Condominio e locazione

Leasing immobiliare

19 Marzo 2019

Il contratto di leasing, nelle varie forme in cui si è esplicitato nella prassi operativa, ha posto numerose questioni, prime fra tutte quella dell'inquadramento giuridico della relativa operazione. Nato come una moderna tecnica di finanziamento per le imprese, lo stesso è stato assimilato a figure negoziali tipizzate riconosciute dal nostro ordinamento, riconducendolo prevalentemente...
Inquadramento

Il leasing è una nuova tecnica contrattuale nata per soddisfare una specifica esigenza dell'impresa, ossia quella di disporre dei beni strumentali necessari per l'attività produttiva (macchinari, impianti, attrezzature), senza essere costretta ad immobilizzare ingenti capitali per l'acquisto.

La forma più diffusa è quella del leasing c.d. finanziario, che è concluso nell'àmbito di un'operazione trilaterale alla quale partecipano la società di leasing (concedente), l'impresa interessata all'utilizzo del bene (utilizzatore) e un'impresa che produce o distribuisce il bene stesso (fornitore).

All'interno dell'operazione di leasing, si suole individuare due tipologiecontrattuali con funzione diversa.

Da un lato, il leasing di godimento, quando si tratta di beni strumentali all'esercizio dell'impresa di prevedibile e rapida obsolescenza - la vita economica dei quali corrisponde alla durata del loro godimento, sicché l'eventuale valore residuo di mercato corrisponde o è inferiore al prezzo finale d'opzione - in cui il contratto svolge prevalentemente una funzione di finanziamento: infatti, l'imprenditore evita iniziali immobilizzi di capitale per l'acquisizione di strumenti a rapida obsolescenza, e il pagamento del canone assume quasi esclusivamente una funzione corrispettiva al solo godimento, poiché l'eventualità del trasferimento alla scadenza costituisce pattuizione marginale e accessoria.

Dall'altro lato, il leasing traslativo, allorchè oggetto del contratto è un bene non soggetto ad alterazione/obsolescenza/deterioramento, avendo una finalità indirizzata anche, se non prevalentemente, al trasferimento finale con un valore residuo del bene; al momento dell'esercizio del diritto d'opzione, superiore al prezzo stabilito, il pagamento dei canoni durante il contratto svolge una funzione - oltre che di corrispettivo per il godimento, anche e soprattutto - di pagamento anticipato di rate del prezzo.

Oggetto di quest'ultima tipologia contrattuale sono, di solito, i beni immobili già costruiti al momento della stipulazione, il che comporta, di regola, rispetto a quelli mobili, una durata più lunga (che riflette la scarsa o nulla obsolescenza dei beni de quibus), un canone diverso (soggetto a revisioni periodiche), ed un prezzo d'opzione più elevato (corrispondente al valore del bene alla fine del rapporto).

Per completezza, va segnalato che la l. 28 dicembre 2015, n. 208 - (in G.U. n. 302 del 30 dicembre 2015, s.o.) «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato» (Legge di stabilità 2016) - ha introdotto nel nostro ordinamento il leasing immobiliare abitativo, volto appunto a facilitare, soprattutto i giovani, mediante la sperimentata forma di finanziamento qual è il leasing, l'accesso alla proprietà dell'abitazione principale per la propria famiglia.

Le tipologie negoziali

In quest'ordine di concetti - in estrema sintesi - alcuni hanno opinato trattarsi di un meccanismo contrattuale simile alla locazione, in quanto tenderebbe ad assicurare all'utilizzatore il godimento del bene, considerando anche che il richiamo alla disciplina della locazione trae spunto da una serie di elementi - come, ad esempio, la qualificazione del corrispettivo come “canone”, la descrizione dell'oggetto del contratto consistente in una “concessione in godimento di un bene”, l'indicazione delle parti come “concedente” ed “utilizzatore” - salvo differenziarsi poiché, con apposite clausole, la società di leasing tende a porre a carico dell'utilizzatore tutti i rischi connessi al godimento del medesimo bene.

Secondo altri, lo schema contrattuale de quo si avvicinerebbe alla vendita, segnatamente alla vendita a rate con riserva di proprietà, in quanto la finalità è l'acquisizione del bene mediante l'esercizio del diritto d'opzione, con l'unica peculiarità che, mentre chi acquista a rate diventa automaticamente proprietario con il pagamento dell'ultima rata, invece nel leasing alla fine del contratto l'utilizzatore può scegliere se acquistare il bene (pagando uno specifico corrispettivo), restituirlo o rinnovare il contratto.

In evidenza

Trattasi, comunque, di un contratto atipico, ossia non espressamente disciplinato dall'ordinamento, che, seppur presentando caratteristiche proprie di diversi contratti - locazione, vendita con riserva di proprietà, mutuo, ecc. - non si identifica in toto con alcuno di essi, ma va considerato comunque valido alla luce dell'art. 1322 c.c., secondo cui «le parti possono anche concludere contratti atipici, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela».

La vendita con riserva di proprietà

Al riguardo, va richiamata la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, 20 settembre 2017, n. 21895; Cass. civ., sez. III, 27 settembre 2011, n. 19732), secondo la quale al leasing traslativo si applica la disciplina di carattere inderogabile di cui all'art. 1526 c.c., in tema di vendita con riserva della proprietà.

Tale disposto dispone che, «se la risoluzione del contratto ha luogo per l'inadempimento del compratore, il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto a un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno»; il successivo comma 2 prevede, inoltre, che, «qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d'indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l'indennità convenuta», aggiungendo, al comma 3, che «la stessa disposizione si applica nel caso in cui il contratto sia configurato come locazione, e sia convenuto che, al termine di esso, la proprietà della cosa sia acquisita al conduttore per effetto del pagamento dei canoni pattuiti».

Ne consegue che il concedente, mantenendo la proprietà del bene e acquisendo i canoni maturati fino al momento della risoluzione, non può conseguire un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene.

Si è, in proposito, ribadito che, nel leasing traslativo immobiliare:

a) i canoni costituiscono (non il corrispettivo del mero godimento del bene, ma) il versamento rateale del prezzo, in previsione dell'esercizio finale dell'opzione di acquisto;

b) l'interesse del concedente è quello di ottenere l'integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell'operazione;

c) non è interesse del concedente ottenere la restituzione dell'immobile, che normalmente non rientra fra i beni di sua proprietà alla data della conclusione del contratto, né costituisce oggetto della sua attività commerciale, ma è stato scelto e acquistato presso terzi dall'utilizzatore in funzione delle sue personali esigenze e soltanto pagato dalla società di leasing, che se ne è intestata la proprietà esclusivamente in funzione di garanzia della restituzione del finanziamento.

Ad avviso degli ermellini, quindi, l'operazione è soggetta all'applicazione analogica dell'art. 1526 c.c., con la precisazione che, nella vendita con riserva della proprietà, nel caso di inadempimento dell'acquirente, il venditore normalmente soddisfa il suo principale interesse con il recupero del bene, e il danno conseguente può consistere nel relativo deterioramento, nella perdita degli utili inerenti al godimento, nella perdita di altre proficue occasioni di vendita, e simili, laddove, nel leasing, la riconsegna dell'immobile è insufficiente, quale risarcimento del danno, nel caso in cui il finanziamento non venga restituito e il valore dell'immobile non valga a coprirne l'intero importo, ma costituisce un quid pluris rispetto all'interesse e ai danni effettivi subiti dal concedente, ove si aggiunga all'integrale restituzione della somma erogata, con i relativi interessi e spese.

L'inadempimento del soggetto utilizzatore

Le questioni sono sorte soprattutto al profilo “patologico” del contratto di leasing.

Non crea rilevanti problemi l'ipotesi dell'inadempimento del concedente, atteso che, qualora quest'ultimo non adempia alle proprie obbligazioni, l'utilizzatore potrà chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, secondo la disciplina generale prevista per i contratti dal codice civile.

Nella prassi, nel leasing finanziario, il concedente si cautela inserendo clausole che, in caso di inadempimento della controparte, prevedano il diritto del primo a:

a) chiedere la risoluzione del contratto anche in caso di mancato pagamento di un solo canone (quale ne sia l'ammontare),

b) trattenere integralmente i canoni riscossi,

c) pretendere il pagamento del totale dei canoni in scadenza,

d) avere la restituzione del bene.

Tali previsioni, essendo apparse inique per il rischio di un ingiustificato arricchimento in favore delle imprese concedenti derivante dall'aggiunta, rispetto alle loro originarie prospettive di profitto, del vantaggio economico rappresentato dal valore del bene restituito ante tempus, hanno sollecitato la giurisprudenza a favorire in determinati casi, quale correttivo al rinvenuto squilibrio contrattuale, l'applicazione analogica alla fattispecie in esame della norma (art. 1526 c.c.) dettata in materia di vendita con riserva di proprietà.

Va, però, dato atto che tale ricostruzione, inaugurata dalla Corte di Cassazione nel 1989 con una serie di pronunce gemelle (Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 1989, nn. 5569, 5570, 5571, 5572, 5573, 5574), era stata preceduta da un diverso orientamento che, individuando nella locazione finanziaria una figura contrattuale atipica caratterizzata da un'autonoma identità causale non consistente «nell'acquisto della proprietà di un bene con una particolare agevolazione nel pagamento del prezzo, bensì in un finanziamento per l'acquisto della disponibilità immediata di quel bene» verso il rimborso rateale da parte del lessee della somma finanziata maggiorata di interessi e remunerazione del capitale (così Cass. civ., sez. III, 6 maggio 1986, n. 3023), aveva sottolineato l'assoluta distinzione ed inconciliabilità fra gli schemi causali del leasing finanziario, da una parte, e della vendita con riserva di proprietà, dall'altra, e conseguentemente aveva escluso l'applicabilità, anche in via analogica, al primo dei suddetti schemi della norma di cui all'art. 1526 c.c. (in questo senso, v. Cass. civ., sez. III, 26 novembre 1987, n. 8766; Cass. civ., sez. III, 15 ottobre 1988, n. 5623).

Tuttavia, tale opzione ermeneutica è stata superata con l'affermarsi alla fine degli anni '80 di un nuovo orientamento, ad oggi ancora consolidato, il quale, sconfessando l'unitarietà giuridica dell'operazione in esame, ha configurato, all'interno della fattispecie della locazione finanziaria, una ripartizione fra due distinte tipologie ritenute differentemente connotate proprio da un punto di vista causale.

In particolare, si è delineata una netta separazione fra la figura del c.d. leasing di godimento e quella del c.d. leasing traslativo (sopra accennata).

La prima, corrispondente alla figura tradizionale di leasing finanziario, è caratterizzata da una “funzione di finanziamento a scopo di godimento del bene” oggetto del contratto, in quanto tale bene, strumentale all'esercizio dell'impresa dell'utilizzatore e munito di una potenzialità economica corrispondente alla durata del rapporto negoziale, conservando alla scadenza di quest'ultimo un esiguo valore economico, tendenzialmente coincidente con il prezzo d'opzione, renderebbe l'esercizio di quest'ultima “marginale”, valorizzando nei canoni versati la funzione di corrispettivo del godimento della cosa.

La seconda, ricorrente qualora oggetto del contratto siano beni standardizzati di natura durevole ma anche macchinari e impianti strumentali non soggetti a rapida obsolescenza, è connotata da un diverso profilo funzionale, in quanto, essendo tali beni destinati a conservare al termine del rapporto un valore apprezzabile e di gran lunga superiore al prezzo d'opzione, risulta in essa di fatto “necessitato” il trasferimento finale della proprietà della cosa, individuando nella misura pattuita per i canoni dovuti dall'utilizzatore anche una quota di prezzo della futura cessione del bene (il riferito orientamento, inaugurato con le già citate pronunce gemelle del 1989, risulta successivamente avallato da Cass. civ., sez. un., 7 gennaio 1993, n. 65, cui hanno dato continuità, fra le altre, più di recente, Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2011, n. 23324; Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2015, n. 8687; Cass. civ., sez. III, 9 febbraio 2016, n. 2538).

Dunque, secondo il summenzionato orientamento - fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, anche nella sua massima composizione - l'elemento discretivo fra i due tipi di leasing, di fronte ad una tendenziale omogeneità strutturale fra gli stessi, risiederebbe nella diversa funzione perseguita dalle parti attraverso di essi, funzione rispetto alla quale principale indice rivelatore sarebbe costituito dal rapporto fra valore residuo del bene alla scadenza del contratto e prezzo d'opzione.

Il valore residuo del bene e il prezzo d'opzione

Invero, mentre l'esiguità di tale valore dovrebbe far presumere una volontà delle parti indirizzata, sin dalla conclusione del contratto, ad un prevalente scopo di “godimento” - laddove l'irrisorietà del valore residuo del bene alla scadenza del rapporto attribuirebbe al patto d'opzione una portata marginale e sussidiaria, con conseguente esclusione di un'originaria volontà delle parti diretta alla realizzazione di un effetto traslativo della proprietà del bene - all'opposto, la notevole eccedenza di valore della cosa al termine della locazione finanziaria rispetto alla misura dell'opzione sarebbe indicativa di un'originaria volontà delle parti orientata alla realizzazione dell'effetto traslativo della proprietà del bene, in quanto in tale situazione l'esercizio del diritto d'opzione si porrebbe come una soluzione “obbligata”, ovvero “l'unica economicamente ragionevole per l'utilizzatore” (così Cass. civ., sez. III, 19 luglio 1997, n. 6663).

Riguardo all'individuazione dei criteri che consentono di ricostruire la volontà originaria delle parti circa la funzione da riconoscere al contratto di leasing, la giurisprudenza richiama, come indici principali, oltre al rapporto fra il valore residuo del bene e il prezzo d'opzione, la tipologia e le caratteristiche dello stesso bene, il criterio di determinazione dei canoni periodici e la funzione da questi svolta, il rapporto tra la durata del contratto e il periodo di prevedibile obsolescenza tecnica/economica del bene; e, quali ulteriori indizi confermativi, l'eventuale obbligo imposto all'utilizzatore di riconsegnare il bene in buono stato di manutenzione e di funzionamento o la facoltà per lo stesso di chiedere la proroga del rapporto sul presupposto dell'ulteriore utilizzabilità del bene, nonché “eventuali pattuizioni specifiche in deroga o in aggiunta alle condizioni generali di contratto”.

Alla descritta bipartizione, viene, dunque, attribuita dalla giurisprudenza prevalente una rilevanza centrale ai fini della concreta individuazione della disciplina applicabile per il caso di risoluzione del contratto a causa dell'inadempimento dell'utilizzatore, giungendo così a soluzioni differenti a seconda della tipologia di figura contrattuale ricorrente.

In particolare, al leasing di godimento, in quanto contratto di durata, si applicherà la regola della non estensione dell'effetto risolutorio alle prestazioni già eseguite (e, dunque, ai canoni già pagati) dettata per i contratti ad esecuzione continuata o periodica dall'art. 1458, comma 1, c.c., mentre, si applicherà in via analogica al leasing traslativo, assimilato proprio per la funzione in esso rinvenuta ad una vendita con riserva di proprietà, la norma di cui all'art. 1526 c.c., con conseguente obbligo per il concedente di restituzione dei canoni già percepiti (salvo il diritto ad un equo compenso, oltre al risarcimento del danno) e nullità di eventuali clausole negoziali contrarie a tale disposizione (per la nullità di siffatte clausole per violazione della disciplina di cui all'art. 1526 c.c. nel caso di leasing traslativo, v., tra le altre, Cass. civ., sez. III, 24 giugno 2002, n. 9161).

In quest'ottica, vanno inquadrate - e valutate negativamente per quanto sopra delineato - quelle clausole contrattuali, generalmente predisposte dalle società concedenti, con cui si prevede, in particolare, il diritto del lessor, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, di ottenere la restituzione del bene, il pagamento di tutti i canoni scaduti, nonché di tutti o una parte di quelli a scadere.

L'equo compenso spettante al concedente

Sull'equo compenso che, in caso di risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell'utilizzatore, quest'ultimo è tenuto a corrispondere al concedente ai sensi del comma 1, ultima parte, dell'art. 1526 c.c., la giurisprudenza ha raggiunto oramai un assetto alquanto stabile.

Invero, risulta ripetutamente affermato che l'equo compenso per l'uso della cosa comprende la renumerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l'uso, non includendo, invece, né il risarcimento del danno che può derivare da un deterioramento anormale della cosa, né il mancato guadagno (Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2010, n. 73; Cass. civ., sez. III, 28 agosto 2007, n. 18195; Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005, n. 574; nonchè Cass. civ., sez. III, 24 giugno 2002, n. 9161, che si pone come leading case di tale indirizzo).

L'acquisizione delle rate pagate a titolo di indennità

Occorre fare, però, attenzione a non sovrapporre l'indennità eventualmente pattuita in favore del venditore, o, nel leasing, del concedente, di cui al comma 2 dell'art. 1526 c.c. - indennità che la magistratura di vertice concepisce alla stregua di una “clausola penale” ex art. 1384 c.c., in quanto volta alla predeterminazione del danno risarcibile nell'ipotesi di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore (così, di recente, in motivazione, Cass. civ., sez. III, 12 settembre 2014, n. 19272), con l'equo compenso previsto ex lege in favore del medesimo concedente dal precedente comma 1, la cui liquidazione, peraltro, necessita pur sempre, di un'autonoma e tempestiva domanda (Cass. civ., sez. III, 10 settembre 2010, n. 19287).

L'eventuale clausola penale

Si è, infine, affermato che, nel leasing traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, il risarcimento del danno del concedente può indubbiamente essere determinato anticipatamente, a norma dell'art. 1382 c.c., attraverso clausola penale, pattuizione che non è tuttavia equa per il solo fatto di essere stata convenuta, atteso che l'art. 1384 c.c. consente al giudice che ne sia richiesto di ridurre equamente la prestazione assunta.

In proposito, si è chiarito - richiamando Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2014, n. 888, in cui peraltro si cita anche la Convenzione di Ottawa sul leasing internazionale 28 maggio 1988, recepita con legge 14 luglio 1993, n. 259 - che le clausole contrattuali le quali attribuiscano al concedente il diritto di recuperare, nel caso di inadempimento dell'utilizzatore, oltre all'intero importo del finanziamento, anche la proprietà e il possesso dell'immobile, attribuiscono alla società stessa vantaggi maggiori di quelli che esso aveva il diritto di attendersi dalla regolare esecuzione del contratto, venendo a configurare gli estremi della penale “manifestamente eccessiva” rispetto all'interesse del creditore all'adempimento, ai sensi dell'art. 1384 c.c.

D'altronde, secondo i principi generali, il giudice, nel valutare se la penale sia manifestamente eccessiva, è tenuto ad effettuare una “valutazione comparativa” tra il vantaggio che essa assicura al contraente adempiente, da un lato, e il margine di guadagno che il contraente adempiente legittimamente si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto, dall'altro.

Casistica

CASISTICA

Clausola compromissoria

L'operazione di leasing finanziario, pur non dando luogo a un contratto plurilaterale, realizza un collegamento negoziale tra contratto di fornitura e contratto di leasing, che legittima l'utilizzatore a esercitare in nome proprio le azioni scaturenti dal contratto di fornitura, sicché la clausola compromissoria contenuta nel contratto di fornitura deve ritenersi operante anche nei confronti dell'utilizzatore (Cass. civ., sez. II, 20 agosto 2018, n. 20825).

Risarcimento del danno

Nel leasing traslativo, al quale si applica per analogia la disciplina dettata dall'art. 1526 c.c. per la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà in caso di inadempimento dell'utilizzatore, il diritto all'equo compenso spettante al concedente per l'uso della cosa comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l'uso, non includendo, invece, né il risarcimento del danno che può derivare da un deterioramento anormale della cosa, né il mancato guadagno (Cass. civ., sez. III, 13 novembre 2018, n. 29020).

Legittimazione ad impugnare la delibera condominiale

In tema di condominio, il generale potere ex art. 1137 c.c. di impugnare le deliberazioni condominiali in relazione alle spese necessarie per le parti comuni dell'edificio compete al proprietario della singola unità immobiliare, mentre non spetta all'utilizzatore di un'unità immobiliare in leasing, essendo lo stesso titolare non di un diritto reale, ma di un diritto personale derivante da un contratto ad effetti obbligatori che rimette il perfezionamento dell'effetto traslativo ad una futura manifestazione unilaterale di volontà del conduttore; né, ai fini della legittimazione dell'utilizzatore in leasing alla partecipazione all'assemblea ed alla correlata impugnativa, può rilevare il principio dell'apparenza del diritto, dando valore dirimente al fatto che quegli si comportasse abitualmente come fosse un condomino, non trovando motivo di applicazione i principi di affidamento e di tutela dell'apparentia iuris nei rapporti fra condominio e singoli partecipanti ad esso (Cass. civ., sez. III, 25 ottobre 2018, n. 27162).

Clausola penale

In tema di leasing traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la clausola penale che attribuisca al concedente, oltre all'intero importo del finanziamento, anche la proprietà e il possesso del bene è manifestamente eccessiva in quanto attribuisce vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto, dovendo il giudice effettuare, ai fini della sua riducibilità ex art. 1384 c.c., una valutazione comparativa tra il vantaggio che detta clausola assicura al contraente adempiente e il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (Cass. civ., sez. III, 21 agosto 2018, n. 20840).

L'intervento delle Sezioni Unite

Al fine di dirimere il contrasto sorto tra i giudici di legittimità e risolvere due questioni di massima di particolare importanza - entrambe gravitanti intorno alla perdurante applicabilità dell'art. 1526 c.c. ai contratti di leasing risolti prima dell'entrata in vigore della l. n. 124/2017 e riassumibili nella possibilità, o meno, di predicare l'applicazione analogica di una norma sopravvenuta rispetto alla fattispecie concreta che dovrebbe disciplinare - è intervenuto (finalmente e tempestivamente), ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c., il massimo organo di nomofilachia (Cass. civ., sez. un. 28 gennaio 2021, n. 2061).

In estrema sintesi, per un verso, si è statuito di non dare seguito all'orientamento giurisprudenziale più recente (inaugurato da Cass. civ., sez. III, n. 29 marzo 2019, n. 8980), e, per altro verso, si è inteso assicurare continuità al “diritto vivente” di risalente formazione - ma ribadito anche da pronunce successive a quella portatrice di overruling - che aveva costantemente tratto dall'art. 1526 c.c., in forza di interpretazione analogica, la disciplina atta a regolare gli effetti della risoluzione per inadempimento di contratto di leasing traslativo verificatasi prima dell'entrata in vigore della l. n. 124/2017 e del fallimento dell'utilizzatore resosi inadempiente.

Sulla scorta delle suddette premesse generali, si è osservato che, sino al momento dell'entrata in vigore della novella del 2017 - e, segnatamente, del suo art. 1, commi 136/140 - il leasing è rimasto sostanzialmente un contratto soltanto “socialmente tipico”, articolato in distinte forme e strutture dalla pratica commerciale, unificate dall'operazione di finanziamento volta a consentire ad un soggetto (il c.d. utilizzatore o lessee) il godimento di un bene (transitorio o finalizzato al definitivo acquisto del bene stesso), grazie all'apporto economico di un soggetto abilitato al credito (il c.d. concedente o lessor), il quale, con proprie risorse finanziarie, consente all'utilizzatore di soddisfare un interesse che, altrimenti, non avrebbe avuto la possibilità o l'utilità di realizzare, attraverso il pagamento di un canone che si compone, in parte, del costo del bene e, in parte, degli interessi dovuti al finanziatore per l'anticipazione del capitale.

In questo contesto, è sorta e si è sviluppata la distinzione tra leasing traslativo e di godimento - v. il precedente par. 1 - che porta come conseguenza rilevante quella della diversificazione delle rispettive discipline in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore: nel leasing di godimento, la risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, secondo quanto disposto dall'art. 1458, comma 1, secondo periodo, c.c., in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica, riscontrandosi piena sinallagmaticità tra le reciproche prestazioni, sicché, l'utilizzatore è tenuto a restituire il bene, mentre il concedente ha diritto a mantenere le rate riscosse, oltre al risarcimento del danno per l'inadempimento verificatosi, mentre, nel leasing traslativo, la risoluzione resta soggetta all'applicazione in via analogica delle disposizioni di cui all'art. 1526 c.c., riguardo alla vendita con riserva della proprietà, per cui l'utilizzatore è obbligato alla restituzione del bene ed il concedente alla restituzione delle rate riscosse, avendo, però, diritto ad un equo compenso per la concessione in godimento del bene ed il suo deprezzamento d'uso, oltre al risarcimento del danno.

La ragione di questa distinzione nella disciplina degli effetti risolutori tra le due figure di leasing è quella di far fronte, nel caso di leasing traslativo, all'esigenza di porre un limite al dispiegarsi dell'autonomia privata laddove questa venga, sovente, a determinare arricchimenti ingiustificati del concedente, il quale, seguendo lo schema da lui predisposto, si troverebbe a conseguire - la restituzione del bene e l'acquisizione delle rate riscosse, oltre, eventualmente, il risarcimento del danno, ossia - più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere per il caso di regolare adempimento del contratto da parte dell'utilizzatore stesso.

La citata legge del 2017 è stata preceduta, comunque, da taluni interventi legislativi, ma di portata eminentemente settoriale, volti a regolare aspetti o modelli peculiari del leasing finanziario, come gli effetti dello scioglimento del contratto a seguito del fallimento dell'utilizzatore (art. 72-quater l. fall., introdotto dal d.lgs. n. 5/2006, v. ora art. 177 del d.lgs. n. 14/2019, recante “Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della l. 19 ottobre 2017, n. 155”, la cui entrata in vigore è, allo stato, prorogata), gli effetti dello scioglimento del medesimo contratto nell'àmbito del concordato preventivo (art. 169-bis, comma 5, I. fall., come introdotto dal d.l. n. 83/2015, convertito, con modificazioni, nella l. n. 132/2015), nonché la disciplina di una specifica tipologia di leasing, ossia quello di immobile da adibire ad abitazione principale (art. 1, commi 74-80, della l. n. 208/2015).

Nello specifico, l'art. 1, commi 136-140, della l. n. 124/2017, superando, quindi, la logica della regolamentazione specifica e settoriale, ha fornito una “tipizzazione legale” del contratto di leasing finanziario in termini di fattispecie generale e unitaria - facendo convergere in un unico tipo il leasing di godimento e quello traslativo (segnatamente, in tal senso, il comma 136), mutuandone morfologia e funzione da un radicato substrato economico-sociale, così da plasmare in disciplina positiva l'esperienza lungamente maturata nel contesto regolatorio dell'autonomia privata, alimentato, costantemente, anche dall'attività ermeneutica della giurisprudenza.

La regolamentazione tipica si sofferma, anzitutto, sul profilo dell'inadempimento dell'utilizzatore, stabilendo (comma 137) che “costituisce grave inadempimento ... il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria”.

Le conseguenze dell'inadempimento dell'utilizzatore “ai sensi del comma 137”, in termini di risoluzione del contratto sono dettate dal successivo comma 138, che - allineandosi, nella sostanza anche se con talune differenze, ai pregressi assetti regolatori specifici e settoriali - prevede che “il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita”, precisando che “resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell'utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore a norma del periodo precedente”.

Il comma 139 regola, poi, una specifica procedura per la vendita o la riallocazione del bene concesso in godimento, nel rispetto dei valori di mercato e in base a “criteri di celerità, trasparenza e pubblicità adottando modalità tali da consentire l'individuazione del migliore offerente possibile, con obbligo di informazione dell'utilizzatore".

Infine, il comma 140 fa salva la disciplina settoriale, sia quella dettata dall'art. 72-quater della I. fall., sia quella del leasing immobiliare per abitazione principale, di cui alla l. n. 208/2015.

Innanzitutto, le Sezioni Unite puntualizzano che la disciplina recata dalla l. n. 124/2017 non ha, però, carattere retroattivo, essendo essa priva degli indici che consentono di riconoscerle efficacia regolativa per il passato, non avendo in tal senso disposto lo stesso legislatore, né proponendosi la novella di operare un'interpretazione autentica di un assetto legale precedente, in quanto essa interviene, in modo innovativo, a colmare una lacuna ordinamentale circa la disciplina del contratto di locazione finanziaria, cui soltanto il formante giurisprudenziale aveva posto rimedio attraverso l'integrazione analogica di cui sopra.

L'efficacia della novella del 2017 è, dunque, pro futuro, senza che il legislatore si sia, però, preoccupato di dettare una disciplina intertemporale, avuto riguardo ai rapporti contrattuali in corso di svolgimento al momento della sua entrata in vigore, disciplina che, pertanto, occorre individuare in forza del principio (o teoria) del c.d. fatto compiuto, che si è enunciato come regolatore delle interferenze dello ius superveniens sui rapporti giuridici suscettibili di esservi incisi e, tra questi, quelli di durata, tra cui, per l'appunto, il contratto di leasing.

Deve ritenersi, quindi, che l'applicazione della nuova legge è consentita, nei confronti di contratto di leasing finanziario concluso antecedentemente alla sua entrata in vigore, allorché, ancora in corso di rapporto, non si siano ancora verificati i presupposti (legali o convenzionali) della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, ossia non si sia verificato, prima dell'entrata in vigore di detta legge, il fatto generatore degli effetti giuridici derivanti dall'applicazione del diritto previgente.

La nuova regolamentazione (e, segnatamente, quella dettata dai commi 137 e 138) incide, sul piano funzionale, sullo svolgimento del rapporto negoziale, ma non anche, sul piano genetico, sulla fattispecie che lo origina - ossia, investe il contratto non come “fatto storico”, quanto come regolamento programmatico di interessi - disciplinandone il profilo patologico dell'inadempimento dell'obbligazione fondamentale gravante sull'utilizzatore, quella del pagamento dei canoni (c.d. inadempimento finanziario), tipizzando rigidamente la misura della gravità della condotta idonea a determinare la risoluzione del contratto di leasing e sottraendo al giudice quella valutazione che l'art. 1455 c.c., quale norma generale, declina in termini elastici.

Valutazione, quest'ultima, che, però, rimane necessaria - non solo per l'inadempimento che concerne il lato del concedente, ma anche - per inadempimenti dell'utilizzatore diversi da quello scolpito dal comma 137, riguardanti, ad esempio, il lato gestionale (utilizzo, manutenzione, conservazione, ecc.) del bene concesso in leasing.

In altri termini, il “fatto compiuto” è, nella specie, quello che genera la responsabilità del debitore (l'utilizzatore) ai sensi dell'art. 1218 c.c., e cioè l'inadempimento - quale evento attinente al rapporto - che è idoneo a legittimare, come effetto, la risoluzione del contratto, inadempimento che la l. n. 124/2017 tipizza (plasmandolo come presupposto settoriale) in guisa tale da determinare il discrimine tra il “prima” e il “dopo” ai fini dell'applicazione della novella.

E il comma 137 - al pari del successivo comma 138, che disciplina gli effetti della risoluzione contrattuale in modo indefettibilmente collegato (per dettato normativo) all'inadempimento declinato dal comma 137 - è norma imperativa, non avendo altrimenti ragione d'essere la tipizzazione ex lege della gravità dell'inadempimento (ancorata al mancato pagamento di un certo numero di canoni mensili o trimestrali), a fronte di possibili deroghe pattizie - del resto, quasi sempre presenti nella prassi commerciale - che attribuiscono al concedente il potere risolutivo per il mancato pagamento di un solo canone o, comunque, di inadempimenti di carattere finanziario ben meno gravi di quello contemplato dalla norma anzidetta.

Questo, peraltro, comporta l'inefficacia ex nunc della clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), apposta a contratto di leasing in corso che non abbia ancora maturato i presupposti della risoluzione ai sensi del citato comma 137, ove calibrata in termini diversi e meno favorevoli per l'utilizzatore di quanto previsto dalla legge con norma imperativa per l'inadempimento di tipo finanziario.

La novella legislativa, dunque, viene a condizionare la stessa autonomia contrattuale delle parti nel senso di impedire alla clausola contraria alla sopravvenuta norma non derogabile (in peius, in quanto stabilita a tutela dell'utilizzatore stesso) di operare dal momento di entrata in vigore di quest'ultima, ossia di giustificare effetti del regolamento contrattuale che non si siano già prodotti.

Né, del resto, la stessa clausola risolutiva espressa, in contrasto con lo ius superveniens a carattere imperativo, sarebbe, come tale, in grado di poter determinare quelle peculiari conseguenze della risoluzione disciplinate dal menzionato comma 138, in quanto queste sono dalla legge correlate allo specifico fatto-inadempimento previsto dal comma 137.

Pertanto, la l. n. 124/2017 non può trovare applicazione per il passato, ossia per i contratti di leasing finanziario in cui si siano già verificati, prima della sua entrata in vigore, i presupposti della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore - essendo, quindi, stata proposta domanda giudiziale di risoluzione ex art. 1453 c.c. o avendo il concedente dichiarato di avvalersi della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. - con la conseguenza che gli effetti risolutori non potranno essere, per detti contratti, quelli disciplinati dal comma 138 dell'art. 1 della medesima legge (ai quali si correla, poi, il procedimento di vendita o riallocazione del bene regolato dal successivo comma 139).

Né è predicabile l'esito - fatto proprio dall'orientamento giurisprudenziale inaugurato di recente dai magistrati di Piazza Cavour - di un'applicazione analogica della disciplina dettata dall'art. 72-quater della l. fall., in caso di scioglimento di contratto di leasing ad opera del curatore nell'àmbito di procedura fallimentare, siccome assunta in guisa di principio generale proprio alla luce, retrospettiva, della novella legislativa del 2017 ed in forza del comune denominatore, tra le due fattispecie, rappresentato dalla attribuzione al concedente del diritto alla restituzione del bene concesso in godimento e all'utilizzatore o alla curatela del ricavato della vendita o di altra allocazione del bene medesimo, detratto l'ammontare del credito residuo (nella portata specificamente stabilita per ciascuna fattispecie interessata).

Le procedure concorsuali

E', dunque, ius receptum che il citato art. 72-quater, introdotto dal d.lgs. n. 5/2006 è norma, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale, presupponendo lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento, sicché la norma fallimentare mantiene salda la distinzione strutturale esistente tra la nozione di risoluzione contrattuale e quella di scioglimento del contratto, quale facoltà riconosciuta ad una pluralità di rapporti pendenti tra il contraente ed il fallito, tra i quali, per l'appunto, anche il leasing, che rientra nel novero dei contratti che - al momento dell'apertura del concorso - restano “sospesi” secondo la regola generale di cui all'art. 72, comma 1, della l. fall.

D'altronde, proprio nell'àmbito di detta distinzione, si apprezza la diversità di tutela somministrata dai due istituti, quello dello scioglimento contrattuale volto a riconoscere tendenzialmente solo una tutela restitutoria e non anche risarcitoria - secondo quanto si evince anche dal comma 4 del suddetto art. 72 - come invece accorda il rimedio generale della risoluzione per inadempimento, la cui azione potrà essere coltivata nei confronti della procedura ove promossa prima della dichiarazione di fallimento, dovendo il contraente far valere le conseguenti pretese restitutorie e di risarcimento del danno ai sensi degli artt. 92 ss. della l. fall., come stabilito dal comma 5 del citato art. 72.

Ed è proprio in ragione di tutte le evidenze appena elencate che il “diritto vivente” ha escluso - in assenza di una eadem ratio e di simili elementi, strutturali e/o funzionali, rilevanti - che la disciplina dettata dall'art. 72-quater della l. fall. potesse trovare applicazione analogica in caso di contratto di leasing finanziario risolto, per inadempimento dell'utilizzatore, prima del fallimento di quest'ultimo, avendo invece rinvenuto la disposizione idonea a colmare la lacuna ordinamentale, in coerenza con i criteri di cui all'art. 12 delle preleggi, in quella generale codicistica dell'art. 1526 c.c., in ipotesi di leasing traslativo.

Ma tale giuridica configurazione dell'art. 72-quater non ha subìto una “trasmutazione” con l'avvento della disciplina di cui all'art. 1, comma 136-140, della l. n. 124/2017, la quale, anzi, al citato comma 140 ha stabilito che “restano ferme le previsioni di cui all'art. 72-quater del r.d. 16 marzo 1942, n. 267”, con ciò ribadendo la specialità della norma fallimentare e la sua portata circoscritta all'àmbito di specifica pertinenza.

Quindi, l'assunto che il suddetto art. 72-quater possa costituire la disposizione applicabile analogicamente ad un contratto di leasing finanziario risolto prima dell'entrata in vigore dell'art. 1, commi 136-140, della l. n. 124/2017 - ma pur sempre nella vigenza della stessa norma fallimentare, altrimenti si avrebbe, secondo quanto innanzi detto, un'illegittima attivazione del procedimento analogico, in quanto fondata su disposizione non presente nell'ordinamento - trova sostegno non già in un'interpretazione (storico) evolutiva delle norme implicate, bensì in un'operazione disallineata rispetto ai criteri posti dall'art. 12 delle preleggi e avente carattere di dissimulata applicazione retroattiva della stessa l. n. 124/2017, quale esito che, stante l'efficacia pro futuro di essa, è inibito al formante giurisprudenziale per le ragioni dianzi esposte.

Per i contratti di leasing traslativo, che non siano soggetti, ratione temporis, alla regolamentazione della legge anzidetta, resta, dunque, valida la soluzione adottata dal diritto vivente di individuare, per analogia legis, nella disposizione dell'art. 1526 c.c. la disciplina della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, essendo comunque sorretta da una ratio giustificativa rispondente all'esigenza di dare un equilibrato assetto alle posizioni delle parti di un contratto atipico, forgiato da una risalente prassi commerciale ed al quale il formante giurisprudenziale ha fornito stabilità di assetto e certezza applicativa - fattori che quella stessa prassi richiede per un suo ordinato sviluppo - rimasto tale sino all'entrata in vigore della novella legislativa del 2017, che ha tipizzato legalmente (nei termini sopra precisati) la figura, unitaria, della locazione finanziaria.

Il massimo consenso decidente ci tiene a precisare che la giurisprudenza di legittimità, da circa un trentennio, rinvenendo, nell'applicazione analogica dell'art. 1526 c.c., la norma parametro di regolamentazione del leasing traslativo, quale traducente il regolamento pattizio social-tipico, non è rimasta sorda a talune critiche, rivolte, in particolare, a dare, per contro, significativo rilievo alla causa di finanziamento che sostanzia - effettivamente, anche se non in modo del tutto assorbente - l'operazione commerciale in esame e, con ciò, a vitalizzare la sintesi degli interessi delle parti in una causa concreta che quell'orientamento consolidato verrebbe a mortificare.

Nello stesso “diritto vivente” sopra delineato si coglie, infatti, la maturata consapevolezza di quale sia la declinazione di quella causa in concreto e, quindi, dell'interesse del concedente di ottenere, nel caso di risoluzione contrattuale per inadempimento dell'utilizzatore, “l'integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell'operazione, e non quello di ottenere la restituzione dell'immobile, che normalmente non rientrava fra i beni di sua proprietà alla data della conclusione del contratto, né costituiva oggetto della sua attività commerciale”.

Di qui, anzitutto il rilievo per cui l'equo compenso, ai sensi del comma 1 dell'art. 1526 c.c., comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo ed il logoramento per l'uso, ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione, e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante - art. 1223 c.c., che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in applicazione del principio di indifferenza - tale da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l'utilizzatore avesse esattamente adempiuto.

Il risarcimento del danno del concedente può, però, essere oggetto di determinazione anticipata attraverso una clausola penale ai sensi dell'art. 1382 c.c. e, in questo senso, si è, del resto, dispiegata l'autonomia privata nella costruzione, in base a modelli standardizzati, del social-tipo “contratto di leasing”, come risulta dalla stessa casistica oggetto di cognizione giudiziale, anche da parte della magistratura di vertice.

In tale contesto, quindi, si è fatta applicazione del comma 2 dell'art. 1526 c.c. e del principio, già contemplato dall'art. 1384 c.c. - di cui la prima disposizione è un portato specifico - della riduzione equitativa, ad opera del giudice, della penale che, sebbene comunque lecita, si palesi manifestamente eccessiva, così da ricondurre l'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela e riequilibrando, quindi, la posizione delle parti, avendo pur sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento integrale.

Ecco dunque - ammoniscono le Sezioni Unite - che la complessiva operazione, originatasi in seno all'autonomia privata e sussunta, attraverso l'analogia, nell'art. 1526 c.c., trova la sua compiuta regolamentazione attraverso la peculiare rilevanza che viene ad assumere il comma 2 dello stesso articolo, ossia la norma che disciplina la clausola penale (c.d. clausola di confisca) e, quindi, il risarcimento del danno spettante in base ad essa al concedente in ipotesi di risoluzione del contratto di leasing traslativo per inadempimento dell'utilizzatore.

Ed è attraverso lo spettro filtrante di detta disposizione che i magistrati di Piazza Cavour hanno potuto selezionare quali clausole standardizzate dall'autonomia privata fossero o meno meritevoli di tutela alla luce della ratio di evitare indebite locupletazioni in capo al concedente e rispondenti, quindi, ad un equilibrato assetto delle posizioni delle parti contrattuali.

Trattasi, dunque, di un patto che, quale espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica, ha trovato origine e sviluppo nell'àmbito dell'autonomia privata, il cui regolamento è stato, per un verso, assunto dal legislatore a parametro di una disciplina dapprima solo settoriale e specifica (tra cui quella dettata dall'art. 72-quater I. fall.), e, poi, da un dato momento in avanti, generale (con la l. n. 124/2017) e, per altro verso, dalla giurisprudenza a metro di rispondenza alla ratio della disciplina applicata analogicamente al contratto di leasing traslativo.

In tale prospettiva, va allora considerato che, ove la vendita o altra allocazione sul mercato del bene concesso in leasing non avvenga, non vi può essere “in concreto una locupletazione che eluda il limite ai vantaggi perseguiti e legittimamente conseguibili dal concedente in forza del contratto”, sicché resta fermo il diritto dell'utilizzatore “di ripetere l'eventuale maggior valore che dalla vendita del bene (a prezzo di mercato)” ricavi il concedente, “rispetto alle utilità che quest'ultimo avrebbe tratto dal contratto qualora finalizzato con il riscatto del bene” (quale tutela già settorialmente tipizzata legalmente dallo stesso art. 72-quater I. fall.).

Le Sezioni Unite puntualizzano ulteriormente che, qualora la clausola penale non faccia riferimento ad una collocazione del bene a prezzi di mercato, essa dovrà essere letta negli stessi termini alla luce del parametro della buona fede contrattuale, ex art. 1375 c.c.; se, invece, il contratto preveda una clausola penale manifestamente eccessiva (acquisizione dei canoni riscossi e mantenimento della proprietà del bene: c.d. clausola di confisca) essa, ai sensi dell'art. 1526, comma 2, c.c. andrà ridotta dal giudice, anche d'ufficio, nell'esercizio del potere correttivo della volontà delle parti contrattuali affidatogli dalla legge, al fine di ristabilire in via equitativa un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, e, quindi, nella specie, dovendo operare una valutazione comparativa tra il vantaggio che la penale inserita nel contratto di leasing traslativo assicura al contraente adempiente ed il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto.

A tal riguardo - concludono le Sezioni Unite - tenuto conto delle circostanze concrete del caso oggetto di sua cognizione, occorrerà che il giudice privilegi la soluzione innanzi evidenziata, e, quindi, ferma restando l'irripetibilità dei canoni già riscossi, provveda ad una stima del bene ai valori di mercato al momento della restituzione dello stesso - se il bene non sia stato venduto o altrimenti allocato e, dunque, in tale evenienza costituendosi a parametro i valori rispettivamente conseguiti - e, quindi, detragga il valore stimato dalle somme dovute al concedente, con eventuale residuo da attribuire - in fattispecie (come quella in esame) di fallimento dell'utilizzatore successivo all'intervenuta risoluzione contrattuale - alla curatela.

In siffatto contesto, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l'onere di formulare una domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 della I. fall., in seno alla quale, invocando l'applicazione dell'eventuale clausola penale stipulata in suo favore, offra al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa o manifestamente eccessiva; e per consentire siffatta valutazione da parte dello stesso giudice delegato, è chiaro onere dell'istante quello di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, oppure, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa.

Riferimenti

Celeste - Petrelli, Le nuove forme di godimento dei beni immobili, Milano, 2021, 93;

Mauceri, Risoluzione per inadempimento e contratto di leasing, in Contr. e impr., 2020, 1517;

Ghirlanda, Note sul leasing immobiliare abitativo, in Immob. & proprietà, 2017, fasc. 1, 7;

Baruzzi, Leasing abitativo tra prime risposte e dubbi ancora aperti, in Fisco, 2016, 1236;

Scarfò, Il leasing finanziario abitativo, in Gazzetta forense, 2016, 260;

Dini, Le problematiche qualificatorie del leasing finanziario e l'irrisolta questione della disciplina applicabile alla risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, in Europa e diritto privato, 2016, fasc. 3, 803;

Mangialardi, Risoluzione del contratto di leasing ed equo compenso, in Contratti, 2008, 144.

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