione “prova del nesso di causa”: contrasti apparenti o reali in Cassazione sull'onere della prova del nesso di causa?

La pronuncia

Cass. civ. n. 18392/2017

e le sentenze epigone pongono in crisi il modello delle Sezioni Unite del 2008?

Per rispondere a questo quesito occorre innanzitutto intendersi sull'oggetto della prova che deve fornire il danneggiato in merito al nesso causale. Al riguardo occorre aggiungere al quadro sin qui tracciato un recente precedente forse passato in sordina, ma assolutamente importante:

Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2018, n. 4024

.

Questa pronuncia, con estensore Rossetti, ha brillantemente chiarito in quali esatti termini sia da intendersi l'espressione “prova del nesso causale”, nella prassi - come anche dimostrano le pronunce ultime di cui al § 4 - fonte di non pochi fraintendimenti: giacché «non v'è dubbio che quel che comunemente è chiamato “nesso di causa” non sia un fatto materiale, ma un giudizio» e che «la causalità in quanto tale è una relazione stabilita dall'uomo a posteriori tra due fatti, e non una categoria a priori, oggettivamente accertabile» («il nesso di causa in quanto tale non è provabile, perché costituisce l'oggetto d'un ragionamento deduttivo, non un fatto materiale»), «quando dunque si discorre di “prova del nesso di causa” si usa una espressione ellittica per designare la prova dei fatti materiali, sui quali fondare il ragionamento (non rileva qui se logico-deduttivo, analitico-induttivo, inferenziale, probabilistico) ricostruttivo del nesso o della sua inesistenza».

Orbene, se si considerano tali specificazioni operate da

Cass. civ. n. 4024/2018

e che, in sede di responsabilità da inadempimento, l'«accertamento del nesso di causalità» consiste in realtà nella «valutazione della idoneità della condotta […] a cagionare il danno lamentato dal [debitore]» (così, ancora da ultimo,

Cass. civ., sez. III, ord. 29 gennaio 2018, n. 2061

), dovrebbe risultare evidente come, al di là delle inesattezze recate da questa o quella pronuncia adesiva a

Cass. civ., n. 18392/2017

, non vi possa essere alcuna particolare antinomia fra, da un lato, l'impostazione recata da quest'ultima e, dall'altro lato, il modello delle Sezioni Unite dell'11 gennaio 2008.

Certamente la pronuncia

Cass. civ. n. 18392/2017

e le sentenze, che si sono ad essa ispirate, hanno affermato, con ragionamenti discutibili e, comunque, senza le opportune precisazioni del caso, la necessità per l'attore di provare il nesso di causa, ma, per l'appunto fermo restando che «il nesso di causa in altro non consiste se non in un ragionamento» (così

Cass. civ. n. 4024/2018

), ciò non contrasta in nessun modo con la giurisprudenza di legittimità adesiva alle SS.UU. del 2008, la quale ha sempre affermato che il danneggiato, sul versante della causalità materiale, debba non solo allegare l'inadempimento causalmente “qualificato”, ma altresì comprovare (eventualmente a mezzo di presunzioni) le circostanze materiali alla base della relazione causale (ossia l'insorgenza o l'aggravamento di una patologia nel determinato contesto delle prestazioni oggetto dell'obbligazione); tramite l'allegazione in questione e la dimostrazione di tali fatti il danneggiato fornisce tutto ciò che occorre ai fini della “prova” della relazione causale (rectius, del “giudizio” sul nesso di causa).

In breve, il modello presuntivo del nesso di causa, così come suggellato dalle Sezioni Unite del 2008, rimane ben saldo al suo posto.

Ciò lo si trae pure dalla sentenza

Cass. civ., sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29315

, che, nell'aderire alle suggestioni provenienti dalla decisione del 2017 (

Cass. civ., n. 18392/2017)

, ha per l'appunto esplicitamente condiviso la pronuncia n. 577/2008 delle Sezioni Unite, laddove queste avevano raggiuto la seguente conclusione: «avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero».

Nello specifico assume rilievo il seguente passo della sentenza n. 29315/2017: «a ben vedere, una siffatta conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato da

Cass. civ., Sez .Un. n. 577/2008

», giacché il principio ivi sancito intervenne «a fronte di una situazione in cui l'inadempimento “qualificato” allegato dall'attore (ossia l'effettuazione di un'emotrasfusione) era tale da comportare - di per sé, ed in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie - la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta (sì che la prova della prestazione sanitaria conteneva in sé quella del nesso causale), con la conseguenza che non poteva che spettare al convenuto l'onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione» (per inciso, secondo

Cass. civ. n. 29315/2017

ad imporre tale slittamento probatorio sarebbe il criterio generale di cui all'

art. 2697, comma 2, c.c.

, e non già la prova liberatoria richiesta dall'

art. 1218 c.c.

; sennonché sfugge a tale pronuncia come tanto l'

art. 2697, comma 2, c.c.

, quale clausola generale, sposti l'onere probatorio sul debitore quanto l'

art. 1218 c.c.

non solo comporti il medesimo effetto, ma al contempo, in ragione della sua natura di norma speciale, puntualizzi per il contesto della responsabilità da inadempimento il contenuto della prova idonea a liberare il debitore; in altri termini, l'

art. 1218 c.c.

specifica in materia contrattuale e per le obbligazioni ex lege la regola della distribuzione dell'onere probatorio di cui alla clausola generale recata dall'

art. 2697 c.c.

).

Nello stesso segno si è posta

Cass. civ.

,

s

ez. III, ord

.

19 luglio 2018, n. 19204

, che, riproponendo gli stessi passaggi della sentenza n. 29315/2017, ha confermato come la presunzione del nesso di causa possa senz'altro aversi «a fronte di una situazione in cui l'inadempimento “qualificato”, allegato dall'attore […] era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione [della patologia] dalla condotta», giacché in questi casi la prova della prestazione sanitaria contiene già quella del nesso causale, sicché non può che spettare al convenuto l'onere di fornire la prova liberatoria anche sul versante causale.

Vicinanza alla fonte di prova: altre deviazioni all'orizzonte?

Il modello presuntivo del nesso di causa trova indubbiamente una sua ulteriore ragione d'essere nel principio di “vicinanza della prova”, ormai da tempo costantemente richiamato dalla giurisprudenza anche (anzi, innanzitutto) sul versante dell'accertamento del nesso di causa (cfr. fra le ultime: Cass. civ., sez. III, ord. 23 marzo 2018, n. 7250; Cass. civ., sez. III, 21 novembre 2017, n. 27561; Cass. civ., sez. III, 21 aprile 2016, n. 8035; Cass. civ., sez. III, 31 marzo 2016, n. 6209; Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12218); esso opera quale autentico principio generale dell'ordinamento sia nella responsabilità da inadempimento che in quella extracontrattuale (per delle applicazioni su quest'ultimo versante cfr. per es.: Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2308).

Logiche del principio di disponibilità delle prove e “danno evidenziale”
In base a questo principio assume rilievo - ai fini della concreta distribuzione dell'onus probandi relativamente a determinate circostanze materiali e dell'amministrazione della prova presuntiva, nonché, più in generale, del ragionamento probatorio sul nesso di causa - la effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrire la prova di un particolare fatto, con la conseguenza che la dimostrazione di tale circostanza spetta normalmente alla parte la quale sia più prossima alla fonte probatoria.

Come ancora da ultimo ricordato da Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2018, n. 6855, il principio è stato per l'appunto «costruito dalla giurisprudenza di legittimità per le ipotesi in cui l'ordinaria ripartizione degli oneri probatori rendeva eccessivamente difficoltosa la dimostrazione di fatti costituitivi per la parte gravata nei casi in cui essi, soprattutto con riferimento alla prova documentale, potevano essere dimostrati molto più facilmente dalla controparte».

Sempre in base a tale principio, cui si aggiunge pure la connessa doctrine del cd. “danno evidenziale” (cfr. amplius M. BONA, «Danno evidenziale» e prova del nesso di causa nella r.c. medica, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 2006, 6, 995-1010), la prova di uno specifico fatto grava, comunque, sulla parte, la quale con un suo comportamento inadempiente od illecito abbia precluso alla sua controparte la possibilità di fornire la evidenza di tale fatto, parte contro la quale il fatto da dimostrare avrebbe potuto essere invocato, così potendosi assumere come provato il fatto rimasto ignoto e di fatto mantenuto celato.

È così assodato in seno alla S.C. che «la possibilità, pur rigorosamente prospettata sotto il profilo scientifico, che la morte della persona ricoverata presso una struttura sanitaria possa essere intervenuta per altre, ipotetiche cause patologiche, diverse da quelle diagnosticate ed inadeguatamente trattate, che non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione della difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici (anche autoptici), non vale ad escludere la sussistenza di nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla» (così, ex plurimis, già Cass. civ., sez. III, 13 settembre 2000, n. 12103, il precedente capostipite in materia).

L'esatta logica e le principali implicazioni di questa versione del principio della vicinanza alla prova sono state illustrate da Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582: «il punto di partenza in tutti questi casi continua ad essere quello per cui l'attore è tenuto a provare il nesso di causalità, ma si tratta di una prova che può essere caratterizzata da meccanismi di tipo presuntivo»; dunque, essendo pure che «dinanzi alla prova del nesso di causa il danneggiato non è lasciato solo, ma a quest'ultimo si affianca il soggetto evocato in giudizio nella veste di responsabile», ove quest'ultimo fosse «tenuto per norma giuridica o tecnica a documentare la sua condotta o determinati fatti» e poi, «avendone la disponibilità, non la fornisca, ovvero non l'abbia proprio predisposta», legittimamente si dischiudono le seguenti ipotesi:

  • qualsiasi sia il regime di responsabilità applicato, il giudice può ritenere che «nel caso concreto […] sussistano le condizioni di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., fondate sulla mancata produzione di tale documentazione»;
  • «in caso di inversione dell'onere probatorio» (per es. nel caso di responsabilità da inadempimento o per attività pericolosa) il magistrato può accogliere la domanda anche nell'eventualità in cui il nesso di causalità «non risulta provato […] sulla base della documentazione di cui ha l'esclusiva disponibilità il convenuto, che era tenuto a predisporla».

A quest'ultimo riguardo, infatti, la Cassazione ritiene che il “danno evidenziale” cagionato dal debitore e, pertanto, le incertezze causali da esso discendenti non possano che ricadere sul medesimo; per es., come già precisato da Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11316, nell'ipotesi in cui dalla «imperfetta compilazione [della cartella clinica], costituente inadempimento di un'obbligazione strumentale, derivi l'impossibilità di trarre utili elementi di valutazione in ordine all'accertamento della causa dell'evento, le conseguenze non possono in via di principio ridondare in danno... del creditore della prestazione sanitaria».

Il deragliamento ultimo della Suprema corte
Totalmente fuori dal coro della giurisprudenza di legittimità sopra illustrata si è posta la pronuncia Cass. civ., n. 29315/2017 per la quale, invece, «nessuna maggiore vicinanza della prova» sarebbe ravvisabile in capo al debitore in relazione al nesso di causalità, risultando tanto il nesso causale materiale che quello giuridico «egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato)». A questa pronuncia è poi seguita l'ordinanza n. 19204/2018, la quale a sua volta ha perentoriamente affermato che il «principio di vicinanza dell'onere della prova» (sic) sarebbe tale da «non coinvolge il nesso causale fra la condotta dell'obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale si applica la distribuzione dell'onus probandi di cui all'art. 2697 c.c.», disposizione quest'ultima che, «ponendo a carico dell'attore la prova degli elementi costitutivi della propria pretesa, non permette di ritenere che l'asserito danneggiante debba farsi carico della “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa».

Critica ai due isolati precedenti del 2018
Per tali due isolati precedenti, dunque, il principio in questione rileverebbe soltanto ai fini dell'accertamento della colpa. In realtà, o esso non insiste affatto nel nostro ordinamento, oppure, se ivi alberga (come pure ritenuto da tali precedenti), esso opera qualsiasi sia l'oggetto della prova e, quindi, qualsiasi siano le circostanze fattuali da dimostrarsi; detto altrimenti, non può che estendersi anche a quelle che sono funzionali al ragionamento probatorio sul nesso causale, come del resto ritenuto costantemente dalla stessa Suprema corte.

Ciò posto, l'operatività del principio in disamina anche sul versante della causalità materiale risulta ampiamente supportabile sul piano argomentativo (sviluppa una serie di stimolanti indicazioni U. IZZO, Il danno da contagio post-trasfusionale come «danno evidenziale»? Regole e concetti in tema di presunzioni e responsabilità, in Danno e responsabilità, 2001, 256).

Una prima lettura potrebbe consistere nell'individuare nella lacuna probatoria imputabile al danneggiante una prova (presunta) della sua colpevolezza da cui far discendere, sempre in via presuntiva, la relazione causale secondo il consueto schema di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c.. Non sempre, tuttavia, questa operazione ermeneutica è praticabile: per es., vi sono delle ipotesi in cui dalla sussistenza della lacuna probatoria nulla si può argomentare presuntivamente circa la colpevolezza del soggetto cui si imputa il danno o circa la sussistenza della relazione causale (questo, ad esempio, il caso dello smarrimento degli esami effettuati sul paziente al momento del suo ingresso in ospedale).

Altra soluzione si regge sulla seguente interpretazione dell'art. 2697 c.c.: se la vittima dimostra che la lesione patita può in astratto essere la conseguenza della condotta (attiva od omissiva) del convenuto con riferimento all'adozione (erronea o mancata) di una misura precauzionale idonea ad evitarla e, al contempo, comprova che l'indisponibilità delle informazioni a disposizione del convenuto o che questo avrebbe dovuto avere gli impedisce di provare la fondatezza della sua pretesa, allora spetta a chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti allegare che così non è, e cioè, ai sensi del comma 2 dell'art. 2697 c.c., provare i fatti su cui l'eccezione si fonda, essendo del resto quest'ultimo il soggetto più prossimo alla fonte di prova richiesta per il suo esonero dalla responsabilità (per l'appunto la c.d. regola della “prossimità rispetto alla fonte di prova”). In altri termini, secondo questa impostazione «è verosimile che il danno sia stato causato dall'omissione di una particolare condotta preventiva da parte del convenuto, ergo è verosimile che senza la dispersione delle prove relative a quella condotta la pretesa attorea si sarebbe rilevata fondata, per cui compete al convenuto provare che non sia così» (così U. IZZO, La precauzione nella responsabilità civile, Padova, 2004, 155).

Più semplicemente, però, il fondamento del principio potrebbe rinvenirsi in un'interpretazione dell'art. 2697 c.c. innanzitutto alla luce del canone di buona fede/correttezza (art. 1175 c.c.) per cui sarebbe altamente ingiusto che una parte si avvantaggi di lacune probatorie che, per la posizione giuridica ricoperta, avrebbe potuto e - giustappunto, per buona fede/correttezza nell'interpretare ruoli contrattuali o istituzionali - dovuto scongiurare.

Il principio in questione, inoltre, trova la sua base pure nell'art. 24 Cost. (cfr., per es., Cass. civ., sez. lav., 14 gennaio 2016, n. 486; Cass. civ., sez. V, 6 giugno 2012, n. 9099; Cass. civ., sez. II, 17 aprile 2012, n. 6008; Cass. civ., sez. lav., 25 luglio 2008, n. 20484, Cass. civ., Sez. Un., 10 gennaio 2006, n. 141: il principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova è «riconducibile all'art. 24 Cost., e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio») così come nell'art. 111 Cost. (un “giusto processo” non può essere indifferente alle asimmetrie probatorie fra le parti).

Senz'altro, come rilevato dai giudici di legittimità, possono esservi dei casi in cui le parti sono egualmente prossime alla prova dei fatti sostanzianti la relazione causale; nondimeno, in tutta una serie di ipotesi è palese l'asimmetria tra creditore e debitore nella formazione e, comunque, nella disponibilità di supporti evidenziali della sequenza causale degli eventi (si pensi, per esempio, al paziente, il quale contragga un'infezione nosocomiale; tutta l'attività di documentazione relativa alle misure precauzionali adottate per la sepsi della sala operatoria, alla profilassi antibiotica, alle tempistiche dell'insorgenza dei sintomi, a precedenti casi di infezioni è saldamente nelle mani della struttura sanitaria).

Giustamente la giurisprudenza di legittimità ha costantemente tenuto conto di tali asimmetrie informative; non farlo più costituirebbe un significativo passo indietro, non supportabile sul piano giuridico e spiegabile sul piano della “policy of law” soltanto assumendo una svolta “reazionaria” della Suprema corte.

Non si crede, però, possibile che la Suprema corte si stia indirizzando in una direzione diametralmente opposta a quella sviluppata con tanta cura da svariati decenni.

Del resto, il principio in questione risale alla notte dei tempi ed opera anche in altri sistemi giuridici pur in assenza di disposizioni assimilabili all'art. 1218 c.c.. Per es., già in Blatch v. Archer (1774) 1 Cowp 63, ER 969, Lord Mansfield dava come assodata la regola per cui l'onere probatorio non necessariamente dovesse gravare soltanto sull'attore, ma vi fosse una sostanziale compartecipazione delle parti alla prova, con la corte investita del compito finale di raffrontare gli elementi di prova acquisiti nel procedimento con le rispettive disponibilità probatorie in concreto ravvisabili in capo ad attore e convenuto: «It is certainly a maxim that all evidence is to be weighed according to the proof which it was in the power of one side to have produced, and in the power of the other to have contradicted».

Infine, può rilevarsi come anche la dottrina avversa al modello presuntivo del nesso di causa abbia, comunque, ritenuto conservabile il principio per cui, «quando la difettosa tenuta della cartella clinica non consenta al paziente-creditore la prova del nesso di causa tra la condotta colposa dei medici e la patologia verificatasi, il giudice potrà ritenerla accertata anche mediante presunzioni, sempre che sussista la (astratta) idoneità della condotta a provocarla, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato» (così D. SPERA, La responsabilità sanitaria contrattuale ed extracontrattuale nella “legge Gelli-Bianco”: da premesse fallaci a soluzioni inappaganti, cit.).

In conclusione

In definitiva, una corretta lettura, costituzionalmente orientata, delle recenti sentenze e del diritto positivo non può condurre a ribaltamenti/mutamenti del modello presuntivo del nesso di causa e del principio di vicinanza alla fonte di prova sanciti dalle Sezioni Unite nel 2008 e ribaditi per oltre un decennio dalla giurisprudenza di legittimità.

Certamente, però, sarebbe auspicabile che la Suprema Corte non proseguisse sulla scivolosa china principiata con la sentenza Cass. civ. n. 18392/2017, poi da ultimo approdata all'ordinanza Cass. civ. n. 19204/2018: precedenti come questi, infatti, creano serie difficoltà e non fanno altro che porre gli interpreti dinanzi ad inopportuni dilemmi e perentorie affermazioni idonee soltanto a condurre la giurisprudenza di merito fuori strada ed a riversarsi su persone colpite da autentiche tragedie.

Tra le affermazioni più critiche ed allarmanti spicca senza dubbio quella per cui ogni incertezza sul piano causale sarebbe sempre e comunque tale da ricadere sul danneggiato: così, invero, non è, come la stessa Suprema corte, con estrema convinzione ed in modo compatto sino al 2017, ha costantemente rilevato su basi e logiche del tutto ineccepibili.

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