La decorrenza dei “nuovi” parametri indennitari (di cui al d.lgs. n. 23 del 2015): riflessioni sull'efficacia temporale dello ius superveniens

04 Marzo 2019

Il problema dell'individuazione dell'ambito temporale di applicazione dell'art. 3, comma 1, d.l. n. 87 del 2018 (c.d. decreto dignità), convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 2018 e relativo alla soglia indennitaria prevista per le ipotesi dei licenziamenti illegittimi, non può essere risolto in base al semplice richiamo all'art. 11, disp. prel. c.c...
Abstract

Il problema dell'individuazione dell'ambito temporale di applicazione dell'art. 3, comma 1, d.l. n. 87 del 2018 (c.d. decreto dignità), convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 2018 e relativo alla soglia indennitaria prevista per le ipotesi dei licenziamenti illegittimi, non può essere risolto in base al semplice richiamo all'art.11, disp. prel. c.c.

La questione infatti esige, anche alla luce di un significativo passaggio motivazionale della sentenza costituzionale 8 novembre 2018, n. 194, una riflessione più ampia che tenga conto dei principi generali elaborati dalla tradizione lavoristica in tema di ius superveniens.

Ineludibile infine appare il confronto con alcune più recenti pronunce della Corte di cassazione e con la specifica funzione della norma in esame, contenuta in un decreto volto a migliorare, senza ulteriori differenziazioni, le tutele dei lavoratori assunti dopo il Jobs act.

La questione interpretativa

L'art. 3, comma 1, d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. decreto dignità), convertito con modificazioni dalla l. 9 giugno 2018, n. 96, dispone testualmente quanto segue: « 1. all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, le parole “non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità” sono sostituite dalle seguenti: «non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità ».

La norma incide direttamente sulla predeterminazione dei parametri minimo e massimo dell'indennità prevista per le ipotesi di licenziamento illegittimo, intimato ai dipendenti rientranti nell'ambito di applicazione di cui all'art. 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Trattasi, come noto, dei lavoratori del settore privato, aventi la qualifica di operai, impiegati o quadri assunti a tempo indeterminato da decorrere dal 6 marzo 2015, ivi compresi i lavoratori beneficiari di conversione di precedenti rapporti a termine o di apprendistato, avvenuta in epoca successiva a tale data.

Resta escluso dal campo di applicazione del decreto il pubblico impiego in quanto, come indicato dalla novella di cui all'art. 21, d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, di modifica dell'art. 63, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni la tutela contro i licenziamenti illegittimi rimane disciplinata dall'art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni, come integrato dal suddetto art. 63, d.lgs. n. 165 del 2001.

In particolare, la citata disposizione, recante “indennità di licenziamento ingiustificato e incremento contribuzione contratto a tempo determinato”, interviene sulla sola quantificazione dell'indennità prevista dall'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, per i licenziamenti privi di giustificato motivo oggettivo o soggettivo ovvero una giusta causa.

Nulla è invece mutato per le omologhe ma distinte ipotesi dei licenziamenti nulli di cui all'articolo 2 del citato d.lgs. n. 23 nonché dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, in cui sia direttamente dimostrata l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore: essendo sempre prevista in detti casi la tutela reintegratoria del dipendente, oltre ad una indennità risarcitoria autonomamente disciplinata.

Nel quadro normativo generale, la modifica legislativa, che si limita ad estendere la forbice indennitaria ad più ampio range intercorrente da sei e trentasei mensilità, si innesta sul nuovo regime a tutele crescenti introdotto dal Jobs act: regime che coesiste, a sua volta, con le omologhe ma distinte tutele previste dalla l. n. 92 del 2012 (c.d. Monti-Fornero) e dal previgente art. 18 del 1970 tuttora applicabile, seppur limitatamente ai licenziamenti intimati prima del 18 luglio 2012 -data di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012.

In ordine all'efficacia temporale della disposizione, essa non reca, a differenza che per le altre norme in materia di contratti di lavoro a termine (cfr. art. 1, comma 2), indicazioni ad hoc, mentre, in via più generale, l'art. 15 individua la data di entrata in vigore del decreto nel “giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale”, avvenuta il 14 luglio.

Si pone dunque il problema di individuare, in carenza di norme transitorie, l'ambito di efficacia temporale della nuova soglia parametrica prevista per i licenziamenti di cui all'art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, percorrendo le due - uniche e contrapposte - opzioni interpretative in campo: l'una favorevole e l'altra contraria alla “retroattività” della disposizione.

Secondo una prima ricostruzione, fatta propria da alcune pronunce di merito (Trib. Roma, 2 ottobre 2018, n. 7202; Trib. Catania, 11 dicembre 2018), la modifica legislativa in esame riguarderebbe, in carenza di specifiche disposizioni sul punto, i soli licenziamenti irrogati in data successiva al 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del decreto legge, e tanto in deferente ossequio al principio di irretroattività della legge sostanziale.

Ciò comporterebbe dunque la necessità di distinguere, ai fini dell'individuazione del regime di tutela applicabile, non solo tra lavoratori assunti prima o dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 96 (il 7 marzo 2015) ma anche, nell'ambito dei lavoratori sottoposti al regime di tutele crescenti, fra dipendenti licenziati prima e dipendenti licenziati dopo il 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del cd. Decreto dignità.

A ben vedere, la soluzione si innesterebbe su quel filone giurisprudenziale sviluppatosi all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 92 del 2012 e sfavorevole alla indifferenziata applicazione del nuovo e frammentato regime di tutela ai rapporti giuridici sorti anteriormente alla nuova disciplina (cfr. Cass. n. 301 del 2014).

In dette pronunce, infatti, come da ultimo ribadito da Cass. 11 maggio 2015, n. 9462, rilevando l'assenza nel testo normativo di un'espressa disposizione derogatoria, si è limitata a far leva sul generale principio dell'irretroattività della legge, di cui all'articolo 11 delle preleggi: principio che impedirebbe tout court l'applicazione della nuova legge, oltre che ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, anche a quelli sorti anteriormente e ancora in vita ove, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso.

Tale scelta ermeneutica, fondata su una rigida applicazione della regola dell'art. 11, disp. prel. c.c., non risulta tuttavia decisiva ai nostri fini e deve essere rimeditata, con riferimento all'art. 3, d.l. n.87 del 2018, anche in ragione di quanto evincibile da un significativo passaggio motivazionale della sentenza della Corte cost. 8 novembre 2018, n. 94.

Come noto, in tale pronuncia il Giudice di legittimità ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 35, 76 e 117, Cost., l'art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, sia nel testo originario sia nel testo modificato dall'art. 3, comma 1, d.l. 12 luglio 2018, n. 87 - limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Senza dover ripercorrere in questa sede il percorso argomentativo della sentenza, è sufficiente rilevare che, seppur chiamata a pronunciarsi su una norma previgente e in relazione ad un licenziamento pacificamente assoggettato al d.lgs. n.23 del 2015, la Corte ha dato conto in motivazione del fatto che, successivamente all'ordinanza di rimessione, è entrato in vigore il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv., con modif., nella l. 9 agosto 2018, n. 96.

La sopravvenienza normativa, in particolare, anziché essere ritenuta dal Collegio del tutto ininfluente ai fini di causa, in virtù del principio di irretroattività della norma sopravvenuta rispetto al relativo fatto generatore, è stata prudentemente esaminata in relazione alla questione di legittimità proposta dal giudice remittente.

Ed invero, al dichiarato fine di escludere l'eventuale mutazione, per effetto della novella, dei termini essenziali della questione posta dal giudice a quo, la Corte ha rilevato che ad essere censurato nella fattispecie è stato il solo meccanismo di determinazione dell'indennità, basato sull'anzianità di servizio e non già il quantum della soglia indennitaria prevista, oggetto di modifica legislativa.

Tale premessa ermeneutica ha dunque consentito al Giudice delle leggi di escludere la pur prospettata “necessità di restituire gli atti al giudice rimettente” perché valutasse “la permanenza o no dei dubbi di legittimità costituzionale espressi nell'ordinanza di rimessione” e di proseguire nel vaglio di legittimità costituzionale della norma.

Se tale è la conclusione, risulta facile dedurre, invertendo una delle premesse del sillogismo svolto, che nella diversa ipotesi in cui ad essere oggetto di rimessione fosse stata proprio la congruità della soglia indennitaria incisa dalla novella, la Corte avrebbe dovuto, diversamente da quanto avvenuto in concreto, rimettere gli atti al primo giudice, per le conseguenti determinazioni.

E tanto sull'evidente presupposto della potenziale applicabilità della nuova disposizione di cui all'art. 3, d.l. 12 luglio 2018, n. 87, anche ad un licenziamento (quello reso oggetto del contenzioso che ha determinato la rimessione degli atti alla Consulta) verificatosi prima della entrata in vigore della legge, e tanto in apparente contrasto con l'art. 11, disp. prel. c.c.

Ciò posto e compresa la natura problematica del tema, occorre dunque affrontare la questione intertemporale ponendosi in una prospettiva diversa da quella sinora seguita, partendo da una riflessione più generale sullo stesso principio di retroattività dello ius superveniens in materia di rapporti di lavoro.

La retroattività della legge sostanziale nei rapporti di lavoro

Come noto, la regola secondo cui la legge non dispone che “per l'avvenire” ed è priva di efficacia retroattiva, risulta costituzionalizzata solo in materia penale (art. 25, Cost. e 2, c.p.), ben potendo essere derogata nell'ordinamento civile, le cui norme possono avere valenza retroattiva espressa ovvero tacita, qualora sia la stessa funzione della legge a rilevarlo in modo inequivoco.

Nello specifico settore giuslavoristico, invero, non va dimenticato che una particolare forma di “retroattività” delle norme sostanziali venne accolta dal legislatore sin dall'introduzione del codice civile, come evincibile dalla relazione di accompagnamento al r.d. 30 marzo 1942,n. 318, recante le disposizioni di attuazione e transitorie del nuovo codice, proprio con riferimento ai rapporti che ineriscono o scaturiscono dai contratti di lavoro.

Nel giustificare, sin da allora, l'immediata applicazione delle disposizioni dettate dal nuovo codice civile ai rapporti di lavoro in corso, la relazione affermava, in termini generali, che “la disciplina legale di questi rapporti ha un carattere sociale preminente e deve spiegare, quindi, i suoi effetti anche sui rapporti in corso che sono, per loro natura, continuativi”.

Sul piano giurisprudenziale poi, come rilevato in una storica pronuncia dalla Suprema Corte (Cass. 7 ottobre 1991, n. 10454), tale modo di concepire il carattere dello ius superveniens nei rapporti di lavoro costituirebbe, sin da epoca risalente, “patrimonio giuridico acquisito nella giurisprudenza di legittimità”, avendo la stessa Corte Suprema, già con l'ordinanza n. 309 del 16 giugno 1977, tracciato in materia principi tuttora validi.

Ed invero, come affermato nel richiamato arresto, nella specifica “materia di lavoro, dove l'ordine delle cose e dei concetti si evolve e si trasforma incessantemente e rapidamente sotto la spinta di nuove esigenze e di nuovi sentimenti e costumi, il legislatore ordinario sembra da tempo propenso a disapplicare il principio generale della irretroattività della legge”, seguendo “una tendenza” che non può “dirsi in contrasto con la Costituzione, la quale, mentre ha reso vincolante il principio della irretroattività soltanto per le leggi penali, ha mostrato con numerosi precetti di voler privilegiare il lavoro ed i crediti dei lavoratori”.

Tali autorevoli affermazioni spingono dunque a superare qualsivoglia impostazione preconcetta, rigidamente incentrata sulla pretesa inviolabilità dell'art. 11 preleggi, invitando piuttosto a procedere nell'analisi delle singole norme sopravvenute, alla luce della specifica funzione attribuita dal legislatore e tenuto conto del carattere sociale preminente dei rapporti in esame.

La soluzione della questione relativa all'ambito di applicazione della norma deve in particolare snodarsi attraverso una interpretazione legislativa più articolata, da svolgersi in concreto e caso per caso, come quella di recente operata dal giudice di legittimità in due significativi arresti che contengono, a ben vedere, validi principi guida per la presente indagine.

Due significative pronunce della Cassazione

La prima pronuncia richiamata è Cass. 8 febbraio 2016, n. 2420, avente ad oggetto l'individuazione dell'efficacia temporale delle decadenze introdotte dall'art. 32, l. n. 183 del 2010; la seconda, Cass. 7 maggio 2013, n. 10550, riguarda invece la questione - omologa a quella in esame - dell'applicabilità ai processi in corso della nuova disciplina sanzionatoria di cui alla l. n. 92 del 2012 (c.d. legge Monti-Fornero).

Con riferimento al primo caso, uno dei problemi interpretativi conseguenti all'introduzione dell'art. 32, l. n. 183 del 2010, è stato quello di individuare l'ambito temporale di applicazione dei relativi termini decadenziali, e tanto perché, ad eccezione delle diverse ipotesi di cui ai commi 5 e 6, la norma non chiariva se la novella riguardasse i soli rapporti in corso di esecuzione ovvero anche quelli già conclusi alla data di entrata in vigore della legge.

Orbene, con la citata sentenza n. 2420 del 2016, la Corte di legittimità, pronunciandosi in materia di somministrazione di lavoro ma con principi estensibili alle altre fattispecie, ha inteso risolvere la questione dell'efficacia temporale della norma in modo complesso e puntuale, rifuggendo da schematismi concettuali fondati su un incondizionato divieto di irretroattività dello ius superveniens.

In particolare, superando la precedente tesi secondo cui il nuovo regime di decadenza si applicherebbe “ai soli contratti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa […] e non anche a quelli già scaduti” (Cass. 17 ottobre 2015, n. 21916; Cass. 8 febbraio 2016, n. 2462), la Corte ha affermato che la decadenza di cui all'art. 32, comma 4, l. n. 183 del 2010, e la conseguente proroga, di cui al comma 1-bis del medesimo articolo, riguardano anche i contratti a termine in somministrazione cessati o stipulati prima della data di entrata in vigore della legge stessa (il 24 novembre 2010).

L'opzione interpretativa adottata discende, come evincibile dalla lettura del testo, da una precisazione terminologica fondamentale, avente incidenza diretta sulla premessa maggiore del successivo percorso argomentativo.

Sostiene infatti il Collegio che l'introduzione ex novo d'un termine di decadenza prima non previsto non importa tecnicamente una retroattività della norma, almeno nella forma propriamente detta, in quanto, secondo un antico ma pur sempre attuale insegnamento della Suprema Corte (v. Cass. n. 2705 del 1982; Cass. n. 2743 del 1975), può parlarsi di retroattività normativa solo in due casi specifici.

In primis quando una disposizione di legge introduca, per fatti e rapporti già assoggettati all'imperio di una legge precedente, una nuova disciplina degli effetti già esauritisi sotto la legge anteriore, in secundis quando detti una nuova disciplina di tutti gli effetti di un rapporto posto in essere prima dell'entrata in vigore della nuova norma, senza distinzione tra effetti verificatisi anteriormente o posteriormente alla nuova disposizione.

Non può quindi qualificarsi come propriamente “retroattiva” la nuova norma che disciplini status, situazioni e rapporti che, pur costituendo effetti di un pregresso fatto generatore (previsti e considerati nel quadro di una diversa normativa), siano da esso distinti ontologicamente e funzionalmente, in quanto suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l'esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la precedente disciplina.

Pertanto sarà sempre “ammissibile l'applicazione della nuova legge anche a situazioni esistenti o sopravvenute in un momento posteriorealla sua vigenza quando esse, pur se determinate da un fatto anteriore, vadano considerate a prescindere dal fatto che le ha poste in essere e a condizione che, in tal modo, non resti modificata la disciplina giuridica del fatto generatore”.

Sarebbe dunque questo il contesto in cui si inserirebbe l'art. 32, l. n. 183 del 2010, in esame, in quanto l'introduzione d'un termine di decadenza in precedenza non previsto inciderebbe su un potere - il potere d'azione del lavoratore - che, sebbene sorto prima dell'entrata in vigore della legge, non si sarebbe ancora consumato in tale data, non essendosene verificata rinuncia o prescrizione alcuna né essendo intervenuto un giudicato a riguardo.

È questo un altro punto nodale della decisione, in quanto il Collegio, al fine di tracciare l'ambito di applicazione della norma, non si limita a collocarla temporalmente rispetto al verificarsi del fatto generatore della fattispecie ma sposta il fulcro dell'analisi sui relativi effetti sostanziali: effetti che restano sempre suscettibili di nuova regolamentazione finché non risultino consumatii relativi poteri.

Ciò detto e venendo al secondo arresto richiamato (Cass. 7 maggio 2013, n. 10550), osserviamo che in tale pronunzia la Cassazione si è espressa in merito all'efficacia temporale della nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti introdotta dalla l. n. 92 del 2012, rendendo motivazioni in seguito riproposte con Cass. 22 aprile 2014, n. 9098.

Nello specifico, preso atto della mancanza nel testo normativo di disposizioni transitorie, la Corte ha incentrato la motivazione sulla natura e sulla funzione della novella legislativa, rilevando che con la l. n. 92 del 2012 è stato introdotta una nuova e complessa disciplina dei licenziamenti che àncora le sanzioni irrogabili a specifiche valutazioni di fatto e riserva la tutela reintegratoria ad ipotesi particolari.

L'intervento normativo avrebbe dunque operato, come affermato dalla Cassazione, un “evidente stravolgimento del sistema di allegazioni e prove nel processo”, non limitato ad una mera modifica della sanzione irrogabile ma collegato “ad una molteplicità di ipotesi diverse di condotte giuridicamente rilevanti cui si connettono tutele tra loro profondamente differenti”.

Sulla scorta di tali assunti, la sentenza ha dunque escluso l'applicabilità dello ius superveniens ai processi in corso, ritenendo che la novella, per come strutturata, richieda un approccio alla qualificazione giuridica dei fatti del tutto diverso da quello richiesto dalla normativa previgente: situazione che comporterebbe la rimessione degli atti al giudice di merito incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo (di cui all'art. 111, Cost., all'art. 6, CEDU, e dall'art. 47, Carta di Nizza).

Se tale è la conclusione, pare legittimo supporre che, nell'opposto caso in cui la novella si fosse limitata ad incidere “sul solo apparato sanzionatorio”, la soluzione sarebbe stata pienamente favorevole ad una applicazione generalizzata della nuova disciplina, estesa ai licenziamenti intimati prima dell'introduzione della legge.

Ancora una volta, il giudice di nomofilachia sembra escludere che la risposta alla questione dell'efficacia temporale possa ridursi ex art. 11, disp. prel. c.c., alla mera presa d'atto della sopravvenienza delle norme rispetto al fatto generatore del diritto, esigendo piuttosto, al di là della registrazione del dato cronologico, una analisi puntuale della funzione della normativa introdotta e della sua idoneità ad incidere sugli effetti giuridici ancora in corso.

Conclusioni

Tracciate le superiori premesse, può dunque affermarsi che la questione dell'ambito temporale di applicazione della “nuova” soglia indennitaria prevista dall'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, come modificato dall'art. 3, comma 1, d..l. n. 87 del 2018,va affrontata alla luce delle seguenti considerazioni.

In primis, sul piano dogmatico, va rilevato che l'applicazione della nuova forbice indennitaria anche ai licenziamenti verificatisi prima dell'entrata in vigore del decreto n. 87 del 2018 e dunque assoggettati alla disciplina di cui al d.gs. 4 marzo 2015, n. 23, non comporta alcuna indebita incisione su effetti sostanziali già esauritisi sotto la previgente disciplina (c.d. facta praeterita).

L'estensione della disposizione alle impugnative ancora pendenti, infatti, lungi dal determinare una forma di retroattività della normativa sopravvenuta rispetto a fattispecie già compiute, verrebbe solo ad influire su effetti e situazioni sostanziali ancora in fieri e che, seppur discendenti da un pregresso fatto generatore (licenziamento irrogato prima dell'entrata in vigore del decreto dignità), risultano ancora passibili di nuova regolamentazione.

Ed invero, se si guarda agli effetti sostanziali connessi allo specifico potere del lavoratore di ottenere in via giurisdizionale il giusto ristoro per l'ipotesi di un licenziamento illegittimo, non può non convenirsi sul fatto che si tratti di situazioni ontologicamente distinte dal fatto generatore a monte e come tali ancora suscettibili di modifica.

Trattasi peraltro di ragionamento speculare a quella di recente seguito dalla Cass. 3 maggio 2018, n. 10521, in cui l'applicazione del termine decadenziale di cui all'art. 32 anche ai licenziamenti intimati prima della l. n. 183 del 2010 e già impugnati in via stragiudiziale, è discesa, ancora una volta, dalla presa d'atto della mancata consumazione, alla data di entrata in vigore della l. n.183 del 2010, art. 32, comma 1, del potere di impugnare il licenziamento, e tanto a prescindere dal fatto che il detto potere d'azione fosse sorto prima.

Passando poi al complementare profilo della funzione della normativa sopravvenuta, si osserva che il cd. decreto dignità, piuttosto che introdurre una nuova disciplina del sistema delle tutele contro i licenziamenti illegittimi, tale da determinare, come avvenuto con la l. n. 92 del 2012, un vero e proprio “stravolgimento” del sistema di allegazioni e prove nei processi in corso, si è limitato ad incidere sul solo parametro sanzionatorio previsto dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Si discorre dunque di un semplice correttivo in melius applicato alla soglia indennitaria prevista in caso di licenziamento illegittimo e potenzialmente più adeguato, secondo le intenzioni del legislatore, alla difesa della “dignità” del dipendente: ferma restando l'integrità delle tutele previgenti e invocabili dai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015.

L'applicazione della novella anche ai licenziamenti intimati prima dell'entrata in vigore della legge quindi non postulerebbe una nuova qualificazione giuridica dei fatti rispetto a quella richiesta dalla normativa vigente, venendo meno, anche per le ipotesi di processi in corso, qualsivoglia profilo di incompatibilità con i principi di cui all'art. 111, Cost., all'art. 6, CEDU, all'art. 47, Carta di Nizza, potenzialmente ostativo all'accoglimento dell'interpretazione.

In conclusione, le argomentazioni sin qui richiamate suggeriscono di percorrere una strada diversa rispetto a quella seguita sul punto dalle pronunce di merito che, prescindendo del tutto dai suesposti canoni, hanno escluso l'applicazione dell'art. 3, comma 1, d.l. n. 87 del 2018, ai licenziamenti irrogati prima del 14 luglio 2018, in virtù del mero dato cronologico della sopravvenienza della norma rispetto al fatto generatore del diritto.

La soluzione proposta, di contro, in quanto favorevole all'estensione della nuova forbice indennitaria anche ai licenziamenti irrogati prima della entrata in vigore del decreto, appare certamente più coerente con le richiamate pronunce di legittimità e conforme all'indubbia volontà legislativa di migliorare, senza ulteriori e irragionevoli diversificazioni, le garanzie dei lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti.

Due motivi di indubbia valenza esegetica che non possono essere trascurati e che peraltro giustificano un'opzione ermeneutica rispondente ai principi del favor prestatoris e conforme al brocardo in re dubia benigniorem semper fieri interpretationem, (tratto dal Methodo di Gribaldi Moffa).

Approfondimenti

A. Falzea, Voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV Milano 1965, 469.

V. Putrignano, La decadenza dell'impugnazione dei contratti di somministrazione, in Arg. dir. lav. 2017, 3, 750.

C. Timellini, Irretroattività dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori riformato dalla legge Fornero, in Arg. dir. lav.,2015, 1, 225.

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