Indici reddituali del defunto e suo apporto alla famiglia: onere probatorio e obbligo di motivazione del giudice

18 Dicembre 2018

Il notorio, la comune esperienza, i criteri presuntivi e la equità: troppo spesso orfane di dignità giuridica che, invece, la Suprema Corte celebra. La loro importanza per la prova di alcune poste risarcitorie.

Il caso. A causa ed in dipendenza di una malattia professionale, contratta per l'esposizione a polveri ed a sostanze tossiche in assenza di mezzi di protezione predisposti dal datore di lavoro, un uomo decedeva. Inevitabile era la conseguente azione giudiziaria dei suoi congiunti, moglie e figli, finalizzata a veder riconosciuto il proprio diritto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, da fatto illecito. Orbene, se anche in primo grado ed in appello il richiesto risarcimento veniva accordato, la sentenza di secondo grado veniva impugnata presso la Suprema Corte, dagli eredi del lavoratore defunto, per alcuni vizi della pronuncia relativi –in sostanza- al riconoscimento di alcune voci di danno nonché alla relativa quantificazione. Innanzitutto, i ricorrenti assumevano che la Corte di Appello aveva reso una motivazione non adeguata ai criteri di legge. In particolare, deducevano che la corte territoriale, pur richiamando le tabelle del tribunale di Milano, non aveva fornito alcuna risposta alle critiche avanzate, violando così l'obbligo motivazionale, essendosi limitata a confermare la decisione di primo grado che, a sua volta, si era attestata sui valori intermedi del range in esse fissato, omettendo del tutto di rendere comprensibili le valutazioni articolate in relazione alla sofferenza interiore soggettiva di ciascun congiunto nonché delle ricadute dinamico-relazionali personali che il decesso dell'uomo (rispettivamente, coniuge e padre) aveva determinato alle loro esistenze. Inoltre, essi lamentavano la nullità del procedimento impugnatorio per non essere stati riconosciuti gli interessi compensativi derivanti dal ritardo col quale il debito di valore era stato liquidato. In particolare, censuravano il diniego della detta voce risarcitoria, fondato sulla assenza di prova delle modalità di investimento e, dunque, del lucro cessante che il ritardo avrebbe pregiudicato. Tanto in contrasto –secondo la tesi dei ricorrenti- della giurisprudenza consolidata la quale affermava che la prova del pregiudizio poteva essere raggiunta anche con presunzioni, senza necessità di dimostrare la concreta produttività delle somme liquidate. Da ultimo, ma non meno importante, i ricorrenti eccepivano che la corte territoriale si era limitata ad aderire acriticamente alla motivazione del tribunale che aveva ritenuto che la assenza di prova degli indici reddituali, sui quali rapportare in via presuntiva l'apporto del coniuge deceduto, impediva di riconoscere la posta risarcitoria richiesta.

Possibile la motivazione in appello per relationem se il richiamo è sufficientemente articolato. Il primo motivo veniva ritenuto infondato. Gli Ermellini ricordano che sotto il profilo dell'obbligo motivazionale esiste il dovere, per il giudice di merito, di tener conto a fini risarcitori di ‘tutte le conseguenze' derivanti al pregiudizio subìto, seppur con il ‘concorrente limite' di evitare duplicazioni risarcitorie e di non oltrepassare la soglia minima di apprezzabilità. Ma con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte rammenta che ciò può essere correttamente realizzato dal giudice di appello anche attraverso il richiamo, sufficientemente articolato, alle statuizioni della sentenza di primo grado, purché il rinvio venga operato in maniera tale da rendere possibile il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e della identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio.

Interessi compensativi e svalutazione monetaria: la prova. La critica mossa dai ricorrenti con riferimento a questo aspetto, viene accolta. Gli Ermellini ricordano che, anche in passato con un orientamento consolidato, è stato chiarito che qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata per equivalente (cioè con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito) e tale valore venga poi espresso in termini monetari, che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno che questo provi essere stato provocato dal ritardo nel pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte, e riconosciuta dal giudice, mediante criteri presuntivi ed equità, qual è –ad esempio- l'attribuzione degli interessi ad un tasso stabilito, valutando tutte le circostanze oggettive e soggettive del caso. In siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati dalla data dell'illecito sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento a singoli momenti, da stabilirsi in concreto e secondo le circostanze del caso, con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria od in base ad un indice medio. Gli Ermellini precisano ulteriormente che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito è implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria, quali componenti indispensabili del risarcimento tra loro concorrenti, attesa la diversità delle rispettive funzioni, e che il giudice di merito deve attribuire gli uni e l'altro (anche se non espressamente richiesti) pure in grado di appello, senza perciò solo incorrere in ultrapetizione. Secondo la Suprema Corte, pertanto, la corte territoriale aveva errato nel rigettare il motivo di appello col quale la sentenza del tribunale era stata censurata per l'omesso riconoscimento degli interessi compensativi, statuito –in sostanza- sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale non condiviso ormai da tempo.

La posta risarcitoria correlata al contributo reddituale del coniuge defunto: il fatto notorio e la comune esperienza. Da ultimo, con riferimento alla critica sulla motivazione del tutto apparente della corte di appello, circa la assenza di prova degli indici reddituali sui quali rapportare in via presuntiva l'apporto del coniuge deceduto alla di lui consorte/ricorrente, la Suprema Corte ne conferma la fondatezza. Infatti, secondo gli Ermellini risulta erroneo il fatto che i giudici di appello, su questa specifica censura, abbiano confermato la situazione del tribunale (di rigetto della posta risarcitoria) assumendo che non erano stati offerti elementi utili alla configurazione della rispettiva posizione economica, così da poter calcolare almeno in via presuntiva il contributo reddituale ricevuto e ricevibile dal coniuge. Tuttavia, così facendo, la corte territoriale ha omesso di considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal coniuge di una persona deceduta a seguito di un fatto illecito, e ravvisabili nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che il defunto avrebbe presumibilmente portato, assumono l'aspetto del lucro cessante. Con riferimento ad essi, il relativo risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più incognite, costituite dal futuro apporto economico tra i coniugi e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata al coniuge. La prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta di dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge. Oppure avrebbe apportato allo stesso utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno. Nel caso di specie risultava provato che il defunto svolgeva un'attività lavorativa remunerata ed era incontestato che con essa egli contribuiva al mantenimento della famiglia. Il danno patrimoniale, pertanto, secondo la Corte deve essere liquidato sulla base di una valutazione equitativa circostanziata che tenga conto della rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale, dall'altro.

(FONTE: dirittoegiustizia.it)

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