Reati abituali e ammissibilità dell’arresto in flagranza da parte di chi non ha assistito personalmente ai fatti
01 Aprile 2019
Massima
Nei reati abituali è possibile procedere all'arresto in flagranza anche quando il bagaglio conoscitivo del soggetto che procede all'arresto deriva da pregresse denunce della vittima, relative a fatti a cui egli non abbia assistito personalmente, purché tuttavia tale soggetto assista a una frazione dell'attività delittuosa che, sommata a quella oggetto di denuncia, integri l'abitualità richiesta dalla norma; ovvero, purché – alla luce del suo bagaglio conoscitivo – il soggetto in questione sorprenda il reo con cose o tracce dalle quali appaia che questi ha commesso il reato immediatamente prima. Il caso
Tizio è stato arrestato in flagranza di reato e condotto dinanzi al giudice monocratico del Tribunale di Firenze, chiamato a pronunciarsi in merito alla sua responsabilità per il delitto di atti persecutori commesso in danno della persona offesa Caia e, preliminarmente, sulla legittimità del suo arresto. La persona offesa aveva richiesto l'intervento dei Carabinieri presso la propria abitazione riferendo di essere stata rincorsa da Tizio proprio mentre tentava di fare rientro a casa e che l'indagato aveva tentato di afferrarla per un braccio. I Carabinieri avevano trovato Tizio a circa cento metri dall'abitazione della persona offesa e gli avevano trovato in tasca un biglietto simile ad altri che la donna aveva riferito di aver trovato su un davanzale della propria abitazione pochi giorni prima. Non essendosi l'azione svolta sotto l'osservazione diretta dei militari operanti, il giudice non ha proceduto alla convalida dell'arresto ritenendo non sussistente la condizione della flagranza o della quasi flagranza del reato. Avverso la decisione di mancata convalida dell'arresto ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze deducendo la sussistenza nel caso di specie di una tipica situazione di c.d. quasi flagranza, essendo stato Tizio sorpreso non molto lontano dalla casa della vittima e con indosso un biglietto simile ad altri rinvenuti dalla persona offesa e oggetto di precedente denuncia, vale a dire con cose o tracce che facevano intendere che avesse commesso il reato immediatamente prima dell'intervento dei militari. La questione
La questione sottoposta all'esame della Suprema Corte è la seguente: se sia possibile procedere all'arresto in flagranza anche quando il bagaglio conoscitivo del soggetto che procede all'arresto derivi da pregresse denunce presentate dalla vittima, denunce presentate per fatti a cui egli non abbia assistito personalmente. Le soluzioni giuridiche
Come noto, lo stato di flagranza è definito (art. 382 c.p.) come la situazione di «chi viene colto nell'atto di commettere il reato» oppure di «chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone» o, infine, di chi «è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima». Le ultime due ipotesi sono tradizionalmente definite di quasi flagranza e sono oggi equiparate all'ipotesi di flagranza vera e propria, stante la stretta contiguità fra la commissione del fatto e la successiva sorpresa del presunto autore di esso. Sulla corretta qualificazione del concetto di quasi flagranza si è formato un contrasto giurisprudenziale per risolvere il quale si è reso necessario l'intervento chiarificatore delle Sezioni unite. In alcune pronunce, infatti, la Suprema Corte ha negato la sussistenza della quasi flagranza in quanto l'azione che aveva porta all'arresto non era derivata da un immediato inseguimento da parte della polizia giudiziaria, che non aveva appreso il fatto direttamente, ma dalla denuncia della persona offesa, di tal che l'inseguimento del colpevole si era tenuto dopo la consumazione dell'ultima frazione della condotta delittuosa e dopo un lasso di tempo significativo, utilizzato per raccogliere informazioni dalla stessa persona offesa e/o da altri soggetti che avevano assistito al fatto (cfr., tra le varie, Cass. pen., Sez. III, 27 settembre 2011, n. 34918; Cass. pen., Sez. VI, 28 maggio 2010, n. 20539; Cass. pen., Sez. V, 19 maggio 2010, n. 19078; Cass. pen., Sez. IV, 16 aprile 2004, n. 17619). Il fondamento di tale indirizzo si rinviene nella previsione di cui all'art. 13 Cost., a norma del quale i provvedimenti provvisori di restrizione della libertà personale d'iniziativa della Polizia giudiziaria rappresentano ipotesi eccezionali, non suscettibili di interpretazione estensiva o analogica. Non potendosi assimilare l'ipotesi dell'inseguimento a quella delle ricerche o investigazioni effettuate per la ricerca del colpevole, dunque, si affermava che la necessità di svolgere delle indagini, sia pur minime, determina uno iato che spezza la compenetrazione temporale, logica e giuridica che deve necessariamente aversi tra commissione del fatto e cattura perché possa legittimamente parlarsi di arresto in flagranza. In altre pronunce, invece, la Corte aveva ricondotto nello stato di quasi flagranza anche l'azione di ricerca immediatamente posta in essere, anche se non subito conclusa, purché, si precisava, tale ricerca si fosse protratta senza soluzione di continuità sulla scorta delle indicazioni della vittima, di eventuali correi o di altre persone che avessero assistito al fatto (cfr., tra le molte, Cass. pen., Sez. II, 16 dicembre 2010, n. 44639; Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2006, n. 23560). A fondamento di tale secondo orientamento vi era una lettura ampia del concetto di inseguimento, inteso come attività di indagine che la Polizia giudiziaria pone in essere appena riceve la notitia criminis e che effettua senza soluzione di continuità fino all'arresto del soggetto; ciò che rileva è che l'attività di indagine non subisca interruzioni dopo la commissione del reato. A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 39131 del 24 novembre 2015) che hanno avallato il primo orientamento affermando che non può procedersi all'arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nella immediatezza del fatto. La decisione, ormai ben nota, presenta un notevole sforzo ricognitivo delle caratteristiche dell'istituto della flagranza del reato evidenziando, in particolare, che essa presuppone la contestualità eziologica, temporale e spaziale tra il compimento del reato e la conseguente privazione della libertà personale. Nella pronuncia in commento, la Quinta Sezione penale della Suprema Corte ha in primo luogo recuperato e riaffermato le argomentazioni spese dalle Sezioni Unite ricordando che «la percezione del reato – da parte di chi procede all'arresto deve essere diretta e non mediata» e che «la percezione è diretta […] anche quando è desunta da fatti obiettivi, quali sono il possesso – da parte del reo – di “cose” che colleghino il soggetto al reato, ovvero quando questi abbia indosso “tracce” che consentano di stabilire lo stesso collegamento», con la conseguenza che si può sostenere la sussistenza della flagranza quando dal contesto siano desumibili elementi che provino la commissione di un reato e consentano di attribuirlo con certezza ad un soggetto determinato. Fatta questa doverosa premessa, la Corte precisa poi che nell'applicazione pratica dei criteri enunciati dalle Sezioni Unite occorre necessariamente tener conto della natura dei reati per i quali ci si appresta ad eseguire l'arresto, ponendosi peculiari problemi a seconda del delitto per cui si procede. È questo il caso dei reati abituali (come è, nella specie, quello previsto dall'art. 612-bis c.p.), che sono caratterizzati da azioni ed omissioni che di per sé possono anche non integrare alcun reato (ovvero non integrare il fatto per cui è consentito l'arresto in flagranza); ancora, in tali ipotesi le cose o tracce del reato possono essere apprezzate soltanto grazie alla "collaborazione informativa" della vittima che consente di ricondurre le varie condotte del reo «in un quadro normativamente delineato». Nei reati abituali difficilmente il soggetto che procede all'arresto ha modo di assistere direttamente a tutta la sequenza criminosa che determina l'abitualità del reato e limitare la possibilità di procedere all'arresto ai soli casi di assistenza diretta a fatti costituenti reato comporterebbe, in definitiva, l'impossibilità di procedere all'arresto in gran parte dei reati abituali. Afferma dunque la Suprema Corte che nei reati abituali è possibile procedere all'arresto in flagranza anche quando il bagaglio conoscitivo del soggetto che procede all'arresto derivi da pregresse denunce della vittima che abbia descritto fatti costituenti reato o che diano luogo all'abitualità richiesta dalla fattispecie penale di riferimento, fatti a cui egli non abbia assistito personalmente, purché, tuttavia, il soggetto che procede all'arresto assista (per lo meno) a una frazione dell'attività delittuosa che, sommata a quella oggetto di denuncia, integri l'abitualità richiesta dalla norma ovvero ancora purché, già forte del suo bagaglio conoscitivo, sorprenda il reo con cose o tracce dalle quali appaia che questi ha commesso il reato immediatamente prima. Nel caso di specie, i Carabinieri operanti avevano già ricevuto delle denunce dalla vittima, la quale aveva descritto condotte moleste reiterate da parte dell'imputato; accorsi a casa della donna in occasione dell'ultima richiesta di intervento, i militari avevano poi rinvenuto sull'imputato biglietti analoghi a quelli descritti dalla persona offesa e nel telefono cellulare dell'uomo avevano rinvenuto la scheda SIM relativa al numero di telefono indicato nei bigliettini lasciati alla donna, circostanza che portava evidentemente a ritenere l'uomo l'autore delle condotte da questa lamentate. Poiché, dunque, i Carabinieri hanno rinvenuto cose dalle quali appariva che il reato di atti persecutori fosse stato commesso immediatamente prima, la Suprema Corte ha ritenuto che l'arresto fosse stato legittimamente eseguito e, accolto il ricorso presentato dal Pubblico Ministero, ha annullato senza rinvio l'ordinanza impugnata. Osservazioni
La decisione in commento appare convincente. Essa, infatti, ha il merito di collocarsi nel solco della lettura restrittiva della quasi flagranza offerta dalle Sezioni Unite (in tal senso va inteso il requisito della percezione diretta dell'ultimo segmento di condotta da parte degli organi di Polizia), senz'altro più rassicurante sul piano dei valori costituzionali (art. 13 Cost.), senza giungere al punto di rottura di dover escludere i reati abituali dal novero delle fattispecie per le quali è possibile eseguire un arresto, soluzione che peraltro sarebbe contra legem (v. art. 380 lett. l-bis) c.p.p.). Deve, tuttavia, osservarsi che i reati abituali, e in special modo i delitti di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori, assai ricorrenti nella prassi, richiedono investigazioni capillari del tutto incompatibili con le serrate dinamiche procedurali innestate dall'esecuzione di una misura precautelare; in tali casi si corre il rischio, tutt'altro che peregrino, di consegnare al giudice – che non deve solo convalidare l'arresto, ma anche decidere sulla domanda cautelare del Pubblico Ministero – un fascicolo frettolosamente istruito. Lo scenario è ancora più critico nel caso in cui l'organo inquirente decida anche di esercitare l'azione penale con il rito direttissimo. In tal caso il giudice potrà svolgere dei supplementi istruttori d'ufficio, ma non sempre tale attività sarà in grado di colmare eventuali lacune investigative. In ogni caso da un scenario di questo tipo escono comunque vulnerati la terzietà dell'organo giudicante, costretto ad indossare i panni dell'istruttore, e il ruolo del difensore, schiacciato dalle tempistiche contratte. |