Registrazioni effettuate dal dipendente sul luogo di lavoro: le ultime pronunce della Suprema Corte e i precedenti giurisprudenziali

Alessandra Boati
05 Ottobre 2018

Due recenti pronunce della Suprema Corte di cassazione hanno nuovamente posto l'attenzione sul tema delle registrazioni effettuate sul luogo di lavoro da un dipendente all'insaputa degli interlocutori, materia che da sempre è caratterizzata dall'estrema volatilità degli orientamenti giurisprudenziali. Anche le due sentenze in commento confermano questa tendenza, ribadendo una volta di più il necessario intervento delle Sezioni unite, al fine di dirimere la questione in modo definitivo.
Abstract

Due recenti pronunce della Suprema Corte di cassazione hanno nuovamente posto l'attenzione sul tema delle registrazioni effettuate sul luogo di lavoro da un dipendente all'insaputa degli interlocutori, materia che da sempre è caratterizzata dall'estrema volatilità degli orientamenti giurisprudenziali.

Anche le due sentenze in commento confermano questa tendenza, ribadendo una volta di più il necessario intervento delle Sezioni unite, al fine di dirimere la questione in modo definitivo.

Le recenti pronunce della Suprema Corte in tema di registrazioni effettuate dal dipendente sul luogo di lavoro

Due recenti pronunce della Suprema Corte di cassazione, ovverosia, Cass., sez. lav., 10 maggio 2018, n. 11322, e Cass., sez. lav., ord. 16 maggio 2018, n. 11999, hanno riaperto il dibattito relativo al tema delle registrazioni occulte effettuate dal dipendente sul luogo di lavoro, confermando l'esistenza di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti e ribadendo la necessità di un intervento delle Sezioni unite.

L'analisi delle due pronunce è particolarmente interessante in quanto, confermando la tendenza della giurisprudenza in materia, giungono a conclusioni di segno opposto.

La sentenza n. 11322 del 10 maggio 2018 ha esaminato il caso di un lavoratore licenziato per giusta causa dall'impresa datrice per aver consegnato, in fase di giustificazioni orali in merito ad una precedente contestazione, una chiavetta USB contenente alcune registrazioni di conversazioni effettuate durante l'orario e sul posto di lavoro e coinvolgenti altri dipendenti della società, ignari di essere registrati. Veniva, altresì, contestato al lavoratore di aver eseguito registrazioni video, comportamento che, secondo quanto riportato nella lettera di contestazione disciplinare, veniva segnalato dai colleghi, i quali riferivano di averlo visto scattare foto e registrare audio e video senza autorizzazione da parte loro.

La Suprema Corte, ha ritenuto legittima la condotta del dipendente, ritenendola non suscettibile di sanzione disciplinare, avendo questi – ad avviso dei giudici - posto in essere tale comportamento per esigenze di tutela dei propri diritti.

Analizziamo meglio i contenuti della motivazione.

I giudici di terzo grado, dopo essersi soffermati preliminarmente sulla definizione di “dato personale” e “trattamento” dei dati personali, hanno innanzitutto chiarito che, nonostante il trattamento dei dati personali sia ammesso di norma solo in presenza del consenso dell'interessato, tale trattamento può essere eseguito anche in assenza del consenso se “è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla l. n. 397 del 2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento” (art. 24, d.lgs. n. 196 del 2003).

Pertanto, nel caso in cui non sussista il consenso del titolare dei dati personali, il trattamento degli stessi dovrà essere ritenuto lecito qualora il soggetto “trattante” agisca per far valere o difendere un suo diritto e ciò al fine di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra.

Applicando il predetto principio al caso di specie, la Suprema Corte ha, quindi, accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo assente l'illiceità nel fatto contestatogli, poiché – a parere dei giudici – il dipendente aveva eseguito le registrazioni al fine di precostituirsi un mezzo di prova per la tutela dei propri diritti in giudizio.

Inoltre, la Suprema Corte ha sottolineato che il dipendente, ha adottato tutte le dovute cautele per evitare la diffusione delle registrazioni, rendendo così “operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”.

Applicando i principi appena delineati, la Suprema Corte, quindi, ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore, riconoscendo il suo diritto alla reintegrazione, ex art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970 (nella versione post riforma Fornero). Secondo gli Ermellini, infatti, “si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità […], rispondendo la stessa alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia alla stregua dell'indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia sulla base dell'esistenza della scriminante generale dell'art. 51, c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico”.

Di segno differente risulta, invece, l'ordinanza n. 11999 del 16 maggio 2018, depositata appena sei giorni dopo la sentenza n. 11322 del 2018, con la quale la Suprema Corte ha stabilito che la registrazione di conversazioni tra presenti effettuate all'insaputa dei partecipanti rappresenta una grave violazione del diritto alla riservatezza e, in quanto tale, rende legittimo il licenziamento del dipendente che ha posto in essere tale condotta.

Il caso prende le mosse dal licenziamento disciplinare comminato nei confronti di un dipendente che aveva registrato occultamente una conversazione telefonica tra il datore di lavoro ed un altro dipendente, nonché altre conversazioni avvenute nel corso di una riunione aziendale, asserendo che dette registrazioni avrebbero dovuto essere utilizzate per sporgere querela contro il superiore per le condotte mobbizzanti di quest'ultimo nei suoi confronti.

Nel caso di specie, la Cassazione, ha ritenuto idonea a fondare il licenziamento la condotta del dipendente consistente “nella registrazione della conversazione tra presenti all'insaputa dei conversanti e nell'impossessamento di un'e-mail non destinata alla visione del dipendente”. Il comportamento tenuto dal lavoratore, infatti, secondo gli Ermellini, si poneva “in contrasto con gli standard imposti dal dovere di fedeltà di cui all'art. 2105, c.c., e da una condotta improntata a buona fede e correttezza e tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario”, in quanto idoneo a violare il diritto di riservatezza dei colleghi.

Nell'ordinanza in commento, pertanto, la Suprema Corte, si pone in discontinuità rispetto a quanto statuito attraverso la sentenza n. 11322 del 2018, non valorizzando l'esercizio del diritto di difesa, ma ponendo – invece – l'accento sul il diritto alla riservatezza dei soggetti che, a loro insaputa divengono oggetto di registrazioni audio o video.

Secondo questo orientamento, infatti, l'elemento che deve rilevare non è il fine ma è il modus in cui le informazioni prodotte davanti ai giudici sono state acquisite e, essendo queste state carpite in modo occulto e all'insaputa degli altri soggetti “conversanti”, la condotta posta in essere è tale da compromettere irreparabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e costituisce, conseguentemente, un valido motivo di licenziamento.

I precedenti orientamenti giurisprudenziali

L'esistenza di orientamenti giurisprudenziali di segno opposto, cha ha trovato ulteriore conferma a seguito della pubblicazione delle due pronunce appena analizzate, rende interessante esaminare alcuni precedenti pronunciamenti della Suprema Corte, per capire se – pur nella contraddizione interpretativa che ha caratterizzato la materia – sia comunque possibile dedurre alcuni punti fermi che possano fungere da “linee guida”.

La disamina delle sentenze della Corte di cassazione permette di affermare che l'orientamento dominante sia quello secondo cui l'effettuazione di registrazioni occulte da parte di un dipendente debba essere ritenuta una condotta legittima - e non possa quindi assumere rilevanza disciplinare - purché sia effettuata nell'esercizio di un diritto quale quello di difesa in sede giudiziaria.

In questo senso, il precedente maggiormente significativo è rappresentato da Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424.

Nella disamina della fattispecie (anch'essa riguardante il licenziamento disciplinare di un dipendente che aveva registrato conversazioni occulte sul luogo e durante l'orario di lavoro), gli Ermellini hanno, innanzitutto, premesso che “la registrazione fonografica di un colloquio tra persone presenti rientra nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712, c.c. (cfr. Cass. n. 9526 del 2010; Cass. n. 27157 del 2008), quindi di prove ammissibili nel processo civile, così come lo sono in quello penale”.

I giudici di legittimità hanno, inoltre, osservato che il diritto di difesa non è limitato alla sola sede processuale, estendendosi, altresì, a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso.

Con riguardo, poi, alla rilevanza disciplinare della condotta, la Suprema Corte ha dichiarato che la registrazione operata da un lavoratore nel corso di un colloquio con il proprio datore (o con i colleghi) non integra un illecito sanzionabile disciplinarmente in quanto effettuata nell'esercizio di un diritto di difesa e, pertanto, non idonea a ledere il rapporto fiduciario tra dipendente e datore, che concerne esclusivamente l'affidamento di quest'ultimo sulle capacità del lavoratore di adempiere all'obbligazione contrattuale. Secondo il tribunale di legittimità, infatti, tale condotta costituirebbe un illecito solo se fosse eseguita “per fini illeciti, ad esempio estorsivi e di violenza privata”.

Hanno, infatti dichiarato i giudici della Corte di cassazione che “tale addebito non può integrare illecito disciplinare, rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d'un diritto e, quindi, essendo coperta dall'efficacia scriminante dell'art. 51, c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico”.

Nella pronuncia n. 27424 del 2014, pertanto, i giudici di legittimità hanno cristallizzato con estrema chiarezza quelli che sono i principi cardine di tale orientamento, che pure avevano già trovato una loro definizione nei precedenti conformi (Cass. n. 9526 del 2010; Cass. n. 27157 del 2008) e che, come abbiamo visto, sono stati integralmente ripresi da Cass. n. 11322 del 2018 commentata nel precedente paragrafo.

Un'analisi ragionata dei precedenti giurisprudenziali in materia impone, però, di dare conto anche dell'orientamento di segno opposto, che, seppur minoritario, rappresenta comunque una casistica interessante e di cui non è possibile non tenere conto.

Il riferimento in tal senso va alla sentenza della Cassazione 8 agosto 2016, n. 16629, riguardante il caso di un licenziamento per giusta causa intimato dalla società datrice al lavoratore per aver – tra le condotte contestate - registrato e poi fonoscritto, ai fini della produzione in giudizio di impugnativa del trasferimento, una conversazione tra colleghi a cui egli stesso aveva preso parte, senza che questi ultimi fossero informati.

La Corte di Cassazione, in linea con quanto statuito in appello dalla Corte territoriale, riteneva legittimo il provvedimento espulsivo comminato al lavoratore in quanto il tenore del suo comportamento veniva ritenuto in contrasto con gli standard imposti dall'obbligo di fedeltà verso il datore di lavoro e con una condotta improntata sulla buona fede e correttezza, legittimando, quindi, il licenziamento per giusta causa.

Nella pronuncia in commento, infatti, i giudici di terzo grado, non hanno attribuito prevalenza alle esigenze difensive dell'autore delle registrazioni e al suo diritto di agire per la tutela dei propri interessi quanto, invece, alle modalità di apprensione ed impossessamento, per verificarne l'idoneità a violare l'obbligo di fedeltà a cui il dipendente è tenuto ai sensi dell'art. 2105, c.c.

La Suprema Corte infatti, pur ribadendo il principio - più volte affermato confermato da giurisprudenza oramai costante (Cass. n. 6420 del 2002; Cass. n. 12528 del 2004; Cass. n. 22923 del 2004; Cass. n. 3038 del 2011; Cass. n. 6501 del 2013) - secondo cui “il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all'art. 2105, c.c., tenuto conto che l'applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell'azienda” ha comunque ritenuto che le modalità poste in essere dal lavoratore per l'apprensione dei documenti integrasse una violazione degli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto lavorativo.

Hanno infatti dichiarato i giudici in tal senso che debba essere ritenuta “idonea a fondare la sanzione espulsiva non la produzione in giudizio della documentazione, ma le sue modalità di apprensione, consistenti nella registrazione della conversazione tra presenti all'insaputa dei conversanti e nell'impossessamento di un' e-mail non destinata alla visione dello S., circostanze ritenute entrambe di per sé in contrasto con gli standard di comportamento imposti dal dovere di fedeltà di cui all'art. 2105, c.c., e da una condotta improntata a buona fede e correttezza e tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario”.

Nell'analisi della sentenza in esame, che è certamente la più rappresentativa tra le pronunce di segno conforme e che non a caso viene citata anche nelle motivazioni dell'ordinanza n. 11999 del 2018, non si può non rilevare che l'effettuazione di registrazioni occulte di conversazioni sul luogo di lavoro rappresenta solo uno degli addebiti contestati al lavoratore e per i quali si era proceduto al suo licenziamento (al dipendente era stato, infatti, contestato anche l'invio sulla propria casella e-mail di un documento riservato a lui non diretto). Il licenziamento, quindi, è molto probabilmente frutto di una valutazione più ampia del complessivo comportamento del dipendente, e ciò potrebbe ridimensionare il peso attribuito all'esecuzione di registrazioni occulte nella valutazione della lesione del vincolo fiduciario.

Considerazioni

Dall'analisi delle recenti pronunce e dei precedenti giurisprudenziali della Suprema Corte in materia di registrazioni “occulte” effettuate dal dipendente durante l'orario e sul luogo di lavoro appare del tutto evidente che i due orientamenti che si sono venuti a formare sono diametralmente opposti e non permettono di poter individuare una soluzione univoca.

Infatti, se è vero che l'orientamento maggioritario parrebbe essere quello che ritiene l'effettuazione di registrazioni occulte una condotta legittima se effettuata dal lavoratore nell'esercizio di un diritto quale quello di difesa in sede giudiziaria, è anche vero che lo stesso orientamento – proprio attraverso la recente sentenza n. 11322 del 2018 – ha comunque sottolineato che non è sufficiente che il soggetto agente si limiti ad affermare la finalità difensiva del trattamento dei dati acquisiti, ma dovrà dare prova della conformità e della corrispondenza della sua condotta rispetto a tale obiettivo.

Sarà, quindi, possibile fare una valutazione solo caso per caso, analizzando per ciascuna fattispecie tutti gli elementi, al fine di poter stabilire se le registrazioni effettuate siano effettivamente state utilizzate per lo scopo prefissato (ossia la costituzione di una prova e l'esercizio di un diritto) e per poter valutare se siano state eseguite adoperando tutte le tutele necessarie per evitare la diffusione e un uso distorto dei dati acquisiti.

Un intervento delle Sezioni Unite, pertanto, appare sempre più auspicabile, anche per l'assoluta attualità della materia. Oramai chiunque, infatti, e a maggior ragione sul luogo di lavoro, ha sempre a disposizione device quali smartphone e pc che permettono di effettuare registrazioni audio e video con estrema facilità e, pertanto, è lecito pensare che i tribunali saranno sempre più spesso chiamati a giudicare controversie riguardanti l'effettuazione delle registrazioni, la loro utilizzabilità nell'ambito dei procedimenti giudiziari e la loro legittimità.

Non va, infine, dimenticato che l'entrata in vigore del nuovo “Regolamento generale sulla protezione dei dati personali” n. 679 del 2016, che negli ultimi mesi ha posto il tema della tutela della privacy al centro del dibattito, potrebbe influenzare anche le future pronunce in merito alle problematiche appena analizzate, offrendo nuovi spunti di riflessione.