Impugnazione del provvedimento conclusivo dell’opposizione a decreto ingiuntivo riguardante onorari di avvocato

05 Febbraio 2019

Alla Suprema Corte viene chiesto di definire il mezzo di impugnazione esperibile avverso il provvedimento che abbia erroneamente dichiarato l'inammissibilità dell'opposizione al decreto ingiuntivo avente ad oggetto le somme destinate al pagamento dell'onorario di avvocato, proposta con le forme del rito sommario di cognizione ordinario ex artt. 702-bis e ss. c.p.c..
Massima

Il provvedimento con cui è stata decisa l'opposizione a decreto ingiuntivo riguardante onorari di avvocato che sia stata introdotta ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c., seguendo il rito sommario codicistico e non quello speciale di cui all'art. 14 del d.lgs. n. 150/2011, deve essere impugnato con l'appello ex art. 702-quater, trovando applicazione il principio di apparenza.

Il caso

Avverso un decreto ingiuntivo per il pagamento dell'onorario di un avvocato per l'attività professionale svolta, il cliente proponeva opposizione con ricorso ex 702-bis c.p.c..

Il giudice di primo grado, interpretando il combinato disposto degli artt. 645 e 702-bis c.p.c, dichiarava con ordinanza ex art. 702-ter c.p.c. inammissibile il ricorso, reputando necessario il rispetto delle forme del rito ordinario.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione nel rispetto del dettato del quarto comma dell'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, in virtù del quale l'ordinanza che definisce il giudizio vertente sulla liquidazione degli onorari e dei diritti dell'avvocato non è appellabile.

La questione

Alla Corte viene chiesto di definire il mezzo di impugnazione esperibile avverso il provvedimento che abbia erroneamente dichiarato l'inammissibilità dell'opposizione al decreto ingiuntivo avente ad oggetto le somme destinate al pagamento dell'onorario di avvocato, proposta con le forme del rito sommario di cognizione ordinario ex artt. 702-bis e ss. c.p.c..

Le soluzioni giuridiche

La Corte, individuata la normativa applicabile al caso concreto nell'art. 14 d.lgs.n. 150/2011, in base al quale le controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato e l'opposizione al decreto ingiuntivo riguardante lo stesso oggetto sono regolate dal rito sommario di cognizione, nel ribadire le conclusioni già prese da Cass. civ., Sez. Un., 23 febbraio 2018, n. 4485, afferma che le controversie in questione sono destinate a essere introdotte nelle forme sì del procedimento sommario di cognizione, ma non di quello cd. “ordinario” previsto dal codice di procedure civile. Dalle norme processuali in materia, infatti, si evince che all'avvocato è lasciata la scelta tra il procedimento sommario cd. necessario o “speciale” di cui agli artt. 3, 4 e 14 del d.lgs. n.150/2011, la cui ordinanza definitiva non è appellabile e il procedimento monitorio, restando la fase dell'opposizione a decreto ingiuntivo regolata dal rito sommario di cognizione “speciale”, integrato dagli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c.. Dunque, resta esclusa l'ipotesi dell'introduzione dell'azione sia nelle forme del rito ordinario, sia nel rispetto del procedimento regolato dagli art. 702-bis e ss. c.p.c., così come ordinariamente inteso.

Poste queste premesse, la Cassazione procede a chiedersi quale sia il mezzo di impugnazione da esperire avverso l'ordinanza del giudice che, pronunciandosi ai sensi del 702-ter c.p.c., abbia reputato il ricorso inammissibile perché proposto in quelle che ha indebitamente ritenuto essere forme erronee.

In merito, vengono in rilievo i principi di “apparenza” e “affidamento”, in virtù dei quali l'individuazione del mezzo di impugnazione non può prescindere dalla qualificazione data dal giudice all'azione proposta, indipendentemente dalla sua esattezza, e, dunque, dall'individuazione del mezzo di impugnazione che appare, in virtù di quella decisione, idoneo a censurare il decisum. Invero, già le Sezioni Unite del 1999 avevano ritenuto preclusa alla parte soccombente la possibilità di scegliere un mezzo di gravame scaturente da una qualificazione propria e diversa da quella offerta dal giudice autore del provvedimento che si intende censurare. Ciò in virtù del rispetto dei principi della certezza dei rimedi impugnatori e dell'economia dell'attività processuale in quanto, è nella decisione del giudice, da cui si desume la qualificazione dell'azione, nonché nella natura assunta dal procedimento nel suo concreto svolgersi, che le parti devono poter fare affidamento.

La Corte, poi, ricorda come, con riferimento alla disciplina antecedente alla riforma dei riti civili di cui al d.lgs. n. 150/2011, la giurisprudenza riteneva che il giudizio di opposizione al procedimento di liquidazione degli onorari di avvocato dovesse essere deciso in camera di consiglio con ordinanza non impugnabile, così come stabilito dagli artt. 29 e 30 della l. 13 giugno 1942, n. 794. Conseguentemente, anche ove fosse seguito all'opposizione il rito ordinario, al provvedimento conclusivo, pur se adottato nella forma di sentenza, in virtù del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, doveva essere riconosciuta natura di ordinanza, sottratta all'appello ed impugnabile solo con il ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. Laddove, però, la contestazione avesse riguardato l'an del diritto dell'avvocato al compenso, e non solo il quantum della liquidazione, la sentenza pronunciata all'esito del giudizio di opposizione doveva essere impugnata con l'appello.

Applicando i principi suesposti al caso di specie, la Cassazione conclude affermando che, poiché la contestazione verteva sull'an del compenso ed il giudice si era pronunciato con ordinanza ai sensi dell'art. 702-ter c.p.c., l'ordinanza di inammissibilità deve essere impugnata con l'appello. Infatti, per quanto erronea, la qualificazione dell'azione data dal giudice risulta vincolante; pertanto, il mezzo di impugnazione esperibile deve essere individuato non in quello implicitamente indicato dall'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, ma nell'appello, esperibile ai sensi del 702-quater c.p.c..

Osservazioni

Come si può agevolmente evincere dalla esposizione della soluzione offerta dalla Cassazione, ad intrecciarsi sono varie questioni giuridiche, sia di natura sostanziale che processuale, per cui appare opportuno esaminare ognuna di queste.

In primo luogo, merita approfondimento il principio da cui nasce, prima di specifici interventi del legislatore, la possibilità di impugnare il provvedimento, da alcuni definito “abnorme”, non sussumibile formalmente nel topos “sentenza”, ma sostanzialmente comprendente le statuizioni previste dagli artt. 277-279 c.p.c.. In virtù delprincipio di prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento (fortemente discusso in dottrina), non occorre che si guardi alla forma del provvedimento, ma al suo contenuto e, logicamente, agli effetti giuridici che è destinato a produrre. Dunque, a discapito di una tesi minoritaria favorevole al rispetto della certezza del diritto e, conseguentemente, dell'esperibilità dell'actio nullitatis avverso il provvedimento anomalo, l'orientamento maggioritario si è pronunciato a favore dell'esperibilità dei mezzi di impugnazione ordinari nei confronti del provvedimento decisorio e definitivo, indipendentemente dalle vesti da esso indossate. Invero, tale principio, invocato per consentire l'impugnazione del provvedimento, non solo viene contraddetto al momento della qualificazione dello stesso per il vaglio della sua validità, ma risulta scalfito soprattutto dalle recenti scelte del legislatore, volte a superare la tradizionale differenza tra sentenza, quale provvedimento decisorio e sottoposto al regime impugnatorio ordinario e l'ordinanza, quale provvedimento atto a regolare lo svolgimento del processo e, pertanto, sottratto al sistema delle impugnazioni.

Tra le iniziative legislative a favore di ordinanze dal contenuto decisorio, vi è proprio quella introduttiva dell'ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione ex artt. 702-bis ter e quater c.p.c., caratterizzato da un accertamento elastico, ma di certo non sommario, che è stata delineata dal legislatore quale provvedimento del tutto equivalente a una sentenza, in quanto appellabile per espressa previsione, nonché, logicamente, idonea a passare in giudicato. Tuttavia, dopo la l. n. 69/2009 il legislatore è intervenuto nuovamente sul rito sommario di cognizione, plasmando un rito sommario “speciale”, disciplinato dagli artt. 3 4 e 14 del d.lgs. n.150/2011, atto a regolare le controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato, la cui ordinanza conclusiva non è appellabile.

Ora, come già accennato, durante la vigenza della l. 13 giugno 1942 n. 794, qualora la controversia avesse interessato soltanto il quantum della liquidazione, laddove fosse stato seguito il rito ordinario, al provvedimento conclusivo, pur se formalmente consistente in una sentenza, doveva essere riconosciuta natura di ordinanza. Diversamente, nell'ipotesi in cui la contestazione avesse riguardato anche i presupposti stessi del diritto del patrono al compenso e, dunque, l'an debeatur, il provvedimento decisorio doveva essere appellabile. Infatti, riteneva la giurisprudenza, in quest'ultima eventualità non sarebbe risultato sufficiente un procedimento camerale speciale e il provvedimento conclusivo non avrebbe potuto che essere una sentenza, a prescindere dalla sua forma.

Dunque, queste massime non possono non essere considerate espressione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, nonché, logicamente, manifestazione dell'ambivalente concetto di sentenza sostanziale. Tale principio, però, soffre, ora come allora, anche se su basi diverse, un'eccezione che si verifica laddove il giudice qualifichi, espressamente o implicitamente, l'azione proposta. In tal caso, al principio in questione si sostituiscono quelli dell'apparenza e dell'affidamento.

Secondo tali principi, l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale deve essere compiuta in base alla qualificazione data dal giudice all'azione proposta, alla controversia e alla sua decisione, prescindendo sia dalla sua esattezza, sia dal tipo di procedimento adottato dalla parte (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 24 febbraio 2005, n. 3816, in Giur. it. 2006, 1674; Cass. civ., Sez. Un., 1° febbraio 2008, n. 2434). Così, il principio dell'apparenza consente di individuare immediatamente il mezzo di impugnazione, escludendo che si possa conoscere mezzo di impugnazione solo ex post, ad impugnazione avvenuta (cfr. in dottrina E. Occhipinti, L'appello: appellabilità, competenza, atti introduttivi, in F.P. Luiso – R. Vaccarella, a cura di, Le impugnazioni civili, Torino, 2013, 200).

Il principio di apparenza, trova la sua ratio nell'intento di evitare che la realtà giuridica si distanzi eccessivamente da quella concreta, e ha lo scopo, dunque, di rendere comunicanti le sfere dell'essere e del dover essere giuridico. Questo trova riscontro in vari articoli del codice civile; si pensi all'art. 534 c.c., all'art. 1189 c.c., nonché agli artt. 1398, 1415, 1445, 1729 c.c. In generale, il principio di apparenza consente al soggetto che, in buona fede, abbia legittimamente fatto affidamento su uno status o una situazione giuridica, di veder tutelata dall'ordinamento la propria posizione, fermo restando il naturale bilanciamento con gli altri interessi in gioco, posto in essere dal legislatore nel dettato normativo.

Risulta chiara, dunque, la strettissima connessione del principio di apparenza con quello dell'affidamento e della buona fede; affidamento che, proprio nella clausola generale della buona fede, trova la sua origine.

Risulta agevole, a questo punto, comprendere come la buona fede, origine di un affidamento in virtù del quale è da considerare responsabile il soggetto che lo tradisca, si traduca nel principio di affidamento nella sfera processuale che, utopicamente, dovrebbe costituire lo specchio della realtà sostanziale. Se il contraente deve poter riporre, in virtù della buona fede, affidamento nella controparte, a fortiori deve poterlo riporre nel provvedimento del giudice e nella qualificazione dell'azione proposta, in esso contenuta, esplicitamente o meno. Inoltre, può essere ormai considerato pacifico dalla giurisprudenza, di cui la sentenza in epigrafe costituisce un'esponente, che imporre di fatto al soccombente di tutelarsi proponendo impugnazioni a titolo cautelativo, a causa dell'incertezza dovuta alla qualificazione operata dal giudice a quo, sarebbe violativo dell'unica possibile coniugazione dei principi della certezza dei rimedi impugnatori e dell'economia dell'attività processuale. La decisione in epigrafe, dunque, risulta coerente con una ragionevole interpretazione di principi fondanti il diritto tanto sostanziale quanto processuale.

Tuttavia, va comunque sottolineato che, imprescindibile punto di riferimento del soccombente e, in termini più generali, del consociato dovrebbe essere il dettato legislativo il cui rispetto potrebbe costituire, come in questo caso, un correttivo all'erronea qualificazione offerta dal giudice. Questa, così come svariate altre pronunce in tutti i campi del diritto, rappresenta un ulteriore passo verso la commistione dei due macrosistemi di civil e common law, comportando la supremazia della pronuncia giudiziaria sulla lettera della legge.

Guida all'approfondimento
  • G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. 2, Bari, 2015, p. 337;
  • C. Besso, Principio di prevalenza della sostanza sulla forma e requisiti formali del provvedimento: un importante revirement della Corte di Cassazione, in Giur. it., 2007, p. 948;
  • F. Caringella e L. Buffoni, Manuale di diritto civile, Roma, 2018, pp. 563 e ss.;
  • A. Cerino Canova e C. Consolo, v. Impugnazioni, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XVI, Roma, 1993, p. 10.

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