La Suprema Corte fa chiarezza in merito al termine di decadenza di 60 giorni a seguito del tentativo di conciliazione

Roberto Dulio
05 Novembre 2018

In ipotesi di impugnazione di licenziamento, ove l'impugnazione stragiudiziale venga seguita dalla richiesta di tentativo di conciliazione, il successivo termine decadenziale di 60 giorni per il deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale, trova applicazione al solo caso di mancata effettuazione della procedura conciliativa per rifiuto della stessa o mancato accordo al suo espletamento. In tal caso non potrà viceversa essere invocato il diverso ulteriore termine sospensivo di 20 giorni previsto dall'art. 410, comma 2, c.p.c., poiché riferito alla diversa fattispecie di tentativo di conciliazione effettivamente espletato, pur con esito negativo.

Il caso. Un lavoratore, dopo aver impugnato stragiudizialmente il licenziamento intimatogli, inviava comunicazione di richiesta di tentativo di conciliazione nel rispetto del termine decadenziale di 180 giorni, previsto dall'art. 6, l. n. 604 del 1966. Il datore di lavoro a sua volta riscontrava la richiesta, comunicando che “non intendeva sottoporre la questione alla procedura conciliativa di cui all'art. 410, c.p.c.”. Il lavoratore a questo punto adiva il Tribunale (procedimento l. n. 92 del 2012), che tuttavia rigettava il ricorso, per intervenuta decadenza, stante il mancato rispetto del termine di 60 giorni previsto dal medesimo art. 6. Proposto reclamo, la Corte di merito confermava la decisione di primo grado, ribadendo l'intervenuta decadenza. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore.

Il procedimento di impugnazione di licenziamento ex art. 6, l. n. 604 del 1966. I giudici di merito hanno ritenuto intempestivo il ricorso proposto dal lavoratore, per intervenuta decadenza dal termine di 60 giorni decorrenti dal rifiuto del procedimento di conciliazione richiesto dal lavoratore. Per meglio comprendere la vicenda esaminata, analizziamo la scansione temporale dei vari atti. Il licenziamento intimato in data 13 dicembre 2013 venne tempestivamente impugnato con missiva del 29 gennaio 2014. Nel rispetto del successivo termine di 180 giorni, il lavoratore inviava comunicazione di richiesta di tentativo di conciliazione il 18 luglio 2014 e a sua volta il datore di lavoro comunicava con missiva del 30 luglio 2014 il suo rifiuto ad aderire al tentativo di conciliazione. Il lavoratore infine depositava in data 30 settembre 2014 il ricorso giudiziale; oltre dunque i 60 giorni, scadenti il 28 settembre 2014 (domenica) e così il 29 settembre.

Il termine di decadenza di 60 giorni per il deposito del ricorso. Sostiene il ricorrente che la corte d'appello, così come il giudice di primo grado, abbia errato nel ritenere decaduto il termine di 60 giorni previsto dalla norma sopra citata. Ciò in quanto deve essere considerato l'ulteriore termine di 20 giorni di sospensione, decorrenti dal rifiuto alla procedura conciliativa. Da ciò dunque la tempestività del ricorso. Ma la Corte di legittimità non ritiene fondato l'assunto.


In merito occorre tenere distinte le due possibili ipotesi: l'una che riguarda il tentativo di conciliazione promosso, cui aderiva la controparte, effettivamente espletato ma conclusosi con esito negativo di mancato accordo. In questo caso, afferma il Supremo Collegio, non opera il termine decadenziale di 60 giorni, ma permane quello originario di 180 giorni dalla impugnazione stragiudiziale, con applicazione della sospensione del termine per tutta la durata della procedura conciliativa e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, secondo il disposto dell'art. 410, comma 2, c.p.c. A tal proposito la Corte richiama una precedente decisione in materia della medesima sezione lavoro, 1° giugno 2018 n. 14108, ove viene affermato tale principio.

L'altra ipotesi, che si verifica qualora alla richiesta di conciliazione la controparte non aderisca, opponendo il suo rifiuto o rimanendo in silenzio e impedendo così alla Commissione di attivare la procedura, per mancato accordo al suo espletamento. Questa seconda ipotesi è quella che riguarda la controversia decisa.


Fattispecie a cui dovrà trovare applicazione non la sospensione dell'originario termine di 180 giorni, ma il diverso ulteriore termine di 60 giorni. Senza possibilità di applicazione a quest'ultimo, di ulteriori ipotesi di sospensione o proroga.

E dunque, affermano gli Ermellini, il motivo di censura proposto dal ricorrente non è fondato, poiché vorrebbe l'applicazione di un termine sospensivo non applicabile alla fattispecie concreta. Conseguentemente il ricorso giudiziale viene ad essere effettivamente intempestivo, per il mancato rispetto del predetto termine decadenziale di 60 giorni.


Corretta dunque la sentenza impugnata, con conseguente infondatezza del ricorso proposto che è stato così rigettato.

(Fonte: Diritto & Giustizia)

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.