Il risarcimento del danno da perdita di chances di sopravvivenza
08 Novembre 2018
Origini del concetto di danno da perdita di chance
Le origini del danno da perdita di chance sono lontane dal mondo della responsabilità sanitaria. Il concetto nasce infatti in ambito patrimoniale in relazione ad una variegata serie di fattispecie, anche molto differenti tra loro, delle quali sono paradigmatiche le ipotesi di illegittima esclusione da un concorso pubblico o da una procedura di selezione/promozione del personale (e simili): l'idea che emerge in questo contesto è che il soggetto illecitamente penalizzato, pur non essendoci certezza circa il fatto che sarebbe stato assunto o avrebbe ottenuto la promozione, ha comunque subito un danno, rappresentato dalla perdita della possibilità di conseguire quel risultato, e che questo danno dev'essere risarcito perché quella possibilità perduta costituisce un'utilità già facente parte del suo patrimonio, economicamente e giuridicamente suscettibile di autonoma valutazione. Quando trasposta nel settore della responsabilità medica, la teorica del danno da perdita di chance si dimostra essere, più che ricostruzione fondata su solide basi dogmatiche, un'operazione di politica del diritto, se non un vero e proprio espediente finalizzato a rimediare all'incertezza del nesso causale nelle ipotesi in cui risulta inappagante disconoscere del tutto un risarcimento che, in realtà, dovrebbe essere negato applicando il criterio di accertamento del nesso eziologico del “più probabile che non” con il suo rigoroso corollario costituito dalla logica dell'all or nothing. Al riguardo bisogna infatti ricordare che, se è vero che basta il 50% più uno di probabilità di sussistenza del nesso causale perché il paziente ottenga il risarcimento dell'intero danno lamentato in giudizio, nei casi in cui quella soglia non venga raggiunta il malato non dovrebbe ottenere alcun risarcimento, pure quando sia stata riscontrata una probabilità di sussistenza del nesso eziologico molto elevata, in ipotesi anche del 49%. E questo perché, come tutti i fatti posti a base della controversia sottoposta a giudizio, il nesso di causalità o è ritenuto provato o non è ritenuto provato dal giudice, senza alternative intermedie. Proprio un'alternativa intermedia, tuttavia, viene elaborata dalla giurisprudenza per reagire all'insoddisfazione che suscita negare ristoro al paziente nelle fattispecie da ultimo considerate, specialmente quando è stata accertata la commissione di un grave errore da parte dei medici, provvedendo a sostituire al danno effettivo, a seconda dei casi rappresentato dal pregiudizio alla salute o dalla morte del paziente, il diverso pregiudizio rappresentato dalla perdita della chance, rispettivamente, di guarigione o di sopravvivenza. Si assiste, in questo modo, al passaggio da una concezione c.d. “eziologica” ad una concezione c.d. “ontologica” della chance, in virtù della quale gli operatori sanitari vengono chiamati a rispondere non della produzione di un risultato negativo, bensì della privazione della possibilità di conseguire un risultato positivo. Va messo in rilievo come, sempre secondo la giurisprudenza, questa prospettiva non dovrebbe comportare l'abbandono del requisito del nesso causale, in quanto la condanna dei sanitari comunque presuppone che venga verificata, secondo l'usuale parametro del “più probabile che non”, la ricorrenza di un legame eziologico tra l'errore medico e la distruzione della chance di guarigione o di sopravvivenza del paziente. In realtà, l'analisi delle pronunce mette in luce che nelle controversie di questo tipo l'accertamento della suddetta relazione eziologica appare decisamente meno rigoroso rispetto a quando non si discute di perdita di chance, tanto che in alcune decisioni sembra addirittura operare una sorta di “automatismo” tra la constatazione dell'errore medico da un lato e la perdita di una possibilità di guarigione o di sopravvivenza del paziente dall'altro: in altre parole, si tende a riconoscere in maniera piuttosto meccanicistica – e senza ulteriori verifiche – che, se il medico ha commesso un qualche errore, allora una qualche chance di guarigione o di sopravvivenza l'ha per forza di cose tolta al paziente. Va detto che la solidità di tutta questa impostazione teorica, tutt'altro che pacifica, è da tempo al centro di un dibattito particolarmente complesso e vivace, che in questa sede non sarebbe certamente possibile approfondire compiutamente. Ciò su cui si desidera concentrare l'attenzione, piuttosto, è il profilo concernente il danno da perdita di chance di sopravvivenza e le peculiarità che lo caratterizzano nel contesto finora tratteggiato. In particolare sul danno da perdita di chances di sopravvivenza
La questione del danno da perdita di chance di sopravvivenza inizia ad attirare l'attenzione della giurisprudenza di merito sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, per poi approdare per la prima volta di fronte alla Cassazione nel 2004. Le controversie in cui si discute del danno in discorso originano dalla morte del paziente affetto da una patologia diagnosticata e/o affrontata in maniera scorretta e/o in ritardo, che avrebbe comunque condotto al decesso del malato anche qualora fosse stata affrontata in maniera corretta e tempestiva, ma in un arco temporale forse più esteso: ciò di cui il paziente viene privato in conseguenza dall'errore medico, quindi, è – non la vita, bensì – la chance di vedere rallentato il decorso della malattia e conseguentemente vivere più a lungo (nonché, in diversi casi, in condizioni migliori: ma su questo aspetto torneremo più avanti). Sul piano strettamente tecnico-giuridico, si individua la situazione giuridica soggettiva tutelata nel “diritto a conservare integre le proprie chances di sopravvivenza”, che alcuni riconducono al diritto alla vita, mentre altri preferiscono configurare come una sorta di “diritto intermedio” tra il diritto all'integrità psicofisica e il diritto alla vita stesso. Le ipotesi più frequenti, com'è agevole immaginare, riguardano patologie tumorali, ma si riscontrano pronunce di nostro interesse anche al di fuori di quell'ambito.
Alcune precisazioni possono servire a delimitare in maniera più precisa il contesto che stiamo trattando: 1) a rigore, non si deve parlare di perdita di chance di sopravvivenza quando risulta certo e non soltanto probabile (o possibile) il fatto che, se la malattia fosse stata diagnosticata adeguatamente e affrontata per tempo, il paziente sarebbe vissuto più a lungo e/o in condizioni migliori; una siffatta certezza, tuttavia, è alquanto raro che venga raggiunta, sicché sono assolutamente preponderanti i casi in cui si può discutere, per l'appunto, solamente di perdita di una chance di sopravvivenza; 2) allo stesso modo, il concetto di chance di sopravvivenza non viene in rilievo quando quest'ultima non era in pericolo prima della condotta negligente del medico ed il paziente muore durante o dopo l'esecuzione del trattamento sanitario: in questi casi, piuttosto, si tratterà di accertare se il trattamento de quo ha o meno cagionato la morte del paziente, e ad un'eventuale incertezza circa la ricorrenza del relativo nesso causale non si potrà ovviare ricorrendo al concetto di chance; 3) nemmeno si dovrebbe parlare di perdita di chance di sopravvivenza, da ultimo, quando un intervento medico tempestivo e corretto avrebbe forse potuto salvare la vita del paziente e non soltanto rallentarne la morte, in tal caso essendo stata effettivamente perduta una chance di guarigione. Sul punto, peraltro, si riscontra una certa confusione e non è raro che venga utilizzata, pure in questi casi, l'espressione chance di sopravvivenza, con ogni probabilità equivocando sul fatto che, se il paziente avesse sconfitto la malattia, sarebbe pure sopravvissuto alla medesima. Ma se la malattia poteva essere debellata, come già detto, appare senz'altro più corretto parlare di perdita di chance di guarigione e non di sopravvivenza, in modo da tenere ben distinte le due ipotesi.
Un'altra puntualizzazione importante riguarda il fatto che, secondo l'impostazione di gran lunga prevalente, non esistono soglie minime percentuali – per esempio del 50% – che la chance deve raggiungere per essere risarcita: questo aspetto rileva solo in sede di quantificazione della somma di denaro spettante agli aventi diritto, ma non condiziona l'an della pretesa risarcitoria, la quale sussiste anche in presenza di una chance non particolarmente consistente, magari esigua, questa meritando comunque riconoscimento, al limite anche soltanto “simbolico”; e lo stesso vale nelle ipotesi in cui non sia possibile stimare la consistenza percentuale della chance perduta, in quanto questo dato non ne esclude l'esistenza. L'analisi delle pronunce in materia, fra l'altro, suscita l'impressione che i giudici tendano ad accentuare questi ragionamenti quanto più appare evidente e grave l'errore commesso dai medici, quasi a connotare il risarcimento della chance perduta di valenze “punitive”.
Da più parti si rileva come una limitazione di risarcibilità della chance legata alla sua consistenza, attualmente non desumibile sulla scorta dell'ordinamento vigente, potrebbe eventualmente essere introdotta da un'espressa previsione di legge, com'è effettivamente accaduto in alcune esperienze straniere; al contempo si evidenzia, peraltro, che risarcire solamente chances superiori ad una determinata soglia percentuale contrasterebbe con la funzione deterrente della responsabilità civile e soprattutto rinnegherebbe il compito fondamentale degli operatori sanitari, che è quello di massimizzare le prospettive di guarigione o di sopravvivenza, per quanto modeste, che la scienza medica è in grado di assicurare ad ogni singolo individuo.
Ribadito che la consistenza percentuale della chance perduta rileva solamente ai fini della quantificazione del danno, il discorso della giurisprudenza conclude precisando che, in sede liquidatoria, tale elemento andrà poi a combinarsi con lo scarto temporale ravvisabile fra la data in cui l'evento morte si è verificato e la data in cui avrebbe presumibilmente avuto luogo nel caso in cui la patologia fosse stata diagnosticata e affrontata in maniera tempestiva e corretta. In sintesi, quindi, si arriva a formulare un enunciato del tipo “se la patologia fosse stata presa per tempo e curata adeguatamente il paziente avrebbe avuto una certa percentuale (del 20, 30, 40%, ecc.) di possibilità di vivere ancora per un determinato periodo di tempo (uno, due, tre anni, o mesi, o settimane, ecc.)”, che il giudice deve poi tradurre in termini monetari. Individuazione e liquidazione dei danni risarcibili
Veniamo, allora, a trattare più da vicino il profilo della liquidazione dei danni da perdita di chance di sopravvivenza, senza dubbio il risvolto della materia maggiormente complesso dal punto di vista pratico, che come subito vedremo dà luogo ad un indesiderabile fenomeno di moltiplicazione di voci di danno con conseguente rischio di indebite duplicazioni risarcitorie. Al riguardo va premesso che, come sempre accade quando si parla di danni da morte, i soggetti aventi diritto al risarcimento andranno individuati negli eredi e nei congiunti del paziente defunto, i quali potranno azionare tanto pretese c.d. iure hereditario (vale a dire pretese acquisite dal de cuius per via successoria e riferite a pregiudizi dallo stesso sofferti) quanto pretese c.d. iure proprio (ovverosia riferite a danni subiti direttamente da coloro che ne chiedono il risarcimento).
Vengono dal primo punto di vista in rilievo le seguenti poste risarcitorie: 1) Il danno da perdita della possibilità di vivere più a lungo, ovverosia il danno da perdita di chance di sopravvivenza in sé considerato, che viene (seppure non pacificamente) considerato danno patrimoniale, nonostante la natura non patrimoniale del bene vita/sopravvivenza verso il quale la chance si protende, in quanto si ritiene che quest'ultima appartenga al “patrimonio” inteso in senso ampio del soggetto. Va rimarcato che, perché sia configurabile un risarcimento, possono bastare anche pochi mesi se non qualche settimana, non occorrendo che l'arco temporale di vita perduta assuma contorni particolarmente consistenti. In giurisprudenza regna grave incertezza circa il metodo di liquidazione da adottare per quantificare questo tipo di pregiudizio: talvolta si procede in via meramente equitativa ex art. 1226 c.c.; altre volte si prendono come riferimento le tabelle elaborate dai Tribunali per il risarcimento del danno biologico e si guarda alla somma prevista per l'invalidità totale temporanea, la quale viene moltiplicata per i giorni di vita perduti dalla vittima, in alcuni casi però previo incremento del 100% (come a sottendere che un giorno di vita perso vale il doppio di un giorno trascorso in stato di invalidità totale); altre volte ancora si guarda, invece, alla somma tabellare prevista per l'invalidità totale permanente, che viene decurtata in proporzione della grandezza percentuale della chance perduta; in un'occasione, infine, si è ritenuto potersi fare riferimento ai criteri previsti dalla l. 21 dicembre 1999, n. 497, recante «Disposizioni per la corresponsione di indennizzi relativi all'incidente della funivia del Cermis del 3 febbraio 1998 a Cavalese».
2) Il danno biologico terminale, rappresentato dalla compromissione della salute della vittima cagionata dalla negligenza medica che porta all'accelerazione dell'esito letale e quantificato alla stregua dei valori tabellari previsti per l'invalidità totale temporanea, rapportati al periodo di vita trascorso dal momento in cui la malattia poteva essere diagnosticata e/o affrontata fino al momento in cui ciò è stato fatto (seppure in ritardo) o il paziente è morto (se invece non è mai stato fatto). Va evidenziato che quello in discorso è un danno non patrimoniale, sicché il suo risarcimento non dovrebbe costituire un'indebita duplicazione del danno da perdita di chance di sopravvivenza appena sopra descritto, quantomeno, s'intende, nella misura in cui si sia disposti a riconoscere la natura patrimoniale di quest'ultimo (e il punto, come si è avvertito, non è pacifico).
3) Il danno da perdita della possibilità di vivere in condizioni migliori, configurabile qualora si accerti che la tempestiva diagnosi della patologia avrebbe consentito la somministrazione di cure palliative e/o l'esecuzione di interventi in grado di alleviare le sofferenze del paziente e migliorare le sue condizioni di vita, specialmente dal punto di vista dell'autonomia personale. Come viene da più parti fatto notare, questa voce di danno sembra però sovrapporsi con il danno biologico terminale appena sopra illustrato, concretizzando quindi una inammissibile duplicazione risarcitoria.
4) Il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, consistente nella perdita della possibilità di decidere come sfruttare il tempo di vita residuo e, in particolare, scegliere se sottoporsi o meno alle cure e agli interventi che sarebbero stati realizzabili con una diagnosi tempestiva. Anche questa tipologia di pregiudizio suscita però perplessità, perché delle due l'una: o il paziente avrebbe scelto di sottoporsi a quelle cure e a quegli interventi, ma allora il pregiudizio che si vuole risarcire parrebbe già ricompreso nel danno da perdita della possibilità di vivere in condizioni migliori del quale si è parlato poco sopra (e che a sua volta abbiamo visto sovrapporsi al danno biologico terminale); oppure il paziente avrebbe rifiutato quelle cure e quegli interventi, ma in tal caso non può lamentare di avere subito alcun danno, perché gli eventi si sarebbero svolti nello stesso modo in cui si sono concretamente svolti in conseguenza della mancata/tardiva diagnosi della patologia.
5) Talvolta si è pure parlato di una ulteriore voce di danno da perdita della – citando quasi testualmente la giurisprudenza in materia – «possibilità di prepararsi meglio alla propria fine, vivendo e programmando consapevolmente il proprio essere persona». Oltre alla possibile sovrapposizione con una o più delle voci di danno già viste in precedenza, questo tipo di pregiudizio solleva gravi punti interrogativi: può davvero ritenersi che rappresenti un danno – provocatoriamente potrebbe addirittura parlarsi di un sollievo…! – la mancanza di consapevolezza circa l'imminenza e l'ineluttabilità della propria morte? E quale sarebbe, poi, il diritto inviolabile della persona tutelato a livello costituzionale, sotteso a questo pregiudizio, la cui violazione è secondo la giurisprudenza necessaria per potere invocare la tutela risarcitoria dell'art. 2059 c.c.?
6) Il danno morale costituito dalla sofferenza interiore del paziente che, mentre è ancora in vita, viene a sapere di avere perduto le proprie chances di sopravvivenza in conseguenza di un errore della classe medica alla quale, fra l'altro, è costretto ad affidarsi ulteriormente per sottoporsi alle cure ancora praticabili. Questo tipo di pregiudizio, a tacer d'altro, solleva complesse questioni che attengono all'autonoma risarcibilità del danno morale (soggettivo) rispetto alle altre sfaccettature di danno non patrimoniale, problema che come noto è stato assai recentemente riaperto da alcuni arresti della Suprema Corte sui quali non è possibile soffermarsi in questa sede.
7) Da ultimo, non va dimenticato come possano prospettarsi anche danni di natura patrimoniale qualora si dimostri che il paziente, nel periodo di vita che gli è stato sottratto e/o ha vissuto in condizioni peggiori di quelle che sarebbero state possibili affrontando per tempo la malattia, avrebbe potuto realizzare determinati guadagni, per esempio proseguendo l'attività lavorativa che ha invece interrotto a causa della malattia.
Per quanto poi concerne le pretese risarcitorie avanzate dai congiunti iure proprio, viene in rilievo il danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale – anche se taluni ritengono che sarebbe più corretto parlare di un danno da perdita della chance di rapporto parentale, ovverosia della possibilità di continuare a godere della presenza del congiunto per un tempo maggiore – cagionato dalla morte anticipata del familiare. Questo tipo di pregiudizio viene quantificato prendendo come riferimento le tabelle elaborate dai Tribunali per il risarcimento del danno da uccisione e riducendo le somme ivi previste in ragione del fatto che, nei casi in esame, l'autore dell'illecito non ha cagionato la morte della vittima, bensì l'ha privata di una possibilità di maggiore sopravvivenza. Anche sul modo in cui detta riduzione dev'essere effettuata manca unità di vedute: talvolta si procede in via prettamente equitativa; altre volte viene invece considerato il coefficiente percentuale di consistenza della chance perduta; in alcune occasioni ancora, infine, si ritiene necessario scendere al di sotto della metà dei valori tabellari presi a riferimento, pur senza indicare il fondamento di questa soluzione. Danno da perdita di chances di sopravvivenza e danno tanatologico
In controtendenza rispetto a tutto quanto finora detto si muove un recente orientamento della giurisprudenza di merito che, facendo propria un'idea già presente in dottrina, ha negato la risarcibilità del danno da perdita di chance di sopravvivenza muovendo dalla tesi, da lungo tempo prevalente in giurisprudenza (specie di legittimità) e da ultimo ribadita da una pronuncia delle Sezioni Unite del 2015, che nega la trasmissibilità iure hereditario del c.d. danno tanatologico, vale a dire del danno costituito dalla morte della vittima dell'illecito avvenuta in concomitanza dell'evento lesivo (o a brevissima distanza di tempo dallo stesso). Questo indirizzo, per la precisione, ha sostenuto che, se si riconoscesse la risarcibilità della perdita di chance di sopravvivenza, bisognerebbe a maggior ragione risarcire anche la perdita della certezza di sopravvivere, che altro non è che il diritto alla vita: ma non essendo il danno tanatologico risarcibile secondo la giurisprudenza di legittimità, dev'essere allora negata pure la risarcibilità della perdita di chance di sopravvivenza.
Nelle ipotesi in cui verrebbe in rilevo questo tipo di danno, sempre secondo questo orientamento, andrebbe piuttosto riconosciuto, oltre ovviamente al risarcimento dei danni iure proprio, il risarcimento iure hereditario di altre tipologie di pregiudizi subiti dal paziente durante il periodo di più breve sopravvivenza, quali: il danno biologico costituito dalle peggiori condizioni psicofisiche in cui il paziente si è trovato a vivere rispetto a quelle che sarebbero state possibili diagnosticando e trattando la malattia per tempo; il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione in merito alle proprie scelte esistenziali relative a come sfruttare il periodo di vita residua; il danno morale rappresentato dalla sofferenza che il paziente prova di fronte alla prospettiva di un decesso maggiormente certo e maggiormente imminente a causa della mancata diagnosi e cura della patologia.
L'approccio che pone la questione del danno da perdita di chance di sopravvivenza in relazione con quella del danno tanatologico appare senza dubbio condivisibile, ma il profilo meriterebbe di essere maggiormente approfondito, in quanto non appare così immediato dedurre dalla negazione del secondo l'irrisarcibilità pure del primo: piuttosto, bisognerebbe verificare se gli argomenti portati dalla Cassazione contro la risarcibilità del danno tanatologico – che a loro volta rappresentano, come noto, oggetto di ampio dibattitto – costituiscano o meno ostacolo pure alla risarcibilità del danno da perdita di chance di sopravvivenza.
Su questi aspetti non è possibile soffermarsi in questa sede, ma si pensi, per fare solo un esempio, al tradizionale argomento contrario alla risarcibilità del danno tanatologico fondato sull'impossibilità, per il soggetto che viene ucciso, di acquisire un credito risarcitorio da trasmettere agli eredi in conseguenza della contemporanea perdita della capacità giuridica: questo ragionamento non pare ostacolare la risarcibilità del danno da perdita di chance di sopravvivenza, perché quando quest'ultima viene distrutta il soggetto rimane in vita ed è, pertanto, in grado di acquistare il relativo diritto al risarcimento che i suoi eredi potranno successivamente acquisire in via successoria. In conclusione
L'analisi degli orientamenti giurisprudenziali in tema di risarcimento del danno da perdita di chances di sopravvivenza restituisce un quadro disordinato e frammentario, che in particolare mostra grande confusione con riguardo all'individuazione e alla quantificazione dei pregiudizi risarcibili in capo agli eredi e ai congiunti della vittima coinvolta in questa sempre più nutrita casistica di responsabilità sanitaria. Al fine di evitare il rischio di indebite duplicazioni risarcitorie questo stato dell'arte dev'essere senz'altro fatto oggetto di un'accurata opera di ripensamento e risistemazione, la quale dovrà altresì tenere conto della necessità di coordinare le soluzioni che vengono elaborate in questo campo con quelle affermatesi nella contigua e da più lungo tempo approfondita questione attinente alla risarcibilità del danno tanatologico.
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