Qualificazione retributiva dell’obbligazione del datore di lavoro moroso

18 Marzo 2019

La Corte costituzionale, nella sentenza del 28 febbraio 2019, n. 29, dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217, c.c., sollevate dalla Corte d'appello di Roma, sez. lav., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali...

Il caso. Corte d'appello di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217, c.c., per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6, CEDU.

Secondo la Corte, in particolare, le disposizioni limiterebbero la tutela del lavoratore ceduto al risarcimento del danno, anche dopo la sentenza che abbia accertato l'illegittimità o l'inefficacia del trasferimento del ramo di azienda.

Le disposizioni censurate sarebbero quindi:

- lesive del principio di eguaglianza di cui all'art. 3, Cost., sotto un duplice profilo. Si ravvisa in primo luogo una “ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento” anzitutto rispetto alla disciplina della mora del creditore “in tutte le altre obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato”. In secondo luogo, rispetto alla disciplina delle conseguenze della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, per il periodo successivo alla sentenza che accerti tale nullità e converta il contratto a tempo determinato. In entrambe le ipotesi il creditore in mora non soltanto sarebbe obbligato a risarcire i danni prodotti, ma sarebbe pur sempre obbligato a eseguire la controprestazione;

- in contrasto con l'art. 24, Cost., in quanto la disciplina consentirebbe al cedente “di sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in giudicato) con cui sia stata dichiarata la nullità o l'inefficacia o l'inopponibilità del trasferimento di ramo d'azienda nei confronti del lavoratore”;

- in violazione dell'art. 111, Cost., che “prevede la garanzia del giusto processo”, inscindibilmente connessa con l'effettività della tutela;

- in violazione dell'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 6, CEDU, in quanto sacrificherebbe il diritto a un processo equo e, in particolare, il diritto “di ottenere la tutela specifica (ove giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l'ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale, in omaggio al carattere prettamente strumentale dei rimedi processuali rispetto alle situazioni giuridiche soggettive da tutelare”.

La Corte costituzionale, nella sentenza del 28 febbraio 2019, n. 29, dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 1206, 1207 e 1217, c.c., sollevate dalla Corte d'appello di Roma, sez. lav., in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

La Corte rileva innanzi tutto che il giudizio verte sull'inadempimento di un datore di lavoro che non ha eseguito l'ordine giudiziale di riassunzione e ha rifiutato senza alcun legittimo motivo (art. 1206, c.c.) la prestazione ritualmente offerta dal lavoratore, nel rispetto dell'art. 1217, c.c.

Il Giudice a quo ritiene che la configurazione in senso risarcitorio dell'obbligo del datore di lavoro moroso sia lesiva del principio di eguaglianza, tanto in riferimento alla disciplina degli altri rapporti obbligatori quanto con riguardo alla disciplina della nullità dell'apposizione del termine. Nel rapporto di lavoro, a differenza che negli altri ambiti posti a raffronto, il creditore moroso sarebbe obbligato soltanto a risarcire i danni e non a eseguire la controprestazione.

Il precedente della Cassazione n. 2990 del 2018. Le Sezioni Unite 7 febbraio 2018, n. 2990 sono state chiamate a dirimere la questione circa la natura retributiva o risarcitoria delle somme che spettano al lavoratore dopo l'accertamento dell'illecita interposizione di manodopera, nell'ipotesi in cui il lavoratore abbia invano messo a disposizione le proprie energie lavorative.

In una complessa opera ricostruttiva, le Sezioni Unite hanno preso le mosse dall'orientamento che si è dapprima formato in tema di conseguenze della nullità del trasferimento d'azienda, per essere successivamente esteso alla fattispecie dell'interposizione illecita di manodopera.

La Corte di cassazione svolge un'analoga argomentazione per fattispecie che solo in apparenza sono tra loro distanti. Le Sezioni Unite puntualizzano che la qualificazione risarcitoria dell'obbligazione del cedente si fonda sul principio di corrispettività che permea di sé il contratto di lavoro. Alla stregua di tale principio, al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal contratto, il diritto alla retribuzione sorge soltanto quando la prestazione lavorativa sia stata effettivamente resa. In caso contrario, sussiste, in capo al datore di lavoro, soltanto un obbligo di risarcire il danno.

Secondo i giudici di legittimità, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento appresta per il lavoratore.

Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione.

Da tali principi le Sezioni Unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l'obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro.

L'interpretazione della Corte di cassazione assunta come “diritto vivente”, indica pertanto l'inapplicabilità della disciplina in favore dei dipendenti del datore di lavoro cedente per il periodo successivo alla sentenza che abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile il trasferimento, persistendo solo un obbligo da inadempimento (ex art. 1218, c.c.), ovvero applicabilità della disciplina limitata al riconoscimento di un obbligo risarcitorio da mora credendi (ex art. 1207, c.c.) in capo al cedente per gli eventuali danni patiti dai dipendenti, sia per il periodo anteriore sia per quello successivo alla suddetta sentenza.

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