Mauro Di Marzio
29 Gennaio 2019

Il dibattito circa la natura giurisdizionale o negoziale dell'arbitrato ha lungamente impegnato la dottrina, senza mai pervenire — si può dire — ad un esito ricostruttivo condiviso.
Inquadramento

Discorriamo qui dell'arbitrato rituale come regolato dagli artt. 806 ss. c.p.c. all'esito di successivi interventi legislativi di riforma: quella, circoscritta, del 1983 (l. 9 febbraio 1983, n. 28), intervenuta anzitutto in materia di deposito del lodo arbitrale, al quale veniva riconosciuta «efficacia vincolante tra le parti dalla data della sua ultima sottoscrizione», indipendentemente dal rilascio dell'exequatur pretorile; quella, organica, del 1994 (l. 5 gennaio 1994, n. 25), che aveva tra l'altro modificato l'art. 825 c.p.c., riconnettendo all'omologazione non più l'acquisto da parte del lodo dell'«efficacia di sentenza», bensì la sola efficacia di titolo valevole per l'esecuzione forzata; quella, nuovamente complessiva, del 2006 (d.lgs. 2febbraio 2006,n.40), intervenuta su una pluralità di aspetti problematici, e che ha completato il percorso di sostanziale equiparazione del lodo arbitrale alla sentenza con l'introduzione dell'art. 824-bis c.p.c., secondo cui: «Salvo quanto disposto dall'art. 825», in ordine all'efficacia del lodo per l'esecuzione forzata, «il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria».

Occorre quindi subito precisare che il tema dell'arbitrato nel suo complesso va ben al di là della disciplina dettata dagli artt. 806 ss. c.p.c., giacché si estende:

- all'arbitrato previsto per le controversie amministrative dall'art. 12 c.p.a., secondo cui: «Le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli artt. 806 ss. c.p.c.», norma che ha privato di base normativa la tesi secondo cui, in materia di controversie amministrative, potesse concepirsi l'impiego del giudizio arbitrale solo come alternativa al processo dinanzi al giudice ordinario;

  • all'arbitrato in materia di lavoro, ove sono previste diverse forme di arbitrato irrituale, come regolate all'esito della legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. «collegato lavoro»);
  • all'arbitrato internazionale, intendendo con tale espressione non tanto l'arbitrato intercorrente tra soggetti di diritto internazionale, quanto all'arbitrato tra privati avente carattere di internazionalità, ad esempio perché la controversia coinvolge soggetti appartenenti ad ordinamenti diversi, arbitrato disciplinato fino alla riforma del 2006 dagli artt. 833 ss. c.p.c.;
  • all'arbitrato estero, il cui riconoscimento in Italia è disciplinato dagli artt. 839 e 840 c.p.c.;
  • all'arbitrato societario di cui all'art. 34 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5;
  • all'arbitrato amministrato, regolato dall'art. 832 c.p.c., espressione con cui si intende riferirsi al fenomeno dell'attribuzione a un apposito organismo, da parte di coloro stipulano la convenzione di arbitrato, di un complesso di funzioni concernenti il giudizio arbitrale, quali la determinazione delle regole del giudizio o la predisposizione dell'elenco degli arbitri da nominare;
  • all'arbitrato irrituale, che oggi è espressamente regolato dall'art. 808-ter quale semplice «determinazione contrattuale», alla quale «non si applica l'art. 825», e che non è impugnabile secondo le disposizioni di cui all'art. 827 e ss. c.p.c. ma è annullabile per i motivi di cui all'art. 808-ter, comma 2, c.p.c..

Una speciale normativa è inoltre dettata per l'arbitrato dall'art. 209 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, Codice dei contratti pubblici.

Il dibattito sulla natura dell'arbitrato

Il dibattito circa la natura giurisdizionale o negoziale dell'arbitrato ha lungamente impegnato la dottrina, senza mai pervenire — si può dire — ad un esito ricostruttivo condiviso.

Si tratta, in effetti, di una questione che involge il complessivo atteggiamento dell'interprete nei riguardi del fenomeno dell'arbitrato, nei suoi rapporti con l'autorità dello Stato — e, così, l'atteggiamento verso la perimetrazione della nozione stessa di giurisdizione — e che, come tale, non si presta all'individuazione di una soluzione «esatta», ma richiede un'opzione, di natura in definitiva «politica», circa l'inquadramento preferibile: tensione, quella della collocazione dell'arbitrato nel sistema della giurisdizione, ben rappresentata nel contrasto tra il codice di rito del 1865, di impianto «liberale», che si apriva con la disciplina dell'arbitrato, e dunque con il più ampio riconoscimento della facoltà dei privati di sottrarsi, sia pure entro determinati limiti, dalla soggezione alla giurisdizione statale, ed il codice di rito del 1942, promulgato in un contesto «autoritario», che colloca l'arbitrato a chiusura del testo normativo, quasi ad evidenziarne la ritenuta marginalità.

Schematicamente, possiamo attribuire tra gli altri ad Alfredo Rocco la tesi privatistica, ed in misura minore a Giuseppe Chiovenda, il quale, emblematicamente, riservava al compromesso ed alla clausola compromissoria la definizione di «processuale negativo», trattandosi di atti volti a spogliare l'autorità giudiziaria della propria competenza. Questo autore, affidando al processo civile lo scopo, di marcata caratura pubblicistica, della realizzazione del diritto obiettivo, riteneva di dover collocare l'arbitrato in una posizione ancillare, sicché l'attività degli arbitri, culminante nella stesura del lodo, non poteva essere intesa quale attività giurisdizionale, bensì solo privata, acquistando il lodo arbitrale dignità di atto giurisdizionale, in una fase successiva a tale stesura, soltanto per il tramite dell'intervento del giudice statale, attraverso il procedimento di omologazione e conseguente equiparazione, solo per effetto dell'omologazione, del lodo alla sentenza: in breve, in tale prospettiva, non è l'arbitro — la cui attività si colloca in un ambito per l'appunto strettamente privatistico — che attua la legge, ma è il giudice, ove intervenga ad omologare il lodo.

Dall'opposto versante veniva posta in evidenza la sostanziale assimilabilità dell'attività logico-giuridica che presiede tanto alla pronuncia della sentenza quanto alla emissione del lodo: lodo che, come tale, era da considerare in se stesso equiparabile ad una sentenza, sia pure di mero accertamento, suscettibile di trasformarsi in sentenza di condanna — questo sì — solo attraverso il rilascio dell'exequatur dal giudice statale. Lodovico Mortara, in tale prospettiva, pur riconoscendo che l'amministrazione della giustizia è ufficio del potere sovrano, sosteneva così la giurisdizionalità dell'arbitrato in quanto disciplinato dall'ordinamento, riconoscendo al compromesso un effetto derogatorio della giurisdizione, tale da consentire alle parti la scelta di giudici privati, la cui investitura promana pur sempre dal potere sovrano, quantunque essi siano designati delle parti.

Oggi si tende piuttosto a sottolineare la sterilità di un simile dibattito svolto in astratto. Sta di fatto — si può dire — che gli arbitri giudicano, e cioè svolgono un'attività sovrapponibile a quella del giudice, e che il lodo arbitrale ha nella sostanza, fatti salvi taluni aspetti, efficacia equivalente a quella della sentenza del giudice, il che è attualmente conclamato expressis verbis dall'art. 824-bis c.p.c., già poc'anzi ricordato. Basterà rammentare, d'altronde, nell'evidenziare come anche gli arbitri siano chiamati a fare applicazione del diritto obiettivo, che essi sono stati ammessi a sollevare, nell'ambito del giudizio arbitrale, questione incidentale di legittimità costituzionale (Corte cost. 28 novembre 2001, n. 376).

In argomento, la giurisprudenza ha manifestato un atteggiamento pendolare. Si riteneva in passato che l'attività degli arbitri (il cui lodo, nella previgente disciplina, acquistava efficacia equivalente a quella della sentenza, come si è visto, con il rilascio dell'exequatur da parte del giudice) avesse natura giurisdizionale, sostitutiva della giurisdizione ordinaria, sicché i rapporti tra giudice ordinario e arbitro erano riguardati in termini di competenza. Tale posizione è stata ribaltata da Cass. civ., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527, che ha qualificato la decisione arbitrale quale atto riconducibile, in ogni caso, all'autonomia negoziale e alla sua legittimazione a derogare alla giurisdizione, per ottenere una privata decisione della lite, basata non sullo ius imperii, ma solo sul consenso delle parti. Il deferimento della controversia agli arbitri è stato così configurato quale deroga alla giurisdizione, con l'ulteriore conseguenza che ogni questione concernente la deferibilità della medesima agli arbitri è stata intesa quale questione di merito e non di competenza, poiché attinente alla validità della convenzione arbitrale.

Dopo che la Consulta ha ammesso gli arbitri, come si è detto, a sollevare la questione di legittimità costituzionale, qualificando l'arbitrato come «procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l'applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria», e dopo che la riforma del 2006 ha attribuito al lodo arbitrale efficacia di sentenza dall'ultima sottoscrizione (art. 824-bis c.p.c.), è nuovamente intervenuta sulla materia la Corte costituzionale (Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223) dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 819-ter, comma 2, c.p.c. nella parte in cui escludeva l'applicazione all'arbitrato della translatio iudicii prevista dall'art. 50. Ineluttabile a tal punto il revirement della giurisprudenza di legittimità. Ed infatti Cass. civ., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24153, ha nuovamente riconosciuto natura giurisdizionale all'arbitrato, osservando in breve che la proponibilità dell'impugnazione non è più subordinata al decreto di esecutorietà del lodo; che la domanda arbitrale è assimilabile a quella giudiziale quanto ad effetti sulla prescrizione e sulla trascrizione; che all'arbitrato si applica l'art. 111 concernente la successione a titolo particolare nel diritto controverso; che l'art. 819-bisc.p.c. consente agli arbitri di sollevare questione di legittimità costituzionale; che l'art. 824-bisc.p.c. equipara gli effetti del lodo a quelli della sentenza.

Allo stato attuale della giurisprudenza, il giudizio arbitrale ha senz'altro funzione sostitutiva della giurisdizione ordinaria.

La disciplina arbitrale nel suo complesso

Alla luce di quanto si è detto, l'arbitrato è uno strumento di risoluzione delle controversie alternativo rispetto quello del ricorso alla giurisdizione dello Stato. Nondimeno, come il giudice statale, l'arbitro giudica in posizione di imparzialità, a conclusione di un procedimento destinato a svolgersi in contraddittorio fra le parti, accertando i fatti ed applicando ad essi la pertinente disciplina giuridica sostanziale prevista dall'ordinamento, ovvero ricorrendo all'equità qualora vi sia sul punto il consenso delle parti: in tal senso dispone l'art. 822 c.p.c. che gli arbitri debbano decidere secondo le norme di diritto, a meno che le parti non abbiano disposto che essi debbano pronunciare secondo equità.

Il titolo ottavo nel quarto libro del codice di procedura civile, dedicato all'arbitrato, si suddivide in sette capi, i primi cinque dei quali rilevano in questa sede:

  • il primo, rubricato: «Della convenzione di arbitrato», individua le controversie suscettibili di devoluzione in arbitrato, che non possono avere ad oggetto diritti indisponibili (art. 806 c.p.c.), e regola il compromesso e la clausola compromissoria, nonché la convenzione di arbitrato in materia non contrattuale (v. M. Di Marzio, Convenzione di arbitrato in materia non contrattuale, www.ilProcessoCivile.it) e l'arbitrato irrituale; nel contesto di detto titolo si inseriscono gli artt. 808 quater e 808 quinquies c.p.c., l'uno dettato in tema di interpretazione della convenzione di arbitrato, l'altro di efficacia della stessa convenzione, la quale rimane in vita anche in caso di conclusione del procedimento arbitrale senza pronuncia sul merito;
  • il secondo, rubricato: «Degli arbitri», stabilisce i requisiti di capacità degli arbitri, fissa il numero di essi, che devono essere ovviamente in numero dispari, e pone la disciplina della loro nomina ad iniziativa delle parti interessate ovvero per effetto dell'intervento suppletivo dell'autorità giudiziaria, nonché quella della eventuale sostituzione di uno o più arbitri; è poi regolato il congegno di accettazione dell'incarico da parte degli arbitri, che non sono pubblici ufficiali, e la loro decadenza e responsabilità, pressappoco ricalcata su quella del giudice, nonché i loro diritti ed il procedimento per la ricusazione;
  • il terzo, rubricato: «Del procedimento», fissa la regola procedimentali del giudizio arbitrale, sostanzialmente devolvendone l'individuazione alle parti o agli arbitri stessi (v. M. Di Marzio, Procedimento arbitrale, www.ilProcessoCivile.it);
  • il quarto, rubricato: «Del lodo», fissa il termine per la decisione, le norme per la deliberazione, i requisiti, l'efficacia e le regole per il deposito e la correzione del lodo;
  • il quinto, rubricato: «Delle impugnazioni», detta la disciplina delle impugnazioni avverso il lodo arbitrale, che sono l'impugnazione per nullità e la revocazione e opposizione di terzo.

Nel complesso, l'attuale tendenza dell'ordinamento va nel senso dell'ampliamento dell'ambito di dispiegamento dell'autonomia privata: per un verso cedono il passo le diverse ipotesi di arbitrato obbligatorio, giudicate costituzionalmente incompatibili (v. Corte cost., n. 325/1998; Corte cost., n. 381/1997; Corte cost., n. 54/1996; Corte cost., nn. 232, 206 e 49/1994; Corte cost., n. 488/1991; Corte cost., n. 152/1996; Corte cost., n. 221/2005), per altro verso va ampliandosi l'area delle controversie arbitrabili oggi non più limitate dall'esclusione delle controversie «che non possono formare oggetto di transazione», bensì, ai sensi dell'art. 806 c.p.c., di quelle che abbiano ad oggetto diritti indisponibili.

Il sempre maggior rilievo acquistato dall'autonomia negoziale si manifesta altresì dal versante delle regole procedurali, rimesse, come accennato, alla determinazione delle parti ovvero degli arbitri, fermo il limite dell'osservanza del principio del contraddittorio.

Resta ferma l'assenza di poteri coercitivi degli arbitri, la quale è sovente posta a giustificazione dell'ormai ampiamente discusso divieto di adottare provvedimenti cautelari (v. M. Di Marzio, Arbitrato e tutela cautelare, www.ilProcessoCivile.it).

Il controllo del giudice dello Stato sull'arbitrato è ristretto al rilascio della omologazione ed al giudizio di impugnazione. La prima, però, comporta uno scrutinio meramente estrinseco e formale. Le impugnazioni, poi, conferiscono al giudice un controllo essenzialmente di legittimità e non di merito. Con riguardo all'impugnazione per nullità, in particolare, si può dire che essa si svolge entro un perimetro pressappoco coincidente non già con quello dell'appello — che è pur sempre un nuovo giudizio di fatto, pur se entro i limiti delle censure introdotte con i motivi —, bensì del giudizio di cassazione, all'interno del quale «il fatto» non può mai tornare in discussione.

Le controversie arbitrabili

L'art. 806 c.p.c., che apre il Titolo VIII dell'ultimo libro del codice di rito, definisce per esclusione l'ambito dell'arbitrabilità, circoscritta alle controversie su diritti disponibili e non più, come in precedenza, a quelle (unitamente ad altre ipotesi specificamente elencate dal vecchio testo dell'art. 806 c.p.c.) «che non possono formare oggetto di transazione», avuto essenzialmente riguardo alla previsione dell'art. 1966 c.c..

Il limite della disponibilità si fonda sulla stessa configurazione del giudizio arbitrale, dal momento che il giudice decide per autorità propria, l'arbitro perché investito dalle parti: il giudice, ripetendo il suo potere dallo Stato, è perciò insensibile alla circostanza che le parti non possano disporre della situazione sostanziale dedotta in giudizio; l'arbitro, derivando il suo potere dalle parti, non può decidere una controversia relativa a diritti sottratti alla disponibilità delle parti stesse.

L'area della compromettibilità in arbitrato, che, alla luce della disposizione, è la regola, coincide dunque oggi con quella della disponibilità dei diritti, disponibilità che va commisurata al diritto oggetto della controversia, e non va confusa con l'inderogabilità o imperatività della disciplina sostanziale operante nella materia. Si ritiene cioè, in dottrina, che l'inderogabilità o imperatività della norma che regola il diritto, non renda automaticamente quest'ultimo indisponibile (per tutti Ricci, Dalla «transigibilità» alla «disponibilità» del diritto. I nuovi orizzonti dell'arbitrato, in Riv. arb., 2006, 265), rimanendo viceversa tenuti gli arbitri ad applicare la normativa cogente in materia prevista.

La posizione della giurisprudenza non è altrettanto lineare, ma, di recente, sembra farsi strada l'orientamento più elastico con l'affermazione del principio secondo cui, in tema di arbitrato, l'indisponibilità del diritto costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l'inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con cui si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass. civ., 16 aprile 2018, n. 9344).

Movendo dalla sovrapposizione dei concetti di inderogabilità e indisponibilità, è stata viceversa ammessa in via di principio l'arbitrabilità delle controversie societarie, ma con esclusione di quelle che abbiano ad oggetto interessi della società o che concernano violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi. È stata così ritenuta non compromettibile la controversia concernente la revoca per giusta causa di un amministratore di società per violazione delle disposizioni che prescrivono la precisione e la chiarezza dei bilanci (Cass. civ., 18 maggio 2007, n. 11658), o comunque preordinate alla tutela di interessi non disponibili da parte dei singoli soci (Cass. civ., 12 settembre 2011, n. 18600). Ed è stato ribadito che non è compromettibile in arbitri la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio di società per difetto dei requisiti di verità, chiarezza e precisione. Invero, nonostante la previsione di termini di decadenza dall'impugnazione, con la conseguente sanatoria della nullità, le norme dirette a garantire tali principi non solo sono imperative, ma, essendo dettate, oltre che a tutela dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, trascendono l'interesse del singolo ed attengono, pertanto, a diritti indisponibili (Cass. civ., 13 ottobre 2016, n. 20674).

Va in generale escluso che l'arbitrabilità possa essere negata in ragione dell'inderogabilità della competenza prevista in sede giudiziale (Cass. civ., 23 febbraio 2006, n. 3989, che ha giudicato valida la clausola compromissoria con cui le parti avevano deferito ad arbitri una controversia relativa all'accertamento della responsabilità per urto di navi; Cass.civ., 22 agosto 2013, n. 19393, secondo cui l'arbitrabilità di una controversia locatizia non può essere negata traendo argomento dall'art. 447-bis, comma 2 c.p.c.). Ancora, l'art. 1137, comma 2, c.c. per il quale ogni condomino dissenziente può fare ricorso all'autorità giudiziaria avverso le deliberazioni assunte dall'assemblea del condominio, non esclude la compromettibilità in arbitri delle relative controversie, le quali non rientrano in alcuno dei divieti previsti, con la conseguenza che è legittima la norma del regolamento condominiale che preveda una clausola compromissoria (Cass.civ., 10 gennaio 1986, n. 73).

Si esclude per lo più che siano compromettibili le controversie che prevedono l'intervento del pubblico ministero, il che denoterebbe la presenza di un pubblico interesse e, di qui, l'indisponibilità dei diritti coinvolti (filiazione, adozione, cittadinanza, nazionalità, questioni di stato, separazione personale tra coniugi e divorzio, decadenza o nullità di marchi o brevetti, querela di falso). Al di là delle difformi opinioni di parte della dottrina, pare oggi doversi rimeditare la questione, almeno con riguardo a separazione e divorzio, alla luce della nuova disciplina della negoziazione assistita (art. 6, comma 1, d.l. n. 132/2014, conv. con modif. in l. n. 162/2014), che ha fortemente valorizzato il carattere privatistico del rapporto di coniugio, consentendo ai coniugi di separarsi e di divorziare attraverso detto strumento, così da evitare il ricorso alla giurisdizione ordinaria, pur in presenza di figli minori o maggiorenni disabili o privi di autonomia economica, e con un limitato controllo da parte del p.m. esclusivamente ex post.

Al di fuori del campo dell'indisponibilità si colloca altresì il diritto alle restituzioni e al risarcimento del danno per la violazione di diritti indisponibili (Cass. civ., 26 gennaio 1988, n. 664, secondo cui i diritti a restituzioni o risarcimento dei danni, ancorché traggano origine da un illecito penale, rientrano nella disponibilità delle parti; Cass. civ., 22 giugno 1981, n. 4069, secondo cui la facoltà delle parti di una compravendita di devolvere ad arbitrato l'accertamento dell'inadempimento del venditore, per consegna di aliud pro alio, non trova ostacolo nella eventuale incommerciabilità della merce consegnata, per violazione della legge penale, atteso che detto arbitrato viene a coinvolgere solo gli effetti patrimoniali dell'illecito penale, non sottratti alla disponibilità delle parti stesse).

Riferimenti
  • Boccagna, L'impugnazione per nullità del lodo, Napoli, 2005;
  • Cavallini, L'arbitrato rituale, Milano, 2009;
  • Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2008;
  • La China, L'arbitrato. Il sistema e l'esperienza, Milano, 2007;
  • Punzi, Disegno sistematico dell'arbitrato, Padova, 2012.
Sommario