Responsabilità processuale aggravata e danno punitivo

Cesare Trapuzzano
23 Gennaio 2019

L'art. 45, comma 12, l. 18 giugno 2009, n. 69 ha introdotto il comma 3 dell'art. 96 c.p.c., dedicato alla responsabilità processuale aggravata, con decorrenza dal 4 luglio 2009, ossia per le controversie instaurate successivamente a tale data. Secondo la previsione aggiuntiva, il giudice, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Inquadramento

L'art. 45, comma 12, l. 18 giugno 2009, n. 69 ha introdotto il comma 3 dell'art. 96 c.p.c., dedicato alla responsabilità processuale aggravata, con decorrenza dal 4 luglio 2009, ossia per le controversie instaurate successivamente a tale data. Secondo la previsione aggiuntiva, il giudice, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. La norma deve essere letta congiuntamente al comma 1, che ammette la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale ove risulti che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, all'esito della corrispondente istanza della controparte interessata.

Sicché dalla comparazione dei due commi si ricava che, per un verso, la condanna al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità processuale aggravata presuppone l'istanza di parte, benché la liquidazione possa avvenire anche d'ufficio e, per altro verso, la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata può avvenire anche d'ufficio. Nella prima ipotesi si tratta, per espressa indicazione del legislatore, di una fattispecie speciale di condanna a scopo ristoratorio dei pregiudizi che la condotta processuale della parte soccombente ha cagionato nella sfera giuridico-patrimoniale della parte vittoriosa; nella seconda, non vi è alcun riferimento alla natura della condanna, essendo rimesso al potere, anche officioso, del giudice il riconoscimento di una somma determinata in via equitativa, volta a sanzionare il contegno processuale temerario assunto dalla parte soccombente. La nuova norma ha una chiara finalità deflattiva, mirando la previsione di tale strumento processuale, di cui il giudice può avvalersi anche d'ufficio, ad inibire, da un lato, l'instaurazione di liti avventate, arbitrarie, pretestuose - come tali prive di alcun fondamento fattuale o giuridico - e, dall'altro, la resistenza avverso contenziosi palesemente fondati.

Per l'effetto, elementi caratterizzanti della fattispecie enucleata dal comma 3 dell'art. 96 c.p.c. sono: il potere anche officioso di disporre detta condanna, la sua attinenza al pagamento di una somma equitativamente determinata, l'individuazione del destinatario della condanna nella parte totalmente soccombente e del suo beneficiario nella parte privata che abbia vinto la causa, non già nell'erario, la refusione delle spese di lite a totale carico del soccombente. Per converso, la norma di nuovo conio non individua né la condotta oggettiva che legittima la condanna né l'elemento subiettivo che la giustifica. Siffatti elementi possono essere ricercati, per relationem, nel comma 1, almeno secondo l'opinione prevalente, con la conseguenza che, affinché una simile condanna possa essere disposta, è necessario che vi sia un comportamento sintomatico della categoria dell'abuso del processo, connotato sul piano soggettivo dal dolo o dalla colpa grave.

Sotto il profilo funzionale, premesso che alla condanna di cui al comma 3 non può essere attribuita un'esclusiva valenza risarcitorio-riparatoria, poiché altrimenti la norma ricalcherebbe, con un'inutile ripetizione, lo schema della responsabilità aggravata già esaustivamente delineato dal comma 1, si dubita se ad essa debba essere riconosciuta una natura esclusivamente sanzionatoria, punitiva, afflittiva, in chiave deflattiva del contenzioso in essere, sul modello dell'irrogazione delle pene private di contenuto pecuniario, ovvero una funzione composita, sanzionatoria e al contempo indennitaria, atta a scoraggiare l'instaurazione di liti temerarie e a “indennizzare” la parte vincitrice del nocumento equitativamente determinabile che il contegno processuale abusivo ha provocato. Al riguardo, la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, comma 3, c.p.c., impugnato, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che la condanna del soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata avvenga in favore della controparte, anziché dell'erario. E ciò perché, introducendo tale disposizione, la l. n. 69 del 2009 ha constatato che l'istituto della responsabilità aggravata (regolato ai commi 1 e 2 dell'art. 96), pur rappresentando in astratto un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie e, quindi, uno strumento efficace di deflazione del contenzioso, nella prassi applicativa risultava scarsamente utilizzato a causa dell'oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno derivante dall'illecito processuale. Pertanto, la previsione de qua ha natura non tanto risarcitoria del danno cagionato alla controparte dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, aggravando il volume del contenzioso. Il che, sul piano testuale, sarebbe, tra l'altro, confermato dal riferimento al “pagamento di una somma”, che segna una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni” di cui ai precedenti commi del medesimo articolo, e dall'adottabilità della condanna “anche d'ufficio”, che la sottrarrebbe all'impulso di parte e ne attesterebbe la finalizzazione alla tutela di un interesse trascendente quello della parte stessa e colorato di connotati pubblicistici. Ad avviso del Giudice delle leggi, la ragionevolezza della soluzione auspicata dal rimettente - secondo cui tale condanna sanzionatoria e officiosa per l'offesa arrecata alla giurisdizione dovrebbe essere disposta a favore dello Stato - non comporta, tuttavia, l'irragionevolezza della diversa soluzione normativa. Infatti, la motivazione che ha indotto il legislatore a porre a favore della controparte la condanna del soccombente è plausibilmente ricollegabile all'obiettivo di assicurare una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente allo strumento deflattivo, sul verosimile presupposto che la parte vittoriosa possa provvedere alla riscossione in tempi e con oneri inferiori a quelli gravanti su un soggetto pubblico. Ed ancora, la Corte cost. significativamente puntualizza che l'istituto così modulato è suscettibile di rispondere anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata da un'ingiustificata chiamata in giudizio) nelle non infrequenti ipotesi in cui sia per essa difficile provare, ai fini del risarcimento per lite temeraria, l'an o il quantum del danno subito. Ne discende che la novella del 2009, nell'estendere a tutti i gradi di giudizio lo strumento deflattivo, delineato dall'abrogato art. 385, comma 4, c.p.c. per la sola fase di legittimità, non presenta connotati di irragionevolezza, ma riflette una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità, nell'individuare il beneficiario di una misura che sanziona un comportamento processuale abusivo e che funga da deterrente al ripetersi di una siffatta condotta (Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152).

In evidenza

La condanna, anche d'ufficio, per lite temeraria, ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c., pur essendo disposta in favore della parte che abbia vinto la lite, non già a vantaggio delle casse dello Stato, persegue uno spiccato scopo sanzionatorio, nell'intento di scoraggiare comportamenti processuali abusivi, con la conseguenza che la relativa irrogazione prescinde dalla dimostrazione di un danno.

Ai sensi dell'art. 136, comma 2, d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, con decreto il magistrato revoca l'ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal consiglio dell'ordine degli avvocati, se risulta l'insussistenza dei presupposti per l'ammissione ovvero se l'interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Pertanto, l'azione o la resistenza in giudizio, connotati dal requisito della temerarietà, legittimano la revoca del beneficio dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato. La relativa valutazione spetta al magistrato assegnatario della causa. Detta revoca può essere disposta indipendentemente dal passaggio in giudicato della decisione di merito che abbia accertato la condotta processuale abusiva, atteso che l'autorità della sentenza di primo grado, qual è desumibile dall'art. 337 c.p.c., giustifica l'adozione di un provvedimento che si fondi sull'accertamento dei fatti come operato nella stessa e considerato che, ove si negasse la possibilità di adottare immediatamente un provvedimento di revoca a fronte di domande avanzate con mala fede o colpa grave conclamate, sarebbe consentito alla parte di reiterare la condotta abusiva in sede di impugnazione, continuando a beneficiare del patrocinio a spese dello Stato, con possibilità pressoché nulle di recupero delle spese anticipate a tale titolo (Cass. civ., sez. VI-II, ord. 6 dicembre 2017, n. 29144).

Presupposti: soccombenza totale e condanna alle spese

Presupposto indefettibile della condanna per abuso del processo è la soccombenza integrale della parte che ha realizzato l'abuso, cui consegua la disposizione della rifusione dei compensi di lite. Infatti, il legislatore subordina espressamente la disposizione della condanna della parte soccombente, a tale titolo, alla circostanza che vi sia stata la condanna alle spese di lite. Da ciò deriva che la compensazione delle spese di lite esclude, in radice, la possibilità per il giudice di irrogare la condanna per lite temeraria, nonostante l'integrale soccombenza di una delle parti. Tale conclusione vale anche in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, con riguardo al giudizio presupposto, poiché la compensazione delle spese, nonostante la soccombenza del richiedente l'indennizzo, costituisce sicuro indice di non temerarietà della lite, la quale, invece, ove esistente, sarebbe ostativa al riconoscimento dell'indennizzo ex art. 2, l. n. 89 del 2001 (Cass. civ., sez. VI-II, sent. 17 ottobre 2017, n. 24409). Si rammenta, in proposito, che l'indennizzo per irragionevole durata del processo, stante il carattere non tassativo dell'elenco di cui all'art. 2, comma 2 quinquies, della l. n. 89 del 2001, può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel giudizio presupposto, anche in assenza di un condanna, all'esito dello stesso, per responsabilità aggravata, potendo il giudice del procedimento di equa riparazione, già prima della novella apportata dalla l. n. 208 del 2015, autonomamente valutare tale temerarietà, come evincibile dalla lett. f) dello stesso art. 2, comma 2 quinquies cit., che attribuisce carattere ostativo ad ogni altra ipotesi di abuso dei poteri processuali (Cass. civ., sez. II, ord. 13 ottobre 2017, n. 24190; Cass. civ., sez. VI-II, sent. 5 maggio 2016, n. 9100; Cass. civ., sez. VI-II, sent. 19 ottobre 2015, n. 21131). Tale valutazione non è soggetta al sindacato di legittimità motivazionale, per effetto dei limiti introdotti dal nuovo testo dell'art. 360, n. 5, c.p.c., né, ove svolta d'ufficio, è censurabile in cassazione per pretesa violazione dell'art. 112 c.p.c., essendo, al contrario, doverosa, in quanto relativa ad un requisito negativo dell'esistenza del diritto. Per l'effetto, la sentenza con la quale il giudice compensi le spese di lite, indicando le circostanze che integrano i giusti e gravi motivi, contiene una implicita esclusione dei presupposti richiesti per la condanna della parte soccombente al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata e resta quindi sottratta ad ogni censura non solo l'omessa motivazione ma, addirittura, l'omessa pronuncia sull'istanza di risarcimento di tali danni ovvero sull'istanza di pagamento di una somma equitativamente determinata (Cass. civ., sez. I, sent. 30 marzo 2000, n. 3876).

Allo stesso modo, integrando la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. una particolare forma di responsabilità processuale a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, non può farsi luogo all'applicazione della norma nel caso di soccombenza reciproca, come accade ove sia stato richiesto ed ottenuto decreto ingiuntivo, protetto da ipoteca giudiziale, per una somma sostanzialmente pari al doppio del credito accertato definitivamente nel giudizio a cognizione piena (Cass. civ., sez. I, sent. 13 ottobre 2017, n. 24158; Cass. civ., sez. II, sent.14 aprile 2016, n. 7409).

Elemento oggettivo

Il comma 3 dell'art. 96 c.p.c. si limita a regolare i possibili effetti, ossia ammette la condanna, anche d'ufficio, unitamente alla refusione delle spese, della parte soccombente, in favore della controparte, al pagamento di una somma equitativamente determinata, ma non delinea le cause di tale condanna, ossia non contempla la condotta giustificativa della relativa irrogazione. Tale lacuna emerge solo ove la norma sia letta isolatamente, ma essa deve ritenersi sanata nell'ipotesi in cui la norma sia letta in chiave sistematica, ovvero nel contesto di riferimento. Ora, il comma 3 si colloca nell'ambito dell'articolo che disciplina la responsabilità processuale aggravata e il comma 1 espressamente si riporta al comportamento della parte soccombente che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Siffatto contegno è esso stesso quello presupposto dal comma 3, che per questa ragione non individua la condotta che può dar luogo alla condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, trattandosi appunto della medesima condotta che, su istanza di parte, può legittimare la condanna al risarcimento dei danni. Di tale avviso è anche la giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di responsabilità aggravata, la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. presuppone l'accertamento di un fatto illecito, qual è l'abuso del processo, e richiede, pertanto, il necessario riscontro dell'elemento soggettivo della mala fede o della colpa (Cass. civ., sez. III, ord. 30 marzo 2018, n. 7901). D'altro canto, se così non fosse, ossia se il contegno rilevante non fosse individuabile per relationem, la norma sarebbe palesemente incostituzionale, in quanto rimetterebbe all'arbitrio del giudice l'irrogazione di una sanzione pecuniaria, senza che essa si ricolleghi all'integrazione di un comportamento suscettibile di reprimenda o, quantomeno, di biasimo. Il dato letterale e quello sistematico consentono, per contro, di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice, che nel caso di specie si impone.

Ad esempio, ricorre un'ipotesi di responsabilità aggravata nella condotta di un soggetto il quale, abusando dello strumento processuale e percorrendo tutti i gradi di giudizio, chieda il risarcimento di un danno patrimoniale ipotetico, futile e, comunque, di lieve entità, consistente nell'avere ricevuto dieci e-mail indesiderate di contenuto pubblicitario nell'arco di tre anni.

Peraltro, la condotta abusiva sul piano processuale, enucleabile dal tenore letterale del comma 1, costituisce un ampio contenitore, in cui possono convergere molteplici specifici contegni concreti, incauti, artificiosi, in cui detto abuso può tradursi. Rientrano, infatti, nell'abuso del diritto di azione e di difesa tutti i comportamenti imputabili alle parti che si servano dello strumento processuale a fini dilatori o del tutto strumentali, contribuendo così ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti (Trib. Milano, 10 maggio 2017). Ma quantomeno questo ampio contenitore deve delimitare la portata applicativa della norma.

Resta, all'esito, un consistente potere discrezionale del giudice, che dovrà ponderare, rispetto alla fattispecie concreta, se il contegno processuale controverso realizzi o meno un abuso processuale già sul piano oggettivo. Così, con specifico riguardo ai ricorsi di cui alla l. n. 89 del 2001, la proposizione di una pluralità di domande di equa riparazione da parte di soggetti che erano stati parte del medesimo giudizio presupposto non integra, di per sé, un abuso processuale, sanzionabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c., in quanto tale condotta difensiva può essere, in alcuni casi, giustificata dalle circostanze più varie, come, ad esempio, i tempi della dichiarazione di incompetenza da parte delle autorità giudiziarie originariamente adite, ovvero quelli di rilascio della procura speciale per la proposizione del ricorso (Cass. civ., sez. VI-II, sent.28 marzo 2017, n. 8002).

In base all'interpretazione prevalente, il carattere temerario della lite, che costituisce presupposto della condanna al risarcimento dei danni e al pagamento di una somma equitativamente determinata, va ravvisato nella coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta consapevolezza, non già nella mera opinabilità del diritto fatto valere, sicché non ricorrono gli estremi della responsabilità ex art. 96 c.p.c. nella condotta difensiva dell'opponente, che si sia conformato all'orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità al momento di introduzione del giudizio (Cass. civ., sez. I, sent. 9 febbraio 2017, n. 3464; Cass. civ., sez. I, sent. 21 luglio 2000, n. 9579).

Ad esempio, integra i presupposti della responsabilità aggravata la condotta processuale di parte attrice, che deduce l'usurarietà del mutuo sulla base del cumulo adottato tra interessi di mora e interessi corrispettivi, pur essendo a conoscenza del diverso orientamento della giurisprudenza, e che eccepisce l'indeterminatezza e l'indeterminabilità delle clausole relative agli interessi, anche se per tabulas risultano chiaramente i tassi praticati e le modalità di determinazione (Trib. Treviso, 18 aprile 2018).

Permane, in ogni caso, la natura ibrida della previsione: per un verso, a fondamento della natura sanzionatoria dell'istituto, militano il riconoscimento della possibilità del giudice di provvedere d'ufficio, senza l'istanza di parte, e il richiamo alla condanna al pagamento di una somma di denaro; per altro verso, la natura composita della condanna, al contempo afflittiva e indennitaria, parrebbe suffragata dall'individuazione del beneficiario nella parte privata, e non nell'erario, e nell'assenza di una cornice edittale entro cui essa può essere disposta, essendo la quantificazione rimessa alla determinazione equitativa del giudice.

Qualificazione della condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Vera e propria pena pecuniaria, indipendente dalla ricorrenza di un danno

In tema di responsabilità aggravata, l'art. 96, comma 3, c.p.c. (come modificato dall'art. 45, comma 12, della l. n. 69 del 2009) prevede una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato dalla condotta processuale dell'avversario (Cass. civ., sez. I, sent.8 febbraio 2017, n. 3311).

Natura sanzionatoria e officiosa

La condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, ha natura sanzionatoria e officiosa, sicché essa presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa (Cass. civ., sez. VI-II, ord.11 febbraio 2014, n. 3003).

Eterogeneità rispetto alla condanna risarcitoria di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 96 c.p.c.

La facoltà, concessa dall'art. 96 c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009, di liquidare d'ufficio il danno da responsabilità aggravata risponde al criterio generale di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., senza alcuna deroga all'onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a dimostrarne l'effettività: tale facoltà, invero, non trasforma il risarcimento in una pena pecuniaria, né in un danno punitivo disancorato da qualsiasi esigenza probatoria, restando esso connotato dalla natura riparatoria di un pregiudizio effettivamente sofferto, senza assumere, invece, carattere sanzionatorio od afflittivo; tale interpretazione è, altresì, avvalorata dall'art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, il quale ha aggiunto un terzo comma all'art. 96 c.p.c., introducendo una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell'avversario (Cass. civ., sez. I, sent.30 luglio 2010, n. 17902).

Concorrente funzione punitiva e indennitaria

L'istituto regolato dall'art. 96, comma 3, c.p.c. persegue, oltre ad un marcato scopo sanzionatorio, una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata da un'ingiustificata chiamata in giudizio) nelle non infrequenti ipotesi in cui sia per essa difficile provare, ai fini del risarcimento per lite temeraria, l'an o il quantum del danno subito (Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152).

Il danno subito rileva in sede di quantificazione della somma equitativamente determinata

L'ammontare della somma equitativamente determinata deve essere rapportato agli effetti dannosi (di qualsiasi genere, patrimoniali e non) provocati dal comportamento processuale del soccombente (Trib. Roma, 14 novembre 2016).

Natura anfibologica della condanna: lo Stato sanziona mentre il giudice risarcisce

L'anfibologia strutturale si riscontra nella doppia anima dell'istituto: resta un risarcimento (copre un danno “presunto” della parte), ma ha funzione sanzionatoria, poiché il giudice rende la condanna nella consapevolezza degli importanti effetti che essa avrà anche “fuori” dal singolo processo e per rimarcare la disapprovazione per l'utilizzo emulativo dello strumento processuale (Trib. Varese 2 ottobre 2012).

Elemento soggettivo

Il comma 3 non individua neanche l'elemento soggettivo della condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, in aggiunta alla refusione delle spese di lite. Si ritiene che anche questo elemento, tanto più imprescindibile alla stregua della funzione sanzionatoria perseguita dall'istituto, possa essere desunto da una lettura armonizzata con il comma 1, che appunto si riferisce alla mala fede o colpa grave, non trattandosi di un'ipotesi di responsabilità oggettiva. A questa conclusione aderiscono, da ultimo, le Sezioni Unite, secondo cui la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all'esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall'art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un'utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l'accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell'infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell'ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell'iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. civ., Sez. Un., sent. 13 settembre 2018, n. 22405). Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello, che aveva escluso la condanna, nonostante l'artificiosa evocazione in giudizio di una parte, peraltro senza proporre domanda contro di essa, finalizzata a “bloccare” le azioni promosse all'estero, in quanto la pretestuosità avrebbe dovuto essere eccepita dalla stessa parte, invece rimasta contumace.

In senso contrario si erano espressi due arresti della giurisprudenza di legittimità, che avevano configurato la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, come una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta - con finalità deflattive del contenzioso - alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non avrebbe richiesto, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l'aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. civ., sez. III, ord. 12 giugno 2018, n. 15209; Cass. civ., sez. II, sent. 21 novembre 2017, n. 27623).

Nondimeno, l'indirizzo dominante aveva già sostenuto che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del comma 3 dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, ha natura sanzionatoria e officiosa, sicché essa presuppone la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa (Cass. civ., sez. VI-II, ord. 11 febbraio 2014, n. 3003). Alla stregua di detto orientamento, l'accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente è indefettibile, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile (Cass., civ., sez. VI-II, ord. 30 novembre 2012, n. 21570). In questo senso, ai fini della responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., il ricorso per cassazione può considerarsi temerario solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, appalesi consapevolezza della non spettanza della prestazione richiesta o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali (Cass. civ., sez. II, ord. 30 ottobre 2018, n. 27646). Pertanto, la responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3,c.p.c. esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. civ., Sez. Un., sent. 20 aprile 2018, n. 9912).

Condotte sintomatiche dell'elemento soggettivo della mala fede o della colpa grave non si ravvisano soltanto nella consapevolezza della infondatezza in jure della domanda, ma anche nella omessa deduzione di circostanze fattuali dirimenti ai fini della corretta ricostruzione della vicenda controversa (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 21 febbraio 2018, n. 4136) ovvero nella deduzione di circostanze di fatto palesemente non veritiere (Cass. civ., sez. III, sent. 29 settembre 2016, n. 19298). Ed ancora, la colpa grave della parte soccombente deve ritenersi sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, riscontrabile ove, con il ricorso per cassazione, vengano formulate censure basate su di un errore nell'interpretazione di norme sostanziali o processuali in contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ovvero su argomenti non seri o pretestuosi o addirittura incomprensibili oppure riferiti, non alla sentenza impugnata con lo stesso ricorso per cassazione, ma ad una decisione oggetto di una precedente impugnazione (Cass. civ., sez. III, sent. 30 novembre 2017, n. 28657). Nello stesso senso altra pronuncia ha evidenziato che va condannata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e, comunque, abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso (Cass. civ., sez. V, sent. 14 settembre 2016, n. 18057). Oppure tale condanna deve essere disposta quando vengano reiterate tesi giuridiche già reputate infondate dal giudice di merito, riproponendo i medesimi argomenti da quel giudice compiutamente ed analiticamente confutati, senza tenere nella minima considerazione le ragioni per le quali erano state ritenute inaccoglibili e senza sottoporre ad alcuna critica tali ragioni (Cass. civ., sez. III, sent. 30 novembre 2017, n. 28658). Cosicché l'infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità, in quanto contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, costituisce indizio di colpa grave così valutabile in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 22 febbraio 2016, n. 3376). In specie, nel giudizio di cassazione si configura un'ipotesi di colpa grave, quando la parte abbia agito, o resistito, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione (Cass. civ., sez. III, sent. 20 gennaio 2015, n. 817). Ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante “colpa grave”, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici o, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta (Cass. civ., sez. III, sent. 29 settembre 2016, n. 19285).

Rapporto tra parte e difensore

La condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, a titolo di responsabilità aggravata per l'integrazione di un abuso processuale imputabile a dolo o colpa grave, deve essere posta a carico della parte soccombente e non del suo difensore. Ne discende che il ricorso per cassazione proposto malgrado la conoscenza o l'ignoranza gravemente colposa della sua insostenibilità è fonte di responsabilità dell'impugnante, per avere questi agito - e, per lui, il suo legale, del cui operato il primo risponde verso la controparte processuale ex art. 2049 c.c. - sapendo di perorare una tesi infondata, oppure per non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile in relazione ad una prestazione professionale altamente qualificata, come è quella dell'avvocato, in particolare se cassazionista (Cass. civ., sez. III, sent. 14 ottobre 2016, n. 20732). Ne consegue che la parte risponde per il titolo indicato dell'operato del suo difensore, che agisce su mandato del cliente per perorare la sua difesa, e non a tutela di un interesse proprio. Sotto questo profilo, la parte processuale è soggetto legato da un rapporto di preposizione con il responsabile, ipotesi che ricorre non solo in caso di lavoro subordinato ma anche quando, per volontà di un soggetto (committente), un altro (commesso) esplichi un'attività per suo conto (Cass. civ., sez. III, sent. 15 giugno 2016, n. 12283). E non vi è dubbio che il legale esplichi l'attività giudiziale di difesa per conto e nell'interesse del proprio assistito committente. Tuttavia, allo stato della legislazione vigente, il difensore non potrà rispondere in solido con il proprio cliente ai sensi dell'art. 96 c.p.c.

Sul punto, si osserva nondimeno che recentemente la Corte di legittimità ha valorizzato il delicato ruolo del difensore tecnico, precisando che il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense, prudenza che deve essere coniugata con il principio di responsabilità delle parti. All'avvocato, pertanto, è affidato il ruolo di primo baluardo a difesa del buon andamento della giustizia dalle “aggressioni” delle parti private (Cass. civ., sez. III, ord. 12 giugno 2018, n. 15209). Per l'effetto, si prospetta una nuova ed ulteriore funzione per il professionista, di natura spiccatamente pubblicistica, che inevitabilmente è in grado di incidere sul rapporto tra avvocato e cliente. Il professionista dovrebbe, infatti, contemperare gli interessi dell'assistito con quelli del sistema giudiziario, anche a costo di ridimensionare le iniziative giudiziarie del cliente, con l'ulteriore (importante) corollario del rischio di una responsabilità professionale nel caso in cui il cliente sia condannato ex art. 96 c.p.c. In una simile ipotesi, infatti, per il cliente sarebbe alquanto agevole riversare sul professionista la responsabilità per non aver adempiuto diligentemente alla propria funzione di “filtro valutativo”. Di conseguenza, nelle ipotesi in cui la parte dimostri che le scelte tecniche “errate” e censurate, effettuate nel caso giudiziario concreto, sono ascrivibili in toto al suo difensore, quest'ultimo potrebbe essere tenuto per la rivalsa esercitata dalla parte condannata ai sensi dell'art. 96 c.p.c. Riveste, pertanto, un ruolo preminente il dovere di informazione, all'atto del conferimento dell'incarico, giacché l'incertezza dello strumento impiegato, o circa il diritto e le sue fonti, legittima la condivisione con il proprio cliente della scelta sul “modo” di attuare il diritto di difesa, con la prestazione del relativo consenso. Secondo il codice deontologico forense, l'avvocato, oltre a dover rifiutare incarichi che eccedono la sua competenza (art. 12), non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose (art. 36) e deve informare il cliente, all'atto del conferimento dell'incarico, sulle caratteristiche della controversia e sulle possibili soluzioni (art. 40). Allo stesso modo l'art. 1176, comma 2, c.c. evoca il dovere di dissuasione, in quanto, il legale deve evidenziare al cliente le questioni di fatto e di diritto potenzialmente ostative, sconsigliandolo dall'iniziare o proseguire una lite ove appaia improbabile un epilogo favorevole e, anzi, probabile un esito negativo e dannoso.

Onere della prova

La responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno (Cass. civ., Sez. Un., sent. 20 aprile 2018, n. 9912). Sicché, in ragione della natura spiccatamente afflittiva della condanna ivi regolata, non solo il giudice potrà provvedere d'ufficio, quand'anche la parte che ha vinto la causa non abbia avanzato alcuna istanza, ma in più la correlativa disposizione del pagamento di una somma equitativamente determinata non esige che la medesima parte beneficiaria abbia dato dimostrazione del nocumento prodotto dalla condotta abusiva della controparte soccombente nella sua sfera giuridico-patrimoniale. In tali evenienze il pregiudizio può considerarsi un precipitato automatico del contegno temerario assunto dal soccombente ovvero addirittura costituisce un dato estrinseco di cui il giudice non deve operare alcuna verifica, essendo la condanna la mera conseguenza dell'abuso processuale. Pertanto, ai fini dell'applicabilità dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati (Cass. civ., sez. lav., sent. 19 aprile 2016, n. 7726). Resta da chiedersi, tuttavia, se tale condanna si giustifichi comunque qualora si possa evincere che, del tutto occasionalmente, dal comportamento dilatorio, pretestuoso o incauto della controparte il beneficiario della potenziale condanna abbia tratto un beneficio (si pensi al caso in cui, in ragione della condotta defatigante del soccombente, atta a prolungare la durata del processo, si applichi alla fattispecie una norma sopravvenuta, magari di interpretazione autentica, più favorevole alla parte avente diritto).

Criteri di liquidazione

La norma fa generico richiamo al pagamento di una somma equitativamente determinata, senza indicare specificamente i criteri entro cui tale equità può essere esercitata. E ciò diversamente dall'abrogata previsione di cui all'art. 385, comma 4, c.p.c. che - con riferimento al giudizio di cassazione - stabiliva il tetto massimo del doppio dei massimi tariffari. Secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito, espressamente recepito dalle linee guida degli osservatori istituiti presso i tribunali, la somma equitativamente determinata deve essere fissata in relazione all'importo delle spese di lite, alla stregua di una sua frazione o di un suo multiplo. Sono, invece, minoritari gli indirizzi che quantificano il pagamento sulla scorta degli indennizzi previsti per la durata non ragionevole del processo o in proporzione al valore della causa. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il comma 3 dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, disponendo che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una «somma equitativamente determinata», non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, al contrario del comma 4 dell'art. 385 c.p.c., che, prima dell'abrogazione ad opera della medesima legge, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari. Pertanto, la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l'unico limite della ragionevolezza (Cass. civ., sez. VI-II, ord. 30 novembre 2012, n. 21570). Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, che aveva condannato il soccombente a pagare una somma non irragionevole in termini assoluti e pari al triplo di quanto liquidato per diritti e onorari. Il vaglio di ragionevolezza rappresenta un indice duttile ed elastico, volto a verificare che, a fronte di parametri di relazione astrattamente idonei, la quantificazione in concreto sia equa.

Danni punitivi

Le elaborazioni più recenti hanno ricondotto la condanna di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c. nella categoria dei danni punitivi, la cui ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico è stata riconosciuta da un arresto innovativo delle Sezioni Unite. Ed invero, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero ed alla loro compatibilità con l'ordine pubblico (Cass. civ., Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n. 16601). Tali requisiti devono ricorrere anche con riguardo alle singole – e speciali – fattispecie di risarcimento con funzione afflittiva contemplate dal nostro ordinamento, atteso che la norma con valenza generale di cui all'art. 2059 c.c., che riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale, non autorizza a ritenere che siffatta categoria di pregiudizio importi una liquidazione anche in chiave sanzionatoria, oltre che riparatoria. In base alla lettura più accreditata della pronuncia innanzi evocata, ricadrebbe tra le ipotesi tipiche di risarcimento con funzione punitiva ammesse nel nostro ordinamento, tra le altre, la fattispecie regolata dall'art. 96, comma 3, c.p.c., articolo espressamente richiamato nel corpo della motivazione. Questa ricostruzione, tuttavia, introduce nuove, delicate questioni. In primis, in ordine alla qualificazione giuridica dell'istituto, si dovrebbe pervenire alla conclusione secondo cui anche la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata costituisce un risarcimento, sebbene con finalità sanzionatoria. Ma ogni risarcimento presuppone, per definizione, un danno nella sfera giuridica del beneficiario, sebbene nella liquidazione sia accentuato il quantum riconosciuto a titolo di sanzione, piuttosto che quello ascrivibile ad uno scopo ristoratorio. Potrebbe sostenersi, in un'ottica conciliativa, che tale danno nel caso di specie è strutturato ovvero è in re ipsa o presunto, ossia rappresenta un effetto automatico dell'integrazione dell'abuso processuale, il che esonererebbe comunque la parte vincitrice dalla necessità di assolvere a qualsiasi onere allegatorio e probatorio. Affrontato nei termini anzidetti il nodo della tipicità, restano i temi della garanzia di prevedibilità e della garanzia in ordine ai limiti quantitativi. La prevedibilità della condanna per instaurazione di lite temeraria sarebbe assicurata dall'interpretazione che subordina la tassatività della fattispecie alla realizzazione di un comportamento processuale abusivo, connotato da dolo o colpa grave. Spetterà poi alla giurisprudenza riempire di contenuto specifico la categoria dell'abuso processuale, in ragione dell'individuazione delle condotte che di volta in volta concretamente si presentino come temerarie. In ultimo, quanto alla garanzia sui limiti quantitativi della condanna punitiva, si è già detto che la norma laconicamente si riferisce al pagamento di una somma equitativamente determinata, senza prospettare alcuna cornice edittale. Ne consegue che i limiti quantitativi non sono determinati. Nondimeno, occorre chiedersi se gli stessi limiti siano determinabili alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale che rapporta la liquidazione all'importo delle spese di lite, rispetto alle quali la condanna per controversia temeraria può tradursi in una frazione o in un multiplo, purché tale proporzione sia in concreto ragionevole. Ove si utilizzi questo riferimento esterno, la quantificazione sarebbe comunque determinabile e la garanzia sul quantum dei danni punitivi sarebbe in ogni caso soddisfatta. In proposito, si rimarca che il principio di legalità dei risarcimenti punitivi sarebbe assicurato nel caso in cui la quantificazione della componente afflittiva del danno sia preventivabile anche alla stregua dell'orientamento giurisprudenziale consolidato, e non già necessariamente in ragione di un limite prefissato in astratto dalla norma regolatrice.

Aspetti processuali

L'azione di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può, di regola, esercitarsi in un giudizio separato ed autonomo rispetto a quello da cui la responsabilità stessa ha origine, salvo che la sua proposizione sia stata preclusa per l'evoluzione propria dello specifico processo da cui detta responsabilità è scaturita, ovvero per ragioni non dipendenti dalla inerzia della parte (Cass. civ., sez. I, sent. 20 maggio 2016, n. 10518). Nella specie, la ricorrente aveva proposto la domanda risarcitoria nel giudizio di opposizione all'esecuzione, poi rinunciandovi per non ostacolarne la rapida definizione e reiterandola in quello di opposizione a decreto ingiuntivo per paralizzare, almeno parzialmente, la domanda della controparte. Tale conclusione vale anche per l'ipotesi delineata dall'art. 96, comma 3, c.p.c. ove la pronuncia sia sollecitata dall'istanza di parte. Per definizione, invece, il giudice, ove provveda d'ufficio, non può che disporre la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata nell'ambito ed a conclusione del giudizio in cui l'abuso è stato perpetrato. Segnatamente, l'azione di risarcimento danni ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. è proponibile in un giudizio separato ed autonomo, rispetto a quello in cui si è verificato l'abuso, ove il danneggiato alleghi e provi che tale scelta sia dipesa, non già da una sua mera inerzia, ma da un interesse specifico a non proporre la relativa domanda nello stesso giudizio che ha dato origine all'altrui responsabilità aggravata, interesse che deve essere valutato nel caso concreto per accertarne l'effettiva esistenza ed escludere che sia illegittimo o abusante (Cass. civ., sez. III, ord. 31 ottobre 2017, n. 25862; Cass. civ., sez. III, ord. 19 luglio 2018, n. 19179) Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva escluso l'autonoma proponibilità, in separata sede, di una domanda risarcitoria fondata sulla violazione dei doveri di lealtà processuale, avuto riguardo al comportamento tenuto dalla controparte in precedenti giudizi. Pertanto, l'art. 96 c.p.c. - che sanziona l'uso strumentale del processo in vista di scopi diversi da quelli per cui è preordinato, contemplando una tutela di tipo aquiliano con carattere di specialità rispetto all'art. 2043 c.c. - non detta una regola sulla competenza, giacché disciplina un fenomeno endoprocessuale, quale quello dell'esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare un'istanza collegata e connessa all'agire o al resistere in giudizio, che non può configurarsi come potestas agendi esercitabile fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell'evoluzione propria dello specifico processo dal quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine (Cass. civ., sez. III, sent. 6 agosto 2010, n. 18344).

Ancora, in tema di opposizione all'esecuzione, la rinuncia agli atti del giudizio da parte dell'opponente, ai fini dell'estinzione del processo, richiede ai sensi dell'art. 306 c.p.c. l'accettazione da parte del creditore opposto, il quale tuttavia, per potere opporsi, deve avere un interesse alla ulteriore prosecuzione qualificabile come possibilità di conseguire un'utilità giuridicamente apprezzabile. Tale interesse è ravvisabile ove il creditore opposto abbia formulato domanda di condanna della controparte al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. che, di regola, non può essere fatta valere in separato giudizio (Cass. civ., sez. III, ord. 21 agosto 2018, n. 20839).

La domanda di risarcimento del danno per responsabilità aggravata a norma dell'art. 96 c.p.c., anche nella versione contemplata dal comma 3, può essere proposta per la prima volta anche all'udienza di precisazione delle conclusioni, senza che ciò determini alcun mutamento dell'oggetto e della causa petendi delle domande proposte dalle parti, in quanto sovente la parte istante è in grado di valutarne la fondatezza, nonché di determinare l'entità del danno subito, solo al termine dell'istruttoria (Cass. civ., sez. III, ord. 8 giugno 2018, n. 14911).

Infine, la sentenza che abbia pronunciato soltanto sulla competenza, e che rechi anche una statuizione di condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., deve essere impugnata con il regolamento (necessario) di competenza, quale mezzo necessario per discutere anche su detta statuizione, che, invece, è suscettibile di autonoma impugnazione, proposta nei modi ordinari, quando la parte soccombente sulla competenza, ed a carico della quale sia stata pronunciata condanna ai sensi della detta norma, intenda censurare soltanto quest'ultimo capo (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 20 giugno 2017, n. 15347).

Casistica

CASISTICA

Abuso del diritto di impugnazione

- In tema di responsabilità aggravata, ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce abuso del diritto di impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell'atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili, poiché pone in evidenza il mancato impiego della doverosa diligenza ed accuratezza nel reiterare il gravame (Cass. civ., sez. I, ord. 15 novembre 2018, n. 29462).

- Ai fini dell'applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c., può costituire abuso del diritto di impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondato sulla deduzione del vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ove sia applicabile, ratione temporis, l'art. 348-ter, comma 5, c.p.c., che ne esclude la invocabilità; in tali ipotesi, infatti, si determina uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione (Cass. civ., sez. III, ord. 30 aprile 2018, n. 10327).

- Ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., integra un'ipotesi di impiego pretestuoso e strumentale - e quindi di abuso - del diritto di impugnazione, l'aver prospettato, quale unico motivo di ricorso per cassazione, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato con riferimento al mero accoglimento parziale di una domanda (Cass. civ., sez. III, sent.21 luglio 2016, n. 15017).

- Costituisce indizio idoneo, ex art. 2727 c.c., a fondare la responsabilità ex art. 385, comma 4, c.p.c. (nel testo vigente ratione temporis, introdotto dall'art. 13 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e successivamente abrogato dall'art. 46, comma 20, l. 18 giugno 2009, n. 69), la palese infondatezza della tesi prospettata dal ricorrente, il cui sostegno significhi non intelligere quod omnes intelligunt. Nella specie, la S.C. ha ritenuto la temerarietà della prospettazione dei ricorrenti - quanto meno per colpa grave - che avevano propugnato la corresponsabilità di una delle società editrici convenute nella pretesa diffamazione commessa ai loro danni per il semplice fatto che i due quotidiani venissero venduti congiuntamente, atteso che, per elementare principio di diritto, acquisibile secondo una diligenza minima ex art. 1176 c.c., una società editrice di un quotidiano non può rispondere del contenuto degli articoli pubblicati da un giornale di altro editore (Cass. civ., sez. III, sent. 12 marzo 2015, n. 4930).

Specialità della responsabilità processuale aggravata

L'art. 96 c.p.c. si pone in rapporto di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., sicché la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando nella generale responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra le due fattispecie, risultando conseguentemente inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 16 maggio 2017, n. 12029).

Mera natura accessoria ed endoprocessuale dell'istanza di condanna ai sensi dell'art. 96 c.p.c.

- Il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell'integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un'ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell'art. 92 c.p.c. (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 12 aprile 2017, n. 9532).

- L'istanza risarcitoria ex art. 96 c.p.c., rivolta al giudice della causa del merito investito dell'esclusiva competenza a liquidare il corrispondente danno, è improponibile ove si invochi la mera emissione di una pronuncia di condanna generica, altrimenti eludendosi, di fatto, quella competenza (Cass. civ., sez. I, sent. 25 gennaio 2016, n. 1266).

- La domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall'art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all'agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma (Cass. civ., sez. VI-III, sent. 21 gennaio 2016, n. 1115; Cass. civ., sez. III, sent. 20 ottobre 2014, n. 22226).

- Nel caso in cui il giudice adito debba emettere una pronuncia secondo equità, la proposizione di domanda riconvenzionale per responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c. non è idonea ad influire sui criteri della decisione e, pertanto, non impone al giudice di seguire le norme di diritto (Cass. civ., sez. III, sent. 19 luglio 2013, n. 17704; Cass. civ., sez. III, sent. 4 aprile 2013, n. 8197).

- Il rigetto della domanda ex art. 96 c.p.c., malgrado l'accoglimento di quella principale proposta dalla stessa parte, configura un'ipotesi di soccombenza reciproca idonea a giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell'art. 92 c.p.c., atteso che, in applicazione del principio di causalità, sono imputabili a ciascuna parte gli oneri processuali causati all'altra per aver resistito a pretese fondate o per aver avanzato istanze infondate (Cass. civ., sez. VI-II, sent. 14 ottobre 2016, n. 20838).

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