Il requisito di specificità della causale nel contratto di lavoro a tempo determinato è ineludibile
08 Aprile 2019
Massime
Il requisito di specificità è ineludibile ai sensi della disciplina in tema di rapporti di lavoro a tempo determinato, dettata dal d.lgs. n. 368 del 2001, non essendo soddisfatto di certo in base al generico richiamo delle previsioni della contrattazione collettiva, per giunta senza alcuno specifico riferimento alle esigenze eventualmente previste dal CCNL in materia di lavoro a tempo determinato.
Oltre al requisito di specificità occorrente ex art. 1, d.lgs. n. 368 del 2001, cit., è la parte datoriale che deve altresì dimostrare l'effettività di quanto enunciato nella clausola contrattuale per giustificare l'apposizione del termine. Il caso
La Corte d'appello di Lecce rigettava il ricorso proposto da un lavoratore avverso la sentenza di primo grado, con la quale veniva respinta la domanda volta ad ottenere la nullità del termine finale dei contratti di lavoro a tempo determinato per attività stagionale conclusi tra il 2004 e il 2008.
Il ricorrente riteneva, infatti, che le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo (c.d. “causale”) non fossero state sufficientemente specificate nei contratti a termine e richiedeva la conversione dei predetti contratti in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Secondo la Corte territoriale, invece, i rapporti a termine erano stati legittimamente stipulati ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001, allora in vigore, in quanto, come sottolineato dal giudice di prime cure, la causale era stata correttamente delineata in relazione sia al CCNL che ai contratti individuali.
Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione contro la predetta decisione della Corte di appello. Le questioni
Le questioni in esame sono le seguenti:
Le soluzioni giuridiche
Secondo un orientamento consolidato della Suprema Corte, il legislatore ha imposto, con l'art. 1, comma 2, d.lgs. n. 368 del 2001, un onere di specificazione delle ragioni giustificatrici “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” del termine finale, che debbono essere sufficientemente particolareggiate così da rendere possibile la conoscenza della loro effettiva portata e il relativo controllo di effettività. Tale scelta sarebbe peraltro in linea con la direttiva comunitaria 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di giustizia (cfr., ex multis, Cass., sez. lav., 27 gennaio 2011, n. 1931).
In altri termini, viene posto a carico del datore di lavoro l'onere di indicare in modo circostanziato e puntuale le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle sue esigenze, nell'ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato: ciò, in modo da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze che la stessa è chiamata a realizzare, nonchè l'utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell'ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa.
Secondo il Giudice di legittimità, il legislatore del 2001, al fine di evitare un uso indiscriminato dell'istituto del contratto a tempo determinato, ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell'onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali (cfr., ex multis, Cass., sez. lav., 13 gennaio 2015, n. 343).
Peraltro, oltre al requisito di specificità, l'onere di dimostrare l'effettività di quanto enunciato nella clausola contrattuale per giustificare l'apposizione del termine è in capo al datore di lavoro, in quanto le ragioni giustificanti l'apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, ai sensi dell'art. 1, d.lgs. n. 368 del 2001, rappresentano un regime derogatorio alla forma comune del rapporto di lavoro, che è a tempo indeterminato.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto non sussistente il requisito della specificità delle causali nei contratti a termine stipulati tra il 2004 e il 2008, requisito non soddisfatto in base al generico richiamo delle previsioni della contrattazione collettiva, per giunta senza alcuno specifico riferimento alle esigenze eventualmente previste dal CCNL in materia di lavoro a tempo determinato. Allo stesso modo risultano irrilevanti, a parere della Corte, i riferimenti alle comunicazioni di assunzione fornite all'Ufficio del Lavoro e alla relazione tecnica di appalto tra il datore di lavoro e la società appaltatrice, trattandosi di atti unilaterali di parte datoriale, non sottoscritti dal lavoratore e comunque da costui non conosciuti, né tantomeno trascritti nei suddetti contratti di assunzione a termine.
Alla luce dei principi sopra enunciati, la Corte di cassazione accoglieva il ricorso e disponeva l'annullamento della sentenza de qua con rinvio ad altra Corte territoriale (occorrendo opportuni e pertinenti accertamenti di fatto), ai sensi e per gli effetti degli artt. 384 e 385, c.p.c. Osservazioni
Prendendo spunto dalla sentenza in commento, è utile, in via preliminare, un breve cenno alla evoluzione normativa della disciplina del contratto a termine.
La storia del contratto a tempo determinato, all'interno dell'ordinamento italiano, è risalente e ha inizio con la l. n. 230 del 1962, che prevedeva una disciplina molto restrittiva nei confronti delle assunzioni a tempo determinato, con un numero chiuso di causali per l'apposizione del termine finale. Nel corso degli anni, tuttavia, la legislazione in materia di contratto a tempo determinato faceva registrare un percorso di maggior favore nei confronti di questa tipologia contrattuale: passando per la l. n. 56 del 1987, si approdava al d.lgs.n. 368 del 2001, che richiedeva la sola presenza di una ragione giustificatrice “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” per l'apposizione del termine (la c.d. causale) e che, di fatto, dava inizio alla stagione della “flessibilità”. Dagli anni duemila, con la Legge Fornero prima (l. n. 92 del 2012) e con il Decreto Poletti (d.l. n. 34 del 2014) e il Jobs Act poi (d.lgs.n. 81 del 2015), si assiste ad un processo di completa “liberalizzazione” del contratto a termine, che sfocia nella abolizione della causale e nella fissazione del principio della acausalità dei contratti a termine.
Negli ultimi mesi, con l'insediamento del nuovo Governo, si è registrata una inversione di tendenza rispetto al processo di liberalizzazione sopra descritto e, dal 14 luglio 2018, sono state reintrodotte le causali. Il Decreto adottato dal nuovo Esecutivo, ovvero il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” (poi convertito dalla l. 9 agosto 2018, n.96), nel dichiarato obiettivo della “lotta al precariato”, prevede una profonda revisione dei contratti a tempo determinato che si concretizza (i) nell'introduzione (reintroduzione) delle causali, (ii) nella diminuzione della durata massima dei contratti a termine (da 36 a 24 mesi), (iii) nell'incremento dell'aliquota contributiva in caso di rinnovo del contratto a termine. Più nello specifico, la disciplina prevede che le parti possano stipulare liberamente un contratto di lavoro a tempo determinato di durata non superiore a 12 mesi, mentre in caso di durata superiore (comunque non eccedente i 24 mesi) tale possibilità è riconosciuta, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
La previsione di tali condizioni per la conclusione dei contratti a termine riappare qualche anno dopo l'abolizione di quelle condizioni riferite alle esigenze “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, di cui al d.lgs.n. 368 del 2001, le quali (anche) per la loro genericità erano state foriere di un rigoglioso contenzioso giudiziale. Il Decreto Dignità riporta le causali al centro della disciplina dei contratti a termine (accendendo un aspro dibattito sociopolitico), recuperando alcune condizioni già presenti nella l. n. 230 del 1962 con una fraseologia ripresa dalle varie pronunce giurisprudenziali emesse in vigenza della precedente normativa. Se è pur vero che le nuove causali del decreto Dignità appaiono più specifiche e circoscritte rispetto a quelle indicate dal d.lgs. n. 368 del 2001, è senz'altro indubbio che queste potrebbero condurre ad interpretazioni discordanti e sfociare in un contenzioso.
L'indirizzo giurisprudenziale confermato dalla sentenza in commento, che richiama una normativa ormai abrogata, “rischia” dunque di ritornare quantomai di attualità. Gli addetti ai lavori sono dunque in attesa delle prime pronunce giurisprudenziali sul tema per comprendere, in particolare, quale sarà il grado di specificità richiesto dal giudicante per rendere “inattaccabili” le nuove causali dei contratti a tempo determinato. |