Inosservanza del termine per il deposito delle comparse conclusionali e lesione in concreto del diritto di difesa

27 Novembre 2018

Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte ha affrontato la seguente questione: quali sono le conseguenze processuali nel caso in cui la sentenza sia depositata prima della scadenza del termine previsto per il deposito delle comparse conclusionali?
Massima

La sentenza la cui deliberazione risulti anteriore alla scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. non è automaticamente affetta da nullità, occorrendo dimostrare la lesione concretamente subita in conseguenza della denunciata violazione processuale, indicando le argomentazioni difensive – contenute nello scritto non esaminato dal giudice – la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di determinare una decisione diversa da quella effettivamente assunta.

Il caso

Un automobilista proponeva ricorso al giudice di pace avverso un accertamento relativo alla violazione del codice della strada eccependo la mancata notifica nel termine di 150 giorni dall'accertamento della infrazione. Il giudice onorario rigettava il ricorso, e la relativa sentenza era confermata anche dal giudice del gravame. Proposto ricorso in Cassazione, il ricorrente si doleva che il giudice di appello aveva deciso senza concedere il termine per lo scambio delle comparse conclusionali e memorie di replica. La Corte di cassazione – sul presupposto delle necessità di salvaguardare la ragionevole durata del processo – rigettava il ricorso evidenziando che nel caso di specie non aveva dimostrato che il mancato deposito delle comparse conclusionali aveva impedito di svolgere ulteriori specificazioni a sostegno della propria domanda.

La questione

La questione in esame è la seguente: quali sono le conseguenze processuali nel caso in cui la sentenza sia depositata prima della scadenza del termine previsto per il deposito delle comparse conclusionali?

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia in commento aderisce all'orientamento di legittimità, certamente minoritario, secondo cui occorre allegare e provare che, dalla violazione della norma processuale, sia derivato un tangibile pregiudizio al pieno svolgimento del diritto di difesa (Cass. civ., n. 7086/2015; Cass. civ., n. 4040/2006; Cass. civ., n. 17133/2003).

In particolare, la sola violazione delle norme processuali non determina automaticamente la lesione del diritto di difesa, essendo necessaria la prova che l'atto non depositato e, dunque non esaminato dal giudice, sia potenzialmente e ragionevolmente idoneo a far pronunciare una decisione diversa da quella concretamente assunta dal giudice.

Pertanto, ai fini della nullità della sentenza, non è sufficiente il mero dato temporale, ossia la decisione anticipata del giudice, ma è necessario dimostrare che l'impossibilità di assolvere all'onere del deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica abbia impedito di svolgere, a sostegno delle proprie domande o eccezioni, ulteriori e rilevanti aggiunte rispetto a quanto già in precedenza indicato (Cass. civ., n. 4030/2006, ad avviso della quale è indispensabile, infatti, al riguardo – perché possa dirsi violato il principio del contraddittorio, con conseguente nullità della pronunzia emessa – che la irrituale conduzione del processo abbia prodotto in concreto una lesione del diritto di difesa).

Non è sufficiente indicare il dato puro e semplice del mancato rispetto dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., ma va dimostrata la lesione concretamente subita, magari individuando una o più argomentazioni difensive, contenute nello scritto depositato successivamente alla data della decisione, la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di condurre il giudice ad una decisione diversa da quella effettivamente assunta.

A sostegno di questa ricostruzione è richiamata la sentenza delle Sezioni Unite n. 3758/2009, la quale afferma che la lesione delle norme processuali richiede pur sempre la dimostrazione circa l'esistenza di un effettivo pregiudizio per la parte.

Tale formante giurisprudenziale dalla valorizzazione dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, consegue che la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé e che, per la declaratoria di nullità della sentenza, è indispensabile fornire la prova dell'effettivo pregiudizio al diritto di difesa.

Inoltre non sarebbe sufficiente dimostrare come il mancato rispetto dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. abbia semplicemente impedito alla difesa di svolgere ulteriori e rilevanti aggiunte o specificazioni a sostegno delle proprie domande e/o eccezioni ma, occorrerebbe altresì dimostrare come, ragionevolmente, la mancanza della riferita omissione avrebbe probabilmente condotto il giudice ad una decisione diversa da quella effettivamente assunta: dimostrazione aggiuntiva che rende più gravoso l'onere probatorio di chi deduce tale violazione processuale.

Come precisato tale orientamento è nettamente minoritario.

Infatti, per la posizione prevalente di legittimità la sentenza pronunciata prima dello spirare del termine ex art. 190 c.p.c. è da considerare nulla per violazione del diritto di difesa. In particolare, il Supremo Collegio afferma che la sentenza così pronunciata non è idonea al raggiungimento del suo scopo, ovvero quello di emettere una decisione (anche) sulla base dell'illustrazione definitiva delle difese che le parti possono svolgere proprio attraverso gli atti in questione (Cass. civ., n. 16865/2017; Cass. civ., n. 24636/2016 per la quale in caso di mancata concessione dei termini ex art. 190 c.p.c., la sentenza sarebbe affetta da nullità processuale, dal momento che nell'ambito del processo civile, la mancata assegnazione dei termini, in esito all'udienza di precisazione delle conclusioni, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie finali di replica ai sensi dell'art. 190 c.p.c., costituisce motivo di nullità della conseguente sentenza, impedendo ai difensori delle parti di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa, con conseguente violazione del principio del contraddittorio; Cass. civ., n. 20180/2015; Cass. civ., n. 5590/2011; Cass. civ., n. 7760/2011; Cass. civ., n. 7072/2010; Cass. civ., n. 14657/2008; Cass. civ., n. 20142/2005), il quale fa leva sul principio del contraddittorio e sul diritto delle parti a svolgere le proprie attività difensive in modo completo in relazione alle diverse fasi processuali individuate dal codice di rito, affermando così la pari dignità processuale degli atti introduttivi e di quelli finali del giudizio. Per questo motivo, si deve ritenere che l'art. 190 c.p.c. descriva una delle necessarie fasi processuali che devono precedere la decisione della causa, la cui mancanza determina la nullità del procedimento (art. 156, comma 2, c.p.c.) e, conseguentemente, della sentenza (art. 159, comma 1, c.p.c.) per violazione del diritto di difesa.

Del resto, se è indubitabile che la comparsa conclusionale e, a maggior ragione, la memoria di replica, hanno la sola funzione di chiarire le domande ed eccezioni già ritualmente proposte e non possono contenerne di nuove sicché, ove prospettate per la prima volta, il giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo (Cass. civ., n. 315/2012; Cass. civ., n. 5478/2006; Cass. civ., n. 13165/2004), tuttavia, tali atti processuali assolvono pur sempre ad una funzione difensiva, altrimenti la loro esplicita previsione normativa sarebbe stata inutile.

Sicché per l'orientamento prevalente, il principio del contraddittorionon è riferibile solo all'atto introduttivo del giudizio, ma deve realizzarsi nella sua piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo e, quindi, anche con riferimento ad ogni atto o provvedimento ordinatorio, in relazione al quale si ponga l'esigenza di assicurare la presenza in causa e la diretta difesa di tutti gli interessati alla lite.

Da ciò consegue la violazione del principio de quo, determinando la nullità della sentenza emessa, il giudice che decida la causa prima della scadenza dei termini dal medesimo fissati, ex art. 190 c.p.c., impedendo, in tal modo al procuratore di una parte di svolgere nella sua completezza il proprio diritto di difesa e ciò senza che, ai fini della deduzione della nullità con il mezzo di impugnazione, la parte sia onerata di indicare se e quali argomenti non svolti nei precedenti atti difensivi avrebbe potuto svolgere ove le fosse stato consentito il deposito della conclusionale.

Secondo questa ricostruzione, quindi, la violazione dei termini ex art. 190 c.p.c. determina automaticamente la lesione del diritto di difesa, senza necessità per la parte di dover dimostrare di aver subito una concreta lesione del diritto stesso; questo perché dalla fissazione di termini perentori – quali quelli ex art. 190 c.p.c. – discende una valutazione legale tipica, in virtù della quale la violazione degli stessi determina una compressione in re ipsa delle facoltà difensive delle parti, che non deve essere né allegata, né provata dalla parte che la eccepisce, essendo la stessa già operata in astratto ed ex ante dal legislatore.

Osservazioni

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte si colloca nel solco minoritario che fa leva sul principio della lesività in concreto delle nullità.

Tale principio trova la propria fonte di legittimazione nel principio costituzionale della ragionevole durata del processo e nella sua implicazione operativa dell'efficienza processuale: invero, una nullità che non produce alcun danno in concreto (quindi, siamo in presenza di una nullità tipica, ma non lesiva) non accresce la giustizia del processo, ma ne mina la sua ragionevole durata.

E tale orientamento trova ulteriore legittimazione nella giurisprudenza della Corte EDU il cui diritto vivente – formatosi attraverso reiterate conformi affermazioni – è nel senso che le violazioni del diritto di difesa non devono essere ipotetiche e virtuali, ma effettive e concrete.

Ma l'indirizzo che qui si confuta – valido in linea di principio – soffre una vistosa eccezione nel caso di violazione di termini perentori fissati dalla legge.

Qui la lesività è in re ipsa e non deve essere accertata in concreto e caso per caso per la semplice ragione che è il legislatore a fissare tale lesività.

In altri termini, nel momento in cui il legislatore fissa un termine perentorio ha evidentemente giudicato che un termine inferiore lederebbe il diritto di difesa.

Si tratta di una valutazione legale tipica che è implicita in ogni fissazione di termini perentori.

Altrimenti la perentorietà del termine non avrebbe alcun senso giuridico.

In conclusione, risponde alla logica del giusto processo e della sua ragionevole durata ancorare – in linea di principio – la nullità alla lesione in concreto del diritto di difesa: con la conseguenza radicale che – in mancanza di lesività – viene a mancare l'interesse ad eccepire la nullità (siamo in presenza, per così dire, di una nullità inerte, in quanto improduttiva di danno).

Ma questo principio va derogato nel caso dei termini a difesa perché in questi casi il legislatore – con valutazione legale tipica ancorata ai principi di razionalità e normalità (cioè il legislatore ritiene secondo l'id quod plerumque accidit che termini inferiori pregiudichino l'effettività della difesa) – ha stabilire in astratto e una volta per tutte che la violazione del termine produce la lesione del diritto di difesa.

In definitiva, nel caso dei termini a difesa, il giudizio sul danno alla difesa è fatto dal legislatore e non dal giudice.

É quindi in re ipsa: la violazione automaticamente comporta la lesione del diritto di difesa, lesione che non ha bisogno di essere provata dalla parte che la eccepisce.

In altri termini, a seguire l'orientamento minoritario, il giudizio sull'efficienza causale della violazione processuale verrebbe nella sostanza duplicato, dovendo aggiungersi la relativa valutazione del giudice a quella, già effettuata ex ante e in astratto, dello stesso legislatore: nel caso in cui la norma preveda la (doverosa) concessione di termini perentori da parte del giudice entro i quali le parti hanno facoltà di svolgere una specifica attività difensiva, è di tutta evidenza che la loro mancata concessione, ovvero la loro violazione (ad esempio, come nella specie, con l'emissione della sentenza senza concessione dei termini per il deposito delle comparse conclusionali) non può che comportare in re ipsa la compressione delle relative facoltà difensive delle parti medesime, con conseguente nullità processuale. Ciò proprio perché il legislatore ha effettuato, sul piano generale, una valutazione sulla consequenziale lesione del diritto di difesa, che non deve essere né allegata, né provata da chi la eccepisce, non restando essa demandata alla ponderazione del giudice.

Guida all'approfondimento
  • Asprella C., Osservazioni su un caso di decisione di primo grado prima della scadenza del termine per le conclusionali, sanatoria in appello e Cassazione con rinvio, in Giust. civ., 2002, I, 461;
  • Carpi F.- Tarufo M., Commentario breve al codice di procedura civile, Padova, 2015;
  • Gradi M., Vizi in procedendo e ingiustizia della decisione, in Studi in onore di Carmine Punzi, III, Torino, 2008.

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