I limiti al diritto di recesso del datore di lavoro in caso di inidoneità sopravvenuta alla mansione

Luisa Rocchi
14 Gennaio 2019

Il potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità della mansione del lavoratore incontra numerosi limiti elaborati a seguito di un lungo processo interpretativo.L'organizzazione aziendale, inizialmente considerata intangibile, è stata oggetto di una rivisitazione ad opera della Suprema Corte, dando attuazione a quanto previsto dalla normativa comunitaria e dagli arresti delle Corte di Giustizia, ispirati al rispetto del principio di uguaglianza sostanziale e di parità di trattamento...
Massima

Il potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità della mansione del lavoratore incontra numerosi limiti elaborati a seguito di un lungo processo interpretativo.

L'organizzazione aziendale, inizialmente considerata intangibile, è stata oggetto di una rivisitazione ad opera della Suprema Corte, dando attuazione a quanto previsto dalla normativa comunitaria e dagli arresti delle Corte di Giustizia, ispirati al rispetto del principio di uguaglianza sostanziale e di parità di trattamento.

Ciò ha consentito di affermare da un lato l'ampliamento del concetto di repechage e, dall'altro, che il potere di recesso possa essere legittimamente esercitato soltanto qualora sussista un aggravio eccessivo all'interno dell'organizzazione aziendale anche in riferimento ai compiti assegnati agli altri lavoratori.

I limiti in tema di recesso del datore di lavoro: l'obbligo di repechage

Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore viene ricondotto nell'alveo del recesso per giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, l. n. 604 del 1966, sebbene trattasi di fattispecie inerente la persona del lavoratore.

Si considera ormai superata la qualificazione di tale licenziamento quale impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui all'art. 1256 e 1463, c.c., in quanto tali rimedi di diritto comune troverebbero applicazione soltanto in via residuale (Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755), escludendo così la risoluzione di diritto del rapporto di lavoro (la recente giurisprudenza ha affermato la nullità della clausola del contratto collettivo che prevedeva la risoluzione del rapporto di lavoro, così Cass. 21 luglio 2017, n. 18020).

Tra le problematiche che hanno avuto ad oggetto tale forma di licenziamento, vi è l'individuazione dei limiti del potere datoriale di recedere in caso di sopravvenuta inidoneità alla mansione e sul corretto bilanciamento dei principi di libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41, Cost. con gli artt. 4, 35 e 36, Cost.

La riconduzione di tale particolare ipotesi di licenziamento nell'egida dell'art. 3, l. n. 604 del 1966, comporta altresì per il datore di lavoro l'obbligo di rispettare il requisito del repechage.

Tuttavia, la corretta delimitazione del potere datoriale di recesso è un'operazione che richiede l'analisi di una pluralità di fonti normative incise profondamente da quanto emerso in sede sovranazionale, nonché dall'opera interpretativa della giurisprudenza che negli ultimi anni ha ulteriormente circoscritto il potere di recesso.

Invero, la soluzione al quesito necessita del coordinamento tra la l. n. 68 del 1999, in materia di diritto al lavoro dei disabili, la normativa antidiscriminatoria di cui al d.lg. n. 216 del 2003, che ha dato attuazione alla direttiva 2000/78/CE, per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, nonché gli artt. 2087, c.c., e 42, d.lgs. n. 81 del 2008, i quali prescrivono in capo al datore di lavoro l'onere di adibire il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato di salute.

A monte di tali fonti normative, si pone la nota pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la quale affermò il principio secondo cui il datore di lavoro doveva adibire il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione all'”attività riconducibile – alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103, c.c.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile dall'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore”.

Si afferma così, per la prima volta, l'obbligo in capo al datore di lavoro di adibire il lavoratore ad una collocazione idonea col suo stato di salute, finanche a mansioni inferiori.

Ciò, tuttavia, non poteva comportare la modificabilità dell'assetto organizzativo dell'impresa in quanto era “insindacabilmente stabilito dall'imprenditore” (Cass., sez. un., n. 7755 del 1998, cit.).

La sentenza in esame ha avuto il pregio di estendere la disciplina del repechage all'ipotesi di licenziamento per inidoneità sopravvenuta, poi recepito nelle norme sopra citate, ma ha altresì precisato che il ripescaggio non può comunque comportare la modificabilità dell'assetto organizzativo dell'impresa.

La giurisprudenza che si è sviluppata successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite si è allineata a tale principio, affermando che l'obbligo di repechage non può comportare una modifica della struttura organizzativa tale da dover creare una posizione nuova cui adibire il lavoratore o tale da incidere sulla posizione di altri lavoratori, costretti a trasferimenti o a mutamenti di mansioni non preventivati (Cass. 23 aprile 2010, n. 9700).

Tale principio, seppur pregevole, si scontra da un lato, con la realtà pratica ove sarà il giudice di merito che dovrà valutare la congruità o meno della scelta imprenditoriale al fine di ritenere se la scelta organizzativa sia tale da considerarsi eccessiva e, dall'altro, con quanto previsto dall'ordinamento sovranazionale.

Gli accomodamenti ragionevoli

Tale impostazione, tuttavia, ha dovuto ben presto confrontarsi con la normativa di matrice comunitaria.

Invero, la direttiva 2000/78/CE, all'art. 5, prevede l'obbligo del datore di lavoro di adottare “i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.

Il considerando n. 21 della direttiva 78/2000/CE precisa che per determinare se le misure in questione diano luogo ad oneri finanziari sproporzionati è necessario tener conto dei costi, finanziari e di altro tipo, delle dimensioni e delle risorse finanziarie della organizzazione o della impresa, della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.

Inoltre, l'art. 3 comma 3-bis, introdotto dall'art. 4-ter, l. n. 99 del 2013, a seguito della procedura di infrazione per mancata attuazione della direttiva (C. giust. UE, 4 luglio 2013, C-312/11, Commissione c. Italia) impone a tutti i datori di lavoro, pubblici o privati, di adottare gli “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro.

Tale previsione, volta a garantire il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone disabili, non definisce quali siano gli accomodamenti ragionevoli.

Soccorre in tal senso la Convenzione delle Nazioni Unite, ratificata dall'Italia con la l. n. 18 del 2009, ove all'art. 2, al fine di garantire a tutti i soggetti protetti la piena eguaglianza con gli altri lavoratori, si prevede che per accomodamento ragionevole deve intendersi ogni modifica o adattamento che non impone “un carico sproporzionato ed eccessivo”.

Pertanto, dalla lettura combinata della direttiva comunitaria e della Convenzione delle Nazioni Unite, si deduce che il datore è tenuto ad effettuare ogni ragionevole adattamento, financo di natura organizzativa, con il limite della misura concretamente sproporzionata dei costi finanziari all'uopo necessari.

È bene evidente che a livello comunitario non sussiste, a differenza di quanto emerge nel nostro ordinamento, il limite della intangibilità dell'organizzazione aziendale.

Parimenti emerge che gli accomodamenti ragionevoli previsti dalla direttiva comunitaria, siano necessariamente un elemento che va oltre l'obbligo di repechage come interpretato sino ad ora.

Pertanto, il datore di lavoro dovrà dimostrare non soltanto di non poter adibire il lavoratore ad una mansione equivalente o inferiore, ma dovrà dimostrare che gli adattamenti, anche di natura organizzativa, gli imporrebbero la sopportazione di un onere finanziario irragionevole, vale a dire sproporzionato nel senso precisato dall'art. 5, direttiva 2000/78/CE.

Scendendo più nel dettaglio, la stessa giurisprudenza europea ha fornito elementi utili al fine di dare concretezza a tali affermazioni.

Le pronunce della Corte di giustizia dell'11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/116, e del 4 luglio 2013, Commissione europea c. Repubblica Italiana, C-312/11, in attuazione dei considerando 20 e 21 della direttiva citata, prevedono, invero, che integrino ragionevoli adattamenti la sistemazione dei locali, l'adattamento delle attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, nonché la riduzione dell'orario di lavoro.

Recenti sviluppi giurisprudenziali

La recente giurisprudenza della Suprema Corte ha valorizzato la normativa comunitaria, circoscrivendo la portata dei limiti sussistenti in capo al datore di lavoro, adottando una interpretazione conforme al diritto comunitario, ed ha altresì specificato quali siano i parametri di riferimento al fine del giudizio di ragionevolezza di tali adattamenti.

La Corte di cassazione con la pronuncia 19 marzo 2018 n. 6798, per un caso in cui ratione temporis si applicava la normativa antecedente all'entrata in vigore dell'attuazione della direttiva (sul punto si veda anche Cass. 13 ottobre 2009, n. 21710 e Cass. 10 marzo 2015, n. 4757), ha preso in considerazione quale parametro di riferimento gli “oneri a carico del datore di lavoro e le implicazioni sulle altre posizioni di lavoro”.

Sebbene il primo elemento non costituisca una novità, di maggior pregio appare l'ulteriore riferimento agli altri lavoratori, consentendo così di affermare che non sussiste più l'intangibilità delle posizioni dei colleghi, ma gli stessi possono essere spostati se ciò non arrechi un pregiudizio eccessivo, in conformità a quanto previsto dal considerando numero 20 della direttiva prima citata.

Sulla questione è tornata di recente la Suprema Corte con la sentenza 26 ottobre 2018, n. 27243, la quale ha da un lato ridefinito la nozione di “aggravi organizzativi” definiti dalle Sezioni Unite del 1998 e, dall'altro, ha precisato che l'obbligo di ricollocamento deve essere valutato alla stregua del principio di ragionevolezza, trovando quali limiti:

a) l'organizzazione interna dell'impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari;

b) il diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita.

Quanto al primo aspetto, la Suprema Corte, mediante una interpretazione che tiene conto dell'evoluzione interpretativa operata dalla giurisprudenza comunitaria, precisa che gli oneri organizzativi debbano essere “eccessivi”.

Non vi è dubbio che la Suprema Corte abbia voluto restringere ulteriormente il potere di rifiuto del datore di lavoro, imponendogli un onero maggiore.

La Suprema Corte non abbandona tout court il limite dell'organizzazione aziendale dell'imprenditore, ma ad ogni modo ne circoscrive ulteriormente la portata specificando che l'onere organizzativo, ai fini del legittimo rifiuto della prestazione della residua capacità lavorativa, deve essere eccessivo.

Anche se tale precisazione ha suscitato tra i primi commentatori qualche incertezza applicativa, senza dubbio rimessa alla valutazione del giudice di merito, la stessa Suprema Corte ha la premura di indicare i parametri di riferimento, richiamando al fine del giudizio di eccessività degli oneri non soltanto le risorse finanziarie dell'impresa, ma anche le peculiarità dell'azienda.

Quanto al punto b), fuor dubbio che in base al principio di ragionevolezza non si può ritenere gravante in capo al datore di lavoro l'obbligo di modificare le mansioni in pejus degli altri lavoratori, o addirittura spingersi sino a licenziare i predetti.

Il datore di lavoro, infatti, può legittimamente esercitare il diritto di recesso se comporta un “apprezzabile modificazione” delle mansioni dei colleghi dell'invalido dalla quale ne deriva un'alterazione all'organizzazione aziendale, tale da considerarsi, in base alle affermazioni precedentemente svolte, inevitabilmente “eccessiva” e non meramente gravosa.

La Suprema Corte dunque con tale sentenza valorizza un dato che non pare trascurabile, e cioè l'esperienza e la professionalità acquisita.

Si potrebbe pertanto sostenere che integri un'apprezzabile modificazione l'adibizione che esula dalla esperienza e dal bagaglio professionale acquisito dal lavoratore.

In tal modo la professionalità dei lavoratori, nell'ottica del datore di lavoro, diviene un'area di protezione, un elemento a tutela dell'assetto organizzativo dell'impresa.

Non pare peregrino, allora, pensare che tale affermazione rievochi il concetto di equivalenza di cui all'art. 2103, c.c., vecchio testo, e ci si potrebbe chiedere se una simile argomentazione possa trovare applicazione ancora oggi, ove la tutela della professionalità del lavoratore è stata superata dall'equivalenza meramente formale.

Si potrebbe sostenere che il datore di lavoro possa invocare la tutela della professionalità al fine di ritenere legittimo il diritto di recesso, con l'ovvia consapevolezza che lo steso possa pur sempre esercitare successivamente lo ius variandi.

Tuttavia, anche se il contesto normativo è mutato, valorizzando il principio di ragionevolezza più volte richiamato dalla stessa giurisprudenza, non si può ritenere che al datore di lavoro sia imposto un obbligo di modificare le mansioni assegnate agli altri lavoratori che comportino uno stravolgimento tout court dei compiti a loro assegnati. Ciò può derivare soltanto dall'esercizio del poter datoriale, anche perché, diversamente, l'assunto si scontrerebbe con il limite degli oneri organizzativi eccessivi.

In conclusione

L'evoluzione normativa e interpretativa che ha avuto ad oggetto i limiti al potere datoriale di recesso, consente senza dubbio di evidenziare un enorme restringimento dell'area di recedibilità, soggetta oggi ad una pregnante valutazione.

L'insindacabilità dell'organizzazione aziendale ha ormai ceduto il passo ad una valutazione omnicomprensiva dell'organizzazione aziendale rimessa alla valutazione del giudice di merito, che in conformità a quanto previsto dall'ordinamento sovranazionale consente il licenziamento soltanto a fronte di adattamenti che incidono in modo rilevante (rectius eccessivo) sull'assetto stabilito dall'imprenditore.

La valutazione, andrà pertanto effettuata non soltanto verificando la possibilità di adibire il lavoratore disabile a mansioni equivalenti o inferiori, ma occorrerà verificare se il datore di lavoro potrà procedere a ragionevoli adattamenti che non provochino oneri finanziari eccessivi, in quanto sproporzionati, tra i quali vi rientra anche la possibilità di incidere sulla posizione degli altri lavoratori.

Guida all'approfondimento

M. Panci, Licenziamento per inidoneità psico-fisica e per superamento del periodo di comporto, in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale: privato e pubblico, a cura di G. Santoro-Passarelli, 2017.

F. Spena, Tutela antidiscriminatoria del lavoratore disabile nel diritto dell'Unione europea e implicazioni nel licenziamento per inidoneità sopravvenuta alle mansioni, in Giudici e cambiamenti del diritto del lavoro, a cura di A. Ciriello, 2018, 35 ss.

A. Zani, La Corte di cassazione ritorna sulla definizione dei limiti delle tutele riconosciute al lavoratore disabile, il Giuslavorista.it

R. Voza, Sopravvenuta inidoneità psicofisica e licenziamento del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, in Arg. dir. lav., 2015, 4-5, 771 ss.

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