29 Dicembre 2023

Il presente contributo analizza la disciplina dell'arbitrato irrituale, tenendo conto delle più recenti pronunce giurisprudenziali sull'ambito di applicazione della clausola compromissoria, sulla natura dell'eccezione di arbitrato irrituale e sulla competenza cautelare.

Inquadramento

Il legislatore della novella del 2006 (attuata con il d.lgs. n. 40/2006) ha dettato sub art. 808-ter c.p.c. una norma ad hoc in tema di arbitrato cd. «irrituale o improprio o libero» che, in passato privo di regolazione normativa, deve le sue origini a una remota decisione della Corte di cassazione di Torino (Cass. civ., Torino, 27 dicembre 1904, in Riv. dir. comm., 1905, II, 45). La legge attribuisce ora alle parti di un rapporto giuridico, la facoltà di optare, espressamente e con forma scritta ad substantiam, per la risoluzione informale di controversie presenti o future in via alternativa, ancorché non sostitutiva – come invece accade con l'arbitrato rituale – rispetto a un giudizio ordinario. In altri termini, le parti stabiliscono, con convenzione esplicita, che le liti tra esse insorte, o che possono in futuro nascere in relazione a determinati rapporti giuridici, vengano decise da un arbitro, quale terzo giudicante, unico o collegiale, senza (necessariamente) attenersi alla regole di procedura scritte nel codice di rito, con una pronuncia, racchiusa nel lodo, avente gli stessi effetti di una determinazione contrattuale, che le parti medesime, già con la stipula del patto compromissorio, si impegnano ad accettare come espressione della propria volontà. Il risultato finale dell'arbitrato irrituale è quindi un lodo con effetto di contratto tra le parti, il che comporta, a monte, la compromettibilità dei soli conflitti che permettano una regolamentazione contrattuale ai sensi dell'art. 1321 c.c. 

Al riguardo si osserva che la clausola compromissoria devolutiva della controversia ad un arbitrato irrituale stipulata fino alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40/2006 - alla quale non sono applicabili gli artt. 808-quater  (sull'interpretazione della convenzione di arbitrato) e 808-ter c.p.c. (sull'arbitrato irrituale), introdotti da detto decreto - deve essere interpretata, in mancanza di volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le controversie che si riferiscono a pretese aventi la causa petendi nel contratto cui la clausola si riferisce, con esclusione, quindi, di quelle che nello stesso contratto hanno unicamente un presupposto storico (Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2019, n. 28011, nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza impugnata, ha affermato l'esclusione dall'applicazione della clausola compromissoria riferita ad un contratto di affitto di azienda delle controversie relative alla liquidazione della quota di partecipazione nella società di capitali che aveva affittato l'azienda ed alla restituzione di somme date a mutuo alla stessa società, trovando le stesse nel contratto di affitto un mero antefatto).

Quanto ai contratti con le pubbliche amministrazioni, sebbene non si applichi il disposto di cui all'art. 1341 c.c. , va rilevata la nullità della clausola compromissoria con cui la Pubblica Amministrazione, pur quando questa operi su un piano paritetico con i privati contraenti, affidi la risoluzione della controversia allo strumento dell'arbitrato irrituale, di tal guisa sottraendosi ai principi di pubblicità e trasparenza che devono informarne l'attività e le determinazioni (Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2020, n. 7759).

Natura dell'arbitrato irrituale

Sulla base del relativo quadro normativo di riferimento attualmente in vigore (a cominciare imprescindibilmente dall'univoco disposto dell'art. 808-ter c.p.c., comma 1), va affermato che la convenzione di arbitrato irrituale si connota come un contratto che determina la nascita in capo alle parti contraenti di una situazione complessa, di carattere strumentale, finalizzata alla tutela dei diritti, mediante il quale, alla stregua della nozione di cui all'art. 1703 c.c., si pone in essere un mandato, senza necessità di rappresentanza, conferito congiuntamente da una pluralità di parti (minimo due) a uno o più arbitri e preordinato alla stipula di un accordo contrattuale. L'arbitrato irrituale può non limitarsi a cristallizzare, come il negozio di accertamento, una situazione già in essere, comportando piuttosto addizioni alla fattispecie giuridica compromessa. Bisogna, perciò, escludere, da un lato, che l'arbitrato irrituale, alla stregua di una composizione amichevole, importi l'accoglimento di tutte le pretese di una sola parte e, dall'altro, che il medesimo obblighi sempre a procedere ad un aliquid datum, aliquid retentum, come invece implicherebbe una soluzione transattiva. Ed allora la definizione corretta dell'arbitrato irrituale è quella di un mandato congiunto a comporre la controversia venutasi a configurare, mediante un negozio compositivo, da porre in essere nel termine stabilito dalle parti, pena l'estinzione del mandato per sua scadenza ex art. 1722 c.c., n. 1, (Cass. sez. I, 26 ottobre 2021, n. 30000).

La differenza tra l'arbitrato rituale e quello irrituale - aventi entrambi natura privata - va ravvisata nel fatto che nell'arbitrato rituale, le parti mirano a pervenire ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., con l'osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell'arbitrato irrituale esse intendono affidare all'arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà (Cass. civ., sez. lav., 9 giugno 2020, n. 10988). 

Al fine di accertare se una determinata clausola compromissoria configuri un arbitrato rituale o irrituale deve aversi riguardo alla volontà delle parti desumibile dalle regole di ermeneutica contrattuale, ricorrendo l'arbitrato rituale quando debba ritenersi che le parti abbiano inteso demandare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice e, ricorrendo invece un arbitrato irrituale quando debba ritenersi che abbiano inteso demandare ad essi la soluzione di determinate controversie in via negoziale, mediante un negozio di accertamento, ovvero strumenti conciliativi o transattivi, dovendosi optare, nel caso in cui residuino dubbi sull'effettiva volontà dei contraenti, per l'irritualità dell'arbitrato, tenuto conto che l'arbitrato rituale, introducendo una deroga alla competenza del giudice ordinario, deve ritenersi abbia natura eccezionale (Trib. Terni, 23 gennaio 1999, in Rass. Giur. Umbra, 1999, 435; App. Venezia, 7 gennaio 1997).

La Suprema Corte ha inoltre rilevato che ai fini della determinazione della natura rituale o irrituale dell'arbitrato, sono significativi e rilevanti gli elementi testuali che depongono nel senso della giurisdizionalità dell'attività demandata all'arbitro, i quali si rinvengono nelle espressioni terminologiche congruenti all'esercizio del «giudicare», e al risultato di un «giudizio», in ordine ad una «controversia», non potendo essere decisivi, nel senso della esclusione della natura rituale dell'arbitrato, nè il conferimento agli arbitri del compito di decidere secondo equità ovvero in veste di amichevoli compositori, nè la preventiva qualificazione della decisione arbitrale come inappellabile, nè la previsione di esonero degli arbitri da formalità di procedura (Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 833).

La scelta dell'arbitrato irrituale comporta, quindi, in virtù della stessa voluntas legis, una deroga all'art. 824 bis c.p.c. e, conseguentemente, al successivo art. 825 c.p.c., palesandosi con essa l'intenzione pattizia di escludere quell'efficacia di sentenza divenuta ex lege propria del dictum degli arbitri rituali, suscettibile di essere reso esecutivo e trascrivibile. Si è, perciò affermato che tanto sono diversi gli effetti perseguiti con il concluso compromesso, che neppure l'erronea esecutorietà concessa al lodo irrituale vale ad originare un lodo rituale. L'applicazione delle regole proprie del "lodo-sentenza" è, quindi, inequivocabilmente esclusa per il "lodo-contratto", con la conseguenza che la possibilità di attuare i diritti discendenti dall'arbitrato irrituale è rimessa esclusivamente al comportamento delle parti, potendo, quindi, in caso di sua mancata attuazione, insorgere una nuova controversia sull'esecuzione della determinazione arbitrale rimasta inadempiuta (quasi - si è affermato - come se una delle parti scegliesse di volersi porre contra factum proprium).

Anche la giurisprudenza di merito ha già rilevato come depongono per la natura irrituale dell'arbitrato, valutate nel loro complesso, le espressioni, contenute nella clausola compromissoria, che individuano ampiamente, sul piano conflittuale (non solo «le controversie», ma anche le semplici «divergenze») e su quello dei contenuti («anche di carattere tecnico ed economico...») la materia devoluta al collegio arbitrale; che configurano l'opera degli arbitri come il naturale sviluppo dei tentativi di un mancato accordo tra le parti e che attribuiscono efficacia obbligatoria per le parti alla statuizione degli arbitri anche per quanto concerne il carico delle spese (Trib. Catania, 4 marzo 2020, n.883).

La unitarietà del fenomeno arbitrale è stata teorizzata dalla dottrina  (E. Fazzalari, I processi arbitrali nell'ordinamento italiano, in Riv. dir. proc., 1968, 459 ss.) in epoca lontana, sulla scorta della considerazione che tanto l'arbitrato rituale quanto quello irrituale hanno la medesima funzione, la stessa natura e struttura, ed utilizzano un identico procedimento in contraddittorio tra le parti davanti ad un terzo imparziale.

Le uniche differenze tra le species del genus arbitrato sono individuate, di conseguenza, negli effetti della decisione e nel regime delle impugnazioni.

Per contro, la tesi contrattualista evidenziava l'eterogeneità dei mezzi in discorso, in quanto l'arbitrato irrituale è nato nell'alveo dell'autonomia delle parti ed è stato regolato dalle disposizioni del codice civile tanto che non è stato ab initio contemplato nel codice di rito quale procedimento speciale  (G. Alpa, L'arbitrato irrituale. Una lettura civilistica dell'art.  808-ter  del  codice  di  procedura  civile, in Contratto e impresa, 2013, 320).

In altri termini, alla giurisdizionalità dell'arbitrato rituale si contrappone la negozialità di quello irrituale, espressione di una specifica opzione pattizia, in punto sia d'origine che di effetti, perché, altrimenti, in mancanza di una volontà di parte inequivoca, la fattispecie sarà regolata – esattamente al contrario di quanto in passato sostenuto – dalla disciplina legale dell'arbitrato rituale, senza dunque che si possa invocare la nullità, per indeterminatezza dell'oggetto, della clausola ambigua. La natura sostanziale dell'istituto (Cass. civ., Sez. III, sent. 19 ottobre 1963, n. 2784, in Giust. civ., 1964, I, 87), anziché processuale, ben si coglie nella circostanza che l'arbitro è qui investito del (mero) compito di stipulare, su incarico delle parti, un contratto attraverso il quale risolvere la questione controversa, analogamente a quanto le parti stesse sarebbero legittimate direttamente a fare.

Sulla base delle elaborazioni interpretative nel tempo sviluppatesi, nonché del dato normativo attualmente in vigore, può oggi, con maggiore certezza, affermarsi che la convenzione d'arbitrato (anche) irrituale è un contratto che determina la nascita in capo alle parti contraenti di una situazione complessa, di carattere strumentale, finalizzata alla tutela dei diritti, mediante il quale, dunque, non si risolve alcun conflitto, predisponendosi semmai il modo per risolverlo. In particolare, l'arbitrato libero presuppone, alla stregua della nozione di cui all'art. 1703 c.c., un mandato, senza rappresentanza, conferito congiuntamente da una pluralità di parti (minimo due) a uno o più arbitri (Cass. civ., sez. I, 5 luglio 2012, n. 11270) e preordinato alla stipula di un accordo contrattuale, il cui oggetto può essere avvicinato a una composizione amichevole, conciliativo-transattiva della lite o a un negozio di accertamento (Cass. civ., sez. I, 1 aprile 2011, n. 7574).

Al fondo delle opposte opinioni da sempre vi è, inoltre, una divergenza tra gli uni, che sostengono l'equivalenza degli effetti della decisione giudiziale e di quella arbitrale, e gli altri, che invece ritengono che la tutela pubblica mantenga in sé un quid pluris che il privato, pur su mandato delle parti stesse, non ha la facoltà di accordare. 

Ai fini della validità della clausola compromissoria in generale è richiesta la forma scritta ad substantiam ai sensi degli artt. 897 c.p.c. e 808 c.p.c. ed è altresì consolidato nella giurisprudenza di legittimità che siffatto requisito non postula che la volontà negoziale sia indefettibilmente espressa in un unico documento recante la contestuale sottoscrizione di entrambe le parti, potendo realizzarsi anche con lo scambio delle missive contenenti rispettivamente la proposta e l'accettazione del deferimento della controversia ad arbitri, dovendosi interpretare la richiesta di costituzione di un collegio arbitrale e la relativa accettazione come concorde volontà di compromettere la lite in arbitri (Cass. civ. sez. II, 30 giugno 2023, n. 18579).

La struttura processuale

Si deve tenere presente che la pronuncia dell'arbitrato irrituale e' il risultato di una fattispecie complessa costituita da un negozio-fonte (il mandato) e da una determinazione arbitrale, rappresentante l'adempimento del mandato ricevuto. In linea di principio saranno esperibili impugnative che riguardino entrambi i menzionati elementi costitutivi, anche in ogni ipotesi riconducibile all'eccesso di mandato, da distinguersi peraltro dall'abuso relativo, concretandosi quest'ultimo nel scorretto impiego del diritto applicabile e, come tale, non costituente errore sindacabile, inficiante la riferibilita' ai compromittenti della determinazione arbitrale, ma fonte esclusiva di responsabilità degli arbitri (Cass., civ., sez. I, sent. 13 dicembre 2009 n. 3637).

In altri termini, l'arbitrato libero o irrituale trova la sua fonte in un contratto di mandato con il quale due o più parti incaricano uno o più soggetti di definire una controversia per conto e nell'interesse dei mandanti, sicché la determinatezza o la determinabilità dei confini soggettivi ed oggettivi della controversia oggetto del compromesso arbitrale è la condizione indefettibile della validità del lodo.

La natura contrattuale dell'arbitrato irrituale – attivabile da qualunque atto di parte, purché recettizio e inequivoco, trascrivibile ai sensi dell'art. 2645-bis c.c. alla stregua di un contratto preliminare e avente effetto interruttivo della prescrizione ex art. 2943 comma 4 c.c. – non esclude quindi, alla luce di quanto sopra scritto, che la composizione degli interessi in conflitto avvenga proprio attraverso un processo, implicante una cognizione degli elementi di fatto e di diritto della controversia dedotta, nel rispetto delle regole del giusto processo, culminante, previa attività istruttoria, in una decisione adottata da un terzo imparziale. Da qui, allora, la reductio ad unum del fenomeno processuale d'arbitrato, raggruppante le due tipologie, rituale e irrituale – species dunque dell'unico genus –, accomunate dalla medesima causa di risoluzione della lite, da una procedimentalizzazione sempre presente, ancorché con gradi diversi che ne accentuano o meno il rigore, nonché dalla tipizzazione dei motivi di impugnativa del lodo. Il vero distinguo deve dunque ravvisarsi esclusivamente nell'essenza degli effetti voluti dalle parti che, a sua volta, si riflette sull'efficacia stessa del lodo (Cass. civ., sez. un., 5 dicembre 2000, n. 1251, in Giust. civ., 2002, I, 339).

È subito a dirsi che la natura del lodo d'arbitrato irrituale non si discosta da quella propria di una pronuncia d'arbitrato rituale, risolvendosi infatti, in entrambi i casi, nella medesima forza di legge che compete a tutti i contratti stipulati dalle parti ai sensi dell'art. 1372 c.c. Tuttavia, solo il lodo reso in ossequio alle regole del rito – e non già alla libera determinazione privata –, in quanto l'unico ad avere funzione giurisdizionale, può ottenere l'esecutorietà attraverso l'omologazione. La scelta dell'arbitrato irrituale comporta infatti, per volere stesso di legge, una deroga all'art. 824-bis e, conseguentemente, al successivo art. 825 c.p.c., palesandosi con essa l'intenzione pattizia di escludere quell'efficacia di sentenza divenuta ex lege propria del dictum degli arbitri rituali, suscettibile di essere reso esecutivo e trascrivibile. Tanto sono diversi gli effetti perseguiti dai compromittenti, che neppure l'erronea esecutorietà concessa al lodo irrituale vale ad originare un lodo rituale. L'applicazione delle regole proprie del lodo-sentenza è quindi inequivocabilmente esclusa per il lodo-contratto, con la conseguenza che la possibilità di attuare il diritto (in un qual senso) «giudicato» dall'arbitro irrituale è rimessa esclusivamente al buon comportamento delle parti, occasionando diversamente una nuova controversia sull'esecuzione della determinazione arbitrale rimasta inadempiuta, come se una delle parti venisse contra factum proprium. Quale ulteriore corollario discende altresì che il lodo contrattuale non può essere riconosciuto all'estero nelle forme della Convenzione di New York del 1958, risultando piuttosto destinato a circolare come semplice atto negoziale. Non è infatti possibile che il medesimo acquisti in un ordinamento diverso da quello d'origine un'efficacia maggiore di quella che gli è per sua natura attribuita, a fortiori se si pensa che le regole pattizie sono prive della forza di trasformare il lodo in un comando di coercibilità pari a una sentenza.

La funzione non giurisdizionale dell'arbitrato irrituale esplica inoltre riflessi pure sulla struttura stessa del processo, la quale, a dispetto di quella di rito, non si configura necessariamente di stampo giudiziale, risultando piuttosto rimessa alla scelta delle parti la determinazione dei caratteri relativi, all'unica e imprescindibile condizione, però, che sia sempre garantito il rispetto del principio del contraddittorio. Pertanto, il procedimento deve svilupparsi nelle forme vincolanti declinate nel patto d'arbitrato o, eventualmente, in quelle che il giudicante reputa maggiormente confacenti alla fattispecie, purché mai non manchi la garanzia della parità dei poteri esplicativi del diritto di difesa, implicante la possibilità di rappresentare la propria posizione e di conoscere compiutamente quella altrui, ancorché al di fuori del rigore di fasi progressive, non imbrigliante in tempi e modi determinati l'attività assertiva e deduttiva di parte (Cass. civ., sez. I, 8 settembre 2004, n. 18049, in Foro it., 2005, I, 1768). Nel rispetto di tali prerogative non sussistono peraltro neppure ostacoli per il tanto discusso accesso alla tutela cautelare proprio in presenza di un arbitrato irrituale, tanto che l'art. 669-quinquies c.p.c. ne dà espressamente conferma.

Inoltre, la devoluzione della controversia al collegio di arbitri irrituali non sottrae al giudice ordinario il potere di deliberare in ordine alla validità ed efficacia della clausola compromissoria, in quanto le parti con tale clausola non demandano agli arbitri l'esercizio di una funzione di natura giurisdizionale, ma conferiscono un mandato per l'espletamento, in loro sostituzione, di un'attività negoziate e, pertanto, costoro, intanto sono autorizzati ad eseguire il mandato, in quanto sia valido ed efficace l'atto che glielo conferisce. Ne consegue che, ove il giudice in tali ipotesi abdichi al compito di delineare i confini del mandato conferito agli arbitri, non interpretando compiutamente la portata della clausola compromissoria, incorre in carenza di motivazione.

A tal riguardo, va osservato che, in tema di arbitrato, la decisione del giudice ordinario, che affermi o neghi l'esistenza o la validità di un arbitrato irrituale, e che, dunque, nel primo caso non pronunci sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l'arbitrato e nel secondo dichiari, invece, che la decisione del giudice ordinario può avere luogo, non è suscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza, in quanto la pattuizione dell'arbitrato irrituale determina l'inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l'art. 819-ter c.p.c.  (Cass. civ. sez. I, 10 novembre 2022, n. 33149).

In evidenza

È manifestamente inammissibile la q.l.c. degli art. 669-quinquies e 669-octies c.p.c. in relazione all'arbitrato irrituale, vista la mancanza di base positiva nella lettura restrittiva fornitane rispetto all'accesso alla tutela cautelare (Corte. cost., 5 luglio 2002, n. 320).

Anche nel procedimento per arbitrato irrituale (come già per quello rituale), il rispetto della garanzia del principio del contraddittorio deve essere apprezzato in una chiave essenzialmente sostanziale e il relativo giudizio non si può ancorare alla verifica delle sole formalità eventualmente imposte dagli arbitri nella conduzione del procedimento, dovendosi invece accertare che il lodo arbitrale sia il risultato della valutazione di argomentazioni difensive e di elementi probatori sui quali le parti abbiano avuto modo di esperire la loro valutazione e di formulare le eventuali osservazioni (Cass. civ. sez. I, 17 novembre 2022, n. 33900).

Infine, in tema di arbitrato, il primo periodo dell'art. 819-ter, comma 1, c.p.c., nel prevedere che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice ordinario, implica, in riferimento all'ipotesi in cui sia stata proposta una pluralità di domande, da un lato, che la sussistenza della competenza arbitrale deve essere verificata con specifico riguardo a ciascuna di esse, non potendosi devolvere agli arbitri (o al giudice ordinario) l'intera controversia in virtù del mero vincolo di connessione, dall'altro che l'eccezione d'incompetenza dev'essere sollevata con specifico riferimento alla domanda o alle domande per le quali è prospettabile la dedotta incompetenza (Cass. civ. sez. VI, 24 settembre 2021, n. 25939).

Natura dell'eccezione di arbitrato

Prima della riforma l'eccezione di arbitrato libero era qualificata come eccezione di merito (Cass. civ., Sez. I, sent. 13 luglio 1988, n. 4587Cass. civ., Sez. U., 9 dicembre 1986, n. 7315) in quanto si riteneva che l'accordo compromissorio determinasse una temporanea rinuncia alla giurisdizione, in attesa di un atto sostanziale volto a determinare il rapporto e, quindi, provocava una infondatezza nel merito della pretesa a fronte di un diritto ancora da plasmare (LUISO, Diritto processuale civile, Milano, IV, 2009, 361).

Peraltro, ne derivava un sistema dove, la relativa eccezione poteva sempre indicarsi come relativa al merito (Cass. civ., Sez. III, sent. 14 luglio 2011, n. 15474Cass. civ., Sez. U., 27 ottobre 2008, n. 25770Cass. civ.sez. I, 30 maggio 2007, n. 12684; Trib. Genova 25 luglio 2007; Trib. Biella 28 febbraio 2005, n. 102, in Giur. it., 2006, I, 101).

Alla luce del dettato normativo vigente ed in confronto con il regime dell'eccezione di arbitrato rituale, sembra però doversi pervenire a diversa soluzione.

Il legislatore equipara, infatti, la valutazione della sussistenza della potestas iudicandi dell'arbitro rituale ad una questione di competenza derogabile sottoposta al rimedio del regolamento di competenza davanti alla Corte di cassazione.

Ne consegue, nell'impostazione seguita, che l'omessa formulazione dell'eccezione rende inefficace la convenzione di arbitrato limitatamente alla controversia dedotta e soltanto se la causa giunge ad una decisione di merito.

Si ha, quindi, una assimilazione della questione a quella di competenza o, per meglio dire, il legislatore sceglie di trattare la eccezione di compromesso al pari delle eccezioni di incompetenza mutuandone le modalità di decisione (UNGARETTI DELL'IMMAGINE, L'arbitrato irrituale tra negozio e processo: la qualifica della relativa eccezione tra rito e merito, in Rivista dell'arbitrato, 2014, 344).

Natura dell'eccezione di arbitrato: orientamenti a confronto

Anche nell'arbitrato rituale, la pronunzia arbitrale ha natura di atto di autonomia privata e correlativamente il compromesso si configura quale deroga alla giurisdizione. Pertanto, il contrasto sulla non deferibilità agli arbitri di una controversia per essere questa devoluta, per legge, alla giurisdizione di legittimità o esclusiva del giudice amministrativo costituisce questione, non già di giurisdizione in senso tecnico, ma di merito, in quanto inerente alla validità del compromesso o della clausola compromissoria. Consegue che rispetto a siffatta questione è inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione di cui all'art. 41 c.p.c. sia nell'ambito del processo arbitrale che del giudizio d'impugnazione ex art. 828 c.p.c., essendo il relativo mezzo proponibile con esclusivo riferimento alle questioni di giurisdizione in senso tecnico giuridico riconducibili al paradigma dell'art. 37 c.p.c. (Cass. civ., sez. un., 3 agosto 2000, n. 527).

La pronunzia arbitrale ha natura di atto di autonomia privata

In considerazione della natura giurisdizionale dell'arbitrato e della sua funzione sostitutiva della giurisdizione ordinaria, come desumibile dalla disciplina introdotta dalla l. n. 5/1994 e dalle modificazioni di cui al d.lgs. n. 40/2006, l'eccezione di compromesso ha carattere processuale ed integra una questione di competenza, che deve essere eccepita dalla parte interessata, a pena di decadenza e conseguente radicamento presso il giudice adito del potere di decidere in ordine alla domanda proposta, nella comparsa di risposta e nel termine fissato dall'art. 166 c.p.c. Né la competenza arbitrale, quanto meno in questioni incidenti su diritti indisponibili, può essere assimilata alla competenza funzionale, così da giustificare il rilievo officioso ex  art. 38, comma 3, c.p.c., atteso che essa si fonda unicamente sulla volontà delle parti, le quali sono libere di scegliere se affidare la controversia agli arbitri e, quindi, anche di adottare condotte processuali tacitamente convergenti verso l'esclusione della competenza di questi ultimi, con l'introduzione di un giudizio ordinario, da un lato, e la mancata proposizione dell'eccezione di arbitrato, dall'altro. (Cass. civ., sez. VI, 6 novembre 2015, n. 22748).

In materia di arbitrato, l'eccezione di compromesso sollevata innanzi al giudice ordinario, adito nonostante che la controversia sia stata deferita ad arbitri, pone una questione che attiene al merito, e non alla giurisdizione o alla competenza, in quanto i rapporti tra giudici ed arbitri non si pongono sul piano della ripartizione del potere giurisdizionale tra giudici, e l'effetto della clausola compromissoria consiste proprio nella rinuncia alla giurisdizione ed all'azione giudiziaria. Ne consegue che, ancorché formulata in termini di accoglimento o rigetto di una eccezione di incompetenza, la decisione con cui il giudice, in presenza di una eccezione di compromesso, risolvendo la questione così posta, chiude o non chiude il processo davanti a sé, va considerata come decisione pronunciata su questione preliminare di merito, in quanto attinente alla validità o all'interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria (Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2020, n. 26696). 

L'eccezione di compromesso integra una questione di merito

Secondo l'ultimo orientamento della Corte di legittimità, pertanto, in tema di arbitrato, configurandosi la devoluzione della controversia agli arbitri come rinuncia all'esperimento dell'azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, attraverso la scelta di una soluzione della controversia con uno strumento di natura privatistica, la relativa eccezione dà luogo ad una questione di merito, riguardante l'interpretazione e la validità del compromesso o della clausola compromissoria, e costituisce un'eccezione propria e in senso stretto (riservata esclusivamente alla parte), in quanto avente ad oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo dell'esercizio della giurisdizione statale, con la conseguenza che deve essere proposta dalle parti nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito e soggetta alle preclusioni e alle decadenze proprie del rito (Cass. civ., sez. I, 17 marzo 2020, n. 7399).

In evidenza

Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 819-ter comma 2 c.p.c., nella parte in cui esclude l'applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all'art. 50 c.p.c., atteso che la norma censurata, non consentendo l'applicabilità dell'art. 50 c.p.c., impedisce che la causa possa proseguire davanti all'arbitro o al giudice competenti e, conseguentemente, preclude la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda (Corte cost., 19 luglio 2013, n. 223).

L'effetto della statuizione è che giudice ed arbitro sono entrambi partecipi della medesima giurisdizione ed in ipotesi di conflitto di attribuzioni si determina una questione di competenza in senso proprio, mentre in ipotesi di arbitrato estero la questione diviene di giurisdizione.

La differenza tra i due strumenti non si manifesta, quindi, nel momento genetico che risiede per entrambi nella volontà delle parti, né nella modalità di svolgimento che è sempre un processo iniziato con la proposizione di una domanda ma emerge negli effetti della decisione che nell'arbitrato libero non sono esecutivi e nelle rispettive forme di impugnazione dei lodi.

Nel momento in cui si ponga l'eccezione di compromesso irrituale si solleva allora un impedimento processuale allo svolgimento del giudizio di merito davanti all'autorità statuale, perché i paciscenti hanno scelto un diverso modo di risoluzione della lite che rende in quel momento inutile il processo statuale.

Senza in questa sede poter ripercorrere tutte le opinioni sul tema che si sono succedute nel tempo, si accede dunque, per quanto rilevato, alle opinioni di chi qualifica l'eccezione in commento come di rito.

Per qualificare come di merito l'eccezione in discorso occorre invece ritenere che la stipula del patto compromissorio comporti una rinuncia, oltre che alla tutela giurisdizionale, ai diritti sostanziali delle parti, che si obbligherebbero ad accettare ex ante le regole di condotta emanate dagli arbitri quale espressione diretta della volontà degli stessi stipulanti.

La stessa giurisprudenza di merito ha osservato che in ordine all'eccezione di arbitrato irrituale, essa non è equiparabile ad un'eccezione di rito attinente a questioni di competenza o giurisdizione, ma integra un'eccezione preliminare di merito, in quanto per il tramite di una clausola compromissoria irrituale le parti pattuiscono una preventiva rinuncia alla giurisdizione in favore di una risoluzione negoziale di eventuali future controversie, essendo sottesa all'eccezione di compromesso la questione di diritto sostanziale che verte sulla validità ed interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria. Pur non essendo direttamente applicabile, nel rapporto tra giudici ed arbitri irrituali, l'art. 819 ter c.p.c che attiene unicamente all'arbitrato rituale, la parte che intenda far valere l'esistenza di una clausola d'arbitrato irrituale è tenuta, a pena di decadenza, a sollevare l'eccezione di merito all'atto della tempestiva costituzione in giudizio (App. Venezia, 22 dicembre 2021, n. 2984).

Connesso a tale aspetto è quello relativo alla adozione di un decreto ingiuntivo da parte del giudice ordinario, pur in presenza di una clausola compromissoria.

Al riguardo, la Suprema Corte ha osservato che se è vero che il giudice ordinario è sempre competente ad emettere decreto ingiuntivo nonostante l'esistenza di una clausola compromissoria prevista nel contratto dal quale abbia origine il rapporto creditorio dedotto in giudizio, tuttavia, quando sia stata proposta opposizione al decreto ingiuntivo si instaura il normale procedimento di cognizione e, se il debitore eccepisce la competenza arbitrale, si verificano, a seguito della contestazione, i presupposti fissati nel compromesso e, conseguentemente, viene a cessare la competenza del giudice precedentemente adito, il quale deve revocare il decreto ingiuntivo e rinviare le parti davanti al collegio arbitrale ovvero all'arbitro unico, secondo i casi (Cass.civ. sez. VI, 24 settembre 2021, n. 25939).

Competenza cautelare in caso di arbitrato

Con tre semplici parole il legislatore ha finalmente risolto una diatriba giurisprudenziale e dottrinale che durava ormai da anni.

Con l'operata riforma, infatti, è stata definitivamente sancita la competenza del giudice ordinario in materia cautelare anche in pendenza di arbitrato (o in concomitanza con clausole compromissorie o compromessi) di tipo irrituale (o libero, che dir si voglia).

Prima di questa novella, infatti, la mancanza di una specifica indicazione legislativa sulla competenza della giustizia ordinaria con riferimento ai provvedimenti cautelari (ancorché in pendenza di arbitrato) era limitata (o meglio formalmente limitata) all'arbitrato rituale.

L'art. 669-quinquies c.p.c., infatti, non facendo alcuno specifico riferimento sul punto è sempre stato interpretato con riferimento al solo arbitrato rituale (proprio perché il codice di rito non conosceva l'alternativa irrituale che – come si evince dal termine stesso – è frutto dell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale).

La Corte di cassazione, pressoché in modo costante, ha sempre ravvisato nel compromesso per arbitrato libero o irrituale una rinuncia dei contraenti alla tutela giurisdizionale dei diritti relativi al rapporto controverso.

Ciò in quanto detto arbitrato si concreta in un atto negoziale compiuto, in sostituzione della volontà delle parti, dagli arbitri che, come mandatari di queste, non svolgono attività di giudici.

Tale rinuncia alla tutela giurisdizionale, secondo la prospettazione della Suprema Corte, non poteva non riferirsi anche alle misure cautelari. Invero, i provvedimenti emessi in via cautelare sono preordinati e sono strumentali, nel nostro sistema processuale, ad un giudizio di merito (salvo per quanto si vedrà in seguito con riferimento alle ulteriori novelle della riforma in commento); essi, quindi, presuppongono la possibilità di proposizione o la pendenza di un processo di merito relativo al diritto da tutelare.

Se detto giudizio non sia proponibile per una libera scelta delle parti, non vi è neppure spazio per l'emissione di un provvedimento che sia diretto ad assicurare gli effetti di un giudizio di merito non instaurabile (Cass. civ., Sez. I, sent. 25 novembre 1995, n. 12225, in Giur. it., 1996, I, 1, 897; Cass. civ., Sez. I, 29 gennaio 1993, n. 1142, in Riv. Arbitrato, 1994, 83).

Avverso questa posizione della giurisprudenza di Cassazione si era formato un consistente diverso filone di merito (e dottrinale) che affermava l'esatto contrario.

Secondo quest'ultima posizione, infatti, la clausola compromissoria che preveda la devoluzione ad un collegio arbitrale di tipo irrituale, non preclude la possibilità, per gli interessati, di ricorrere al giudice ordinario, al fine di ottenere un provvedimento cautelare.

Tale soluzione, da ritenersi valida tanto nel caso di arbitrato rituale che irrituale, trae le sue basi dalla considerazione che le parti non effettuano, con detta clausola, una rinuncia alla tutela giurisdizionale, in presenza della quale si creerebbe un pericoloso «vuoto di giustizia». La rinuncia alla giurisdizione insita nella sottoscrizione di una clausola compromissoria per arbitrato libero è limitata al giudizio di merito e non può investire anche la tutela cautelare (Trib. Rimini, 8 settembre 2003, in Dir. e prat. soc., 2003, 24, 79; Trib. Lanciano, 29 novembre 2001, in Giur. merito, 2002, 340; Trib. Catania, 16 ottobre 2001, in Società, 2002, 63; Trib. Torino, 21 maggio 2001, in Riv. Arbitrato, 2002, 85; Tribunale Roma, 7 agosto 1997, in Giur. it., 1998, 2070).

In tema societario si osserva che ai sensi dell'art. 35 comma 4 del d.lgs. n. 5/2003, la devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell'art. 669-quinques c.p.c., ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera.

La norma ora riportata, se da una parte conferma la tradizionale esclusione del potere cautelare in capo agli arbitri, enuclea una rilevantissima (e, anzi, l'unica) eccezione al principio codicistico (art. 669-quinquies c.p.c.), riservando agli arbitri l'autonomo potere di sospendere l'efficacia della deliberazione assembleare impugnata. La natura cautelare della misura sospensiva rende, quindi, la previsione dell'art. 35, co. 5, un unicum nel sistema della cognizione arbitrale.

Come è noto, peraltro, secondo l'orientamento, dottrinale e giurisprudenziale maggioritario (ma non del tutto univoco), nonostante la devoluzione del potere cautelare agli arbitri, rimane intatta la possibilità di ricorrere al giudice ordinario per ottenere il provvedimento cautelare fino a quando il collegio arbitrale o l'ufficio dell'arbitro unico non si sia materialmente costituito e, dunque, non possa materialmente procedere ad esaminare tempestivamente l'istanza di sospensione dell'efficacia della delibera. Si è, così, correttamente affermato che, stante la modalità di instaurazione del procedimento arbitrale, deve riconoscersi, fino al momento in cui il collegio arbitrale sia costituito, la competenza del giudice ordinario a provvedere sull'istanza di sospensione della delibera impugnata (Trib. Roma, 26 aprile 2018, n. 2378; Trib. Napoli, 30 settembre 2005 secondo il quale rimangono al giudice ordinario soltanto alcuni segmenti d'intervento, con particolare riferimento al periodo che va dalla proposizione della domanda arbitrale alla formazione del collegio giudicante o all'accettazione dell'arbitro).

Arbitrato e tutela cautelare: orientamenti a confronto

In presenza di una clausola per arbitrato irrituale non è ammissibile la tutela cautelare, che comprende anche l'accertamento tecnico preventivo.

Cass., sez. III, 7 dicembre 2000, n. 15524

Pur in presenza di clausola devolutiva della controversia tra le parti ad arbitrato irrituale, è consentita la tutela cautelare innanzi al giudice ordinario.

Trib. Terni, 12 gennaio 2004

Anche la dottrina si è sempre prevalentemente uniformata a questa posizione delle corti di merito (ARIETA, Riv. dir. priv., 1993, 758; SASSANI, Riv. arb., 1996, 709).

Non è mancata infine anche una pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost., 5 luglio 2002, n. 320, in Riv. arbitrato, 2002, 503) che, tuttavia, dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che la questione era meramente interpretativa, e pur prendendo atto delle diverse posizioni sopra richiamante, non ha voluto assumere una posizione a riguardo (come in altre occasioni ha avuto modo di fare con sentenze interpretative di rigetto).

Il novellato art. 669-quinquies c.p.c., quindi, con l'introduzione delle parole «anche non rituali» ha definitivamente risolto questa annosa questione, riconoscendo finalmente che con la devoluzione agli arbitri irrituali non può ritenersi implicita la rinuncia alla giurisdizione ordinaria anche per le pronunce cautelari che, per mancanza di poteri coercitivi degli arbitri, non potrebbero essere altrimenti emanate.

Riferimenti

G. Alpa, L'arbitrato irrituale. Una lettura civilistica dell'art. 808-ter del codice di procedura civile, in Contr. e impr., 2013, 320;

E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato Vassalli, XV, 2, Torino, 1960;

P. Biavati, Arbitrato irrituale, in Arbitrato. Commentario, diretto da F. Carpi, Bologna, 2007;

M. Bove, L'arbitrato irrituale dopo la riforma, in www.judicium.it ;

F. Carpi, Il procedimento nell'arbitrato irrituale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 389;

E. Fazzalari, I processi arbitrali nell'ordinamento italiano, in Riv. dir. proc., 1968, 459 ss.;

F. Galgano, Giudizio e contratto nella giurisprudenza sull'arbitrato irrituale, in Contr. e impr., 1997, 885;

F. P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano, IV, 2009, 361;

B. Sassani, L'arbitrato a modalità irrituale, in Riv. arbitrato, 2007, 25;

S. Satta, Nota sull'arbitrato libero, in Rass. arbitrato, 1974, 1;

G. Verde, Arbitrato irrituale, in Riv. arbitrato, 2005, 665;

V. Vigoriti, L'autonomia della clausola compromissoria per arbitrato irrituale, in Riv. arbitrato, 1996, 62;

F. Ungaretti dell'immagine, L'arbitrato irrituale tra negozio e processo: la qualifica della relativa eccezione tra rito e merito, in Rivista dell'Arbitrato, fasc.2, 2014, 344.

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