Natura e finalità del congedo parentale
15 Marzo 2018
Massima
Il congedo parentale è un diritto potestativo del lavoratore nei confronti del datore di lavoro ed ha lo scopo di consentirgli il soddisfacimento dei bisogni affettivi e di cura della prole. Costituisce, quindi, abuso del diritto, con conseguente legittimità del licenziamento intimato per giusta causa, l'utilizzo del congedo parentale per finalità estranee all'accudimento di un figlio. Il caso
Un lavoratore ricorre in Cassazione dopo che entrambi i giudizi di merito avevano confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro poiché aveva accertato, tramite investigazioni difensive, che buona parte del permesso concesso a titolo di congedo parentale era stato impiegato per attività estranee all'accudimento della prole.
L'eccezione di rilevanza giuslavoristica sollevata dal ricorrente è che i giudici hanno erroneamente applicato la disciplina del congedo parentale posto che né la L. n. 53/2000 e neppure il D.Lgs n. 151/2001 prevedono che il tempo concesso di congedo parentale debba essere trascorso, esclusivamente o in prevalenza, con il figlio minore.
A sostegno di tale eccezione, la difesa del lavoratore effettua un raffronto con i permessi ex L. n. 104/1992 per assistere parenti disabili. In quest'ultima disposizione è necessario l'utilizzo dell'intero tempo richiesto di congedo per finalità assistenziali, anche alla luce del fatto che l'assenza dal lavoro è totalmente retribuita. Nel congedo parentale, invece, il richiedente percepisce un'indennità pari al 30% della retribuzione sino al terzo anno di anno di età del bambino, e, successivamente, alcunché. La questione
Il congedo parentale può essere utilizzato anche per finalità ultronee rispetto all'accudimento della prole? Il congedo parentale costituisce un diritto potestativo del lavoratore senza alcuna possibilità di opposizione da parte del datore di lavoro? Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte conferma la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore. La decisione ha come presupposto giuridico l'inquadramento del congedo parentale nella categoria dei diritti potestativi. In presenza dei requisiti di fatto previsti dal congedo, il datore di lavoro soggiace alla volontà del lavoratore.
La natura diritto potestativo comporta il corretto utilizzo della prerogativa prevista dal Legislatore che, nel caso di cui trattasi, altro non è che l'assistenza e la cura della prole. Solo in base a questo presupposto è giustificabile l'onere del datore di lavoro di riorganizzare l'attività d'impresa sopperendo all'assenza del lavoratore. L'utilizzo per fini diversi rispetto a quelli previsti dalla norma, comporta un abuso del diritto che può giustificare un licenziamento per giusta causa. In altri termini, la sentenza, riprendendo un consolidato orientamento (si veda Cass., sez. lav., 16 giugno 2008, n. 16207), afferma nuovamente il principio in base al quale l'attribuzione del diritto all'astensione facoltativa anche al padre lavoratore è condizionata all'effettivo perseguimento di soddisfare i bisogni di cura e sorveglianza del bambino. La norma persegue, dunque, la tutela della paternità di talchè il congedo non può essere utilizzato per scopi diversi anche se indirettamente favoriscono economicamente la prole, come lo svolgimento di un secondo lavoro con l'intento di fornire maggiori risorse economiche alla famiglia.
Del resto anche la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 104 del 1 aprile 2003, n. 371 del 23 dicembre 2003 e n. 385 del 14 ottobre 2005, aveva evidenziato che la tutela della paternità comporta misure volte a favorire il rapporto del padre con la prole, così come stabilito dagli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione.
Lo sviluppo del rapporto figlio-genitore richiede evidentemente la presenza di quest'ultimo accanto al bambino. Di conseguenza il fine della norma è frustrato se, durante il congedo, si svolgono altre attività lavorative. Osservazioni
Senza avere alcuna pretesa di esaustività pare opportuno evidenziare come la disciplina del D.Lgs n. 151/2001, a differenza della precedente normativa prevista dalla L. n. 903/1977, abbia elevato a diritto iure proprio la facoltà del padre di astenersi dal lavoro senza che tale richiesta sia subordinata alla rinuncia della madre di usufruire del congedo nel caso in cui quest'ultima svolga un lavoro subordinato. Sulla scorta di quanto evidenziato nel precedente paragrafo, la sentenza in commento segue il consolidato orientamento secondo il quale l'istituto del congedo ha natura di diritto potestativo. In base a questa esegesi il congedo acquisisce la particolarità di essere uno dei pochi casi, nell'ambito del diritto del lavoro, in cui il datore di lavoro soggiace alla volontà del proprio dipendente. Non scalfisce la natura di diritto potestativo il fatto che l'art. 32 co. 3 del D.Lgs n. 151/2001 preveda, eccezion fatta per i casi di emergenza e non prevedibili, che il lavoratore debba preavvisare almeno 5 giorni prima il datore di lavoro secondo le modalità previste dai contratti collettivi. Trattasi di un mero onere che si basa sul principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ma che non va ad incidere sullo stato di soggezione del datore di lavoro rispetto alla volontà del lavoratore.
Tuttavia è opportuno precisare che la giurisprudenza, nei rapporti di pubblico impiego non privatizzato, ritiene che la fruibilità del congedo parentale non debba andare a ledere interessi e/o diritti della collettività che gli organismi pubblici tendono a soddisfare. E' il caso, ad esempio, dei dipendenti delle forze dell'ordine. Il Consiglio di Stato inizialmente aveva escluso in assoluto l'applicabilità dei congedi parentali (Cons. di Stato, sez. VI, 25 maggio 2010 n. 3278; Cons. di Stato, sez. III, 26 ottobre 2011 n. 5730) sulla base di due distinti motivi. Il primo si basava sull'inapplicabilità al rapporto di lavoro del personale militare e di Polizia della disciplina del lavoro subordinato privato. Lo stesso art. 3 del D.Lgs n. 151/2001 esclude la sua operatività in determinati rapporti di lavoro, tra i quali membri appartenenti alle forze dell'ordine, magistrati, diplomatici e altre tipologie di dipendenti pubblici. In secondo luogo si rimarcava l'importanza dei compiti attribuiti agi appartenenti alle forze dell'ordine che permettono un trattamento diverso rispetto agli altri lavoratori: in questo caso, prevale sulla tutela della genitorialità la preservazione del buon andamento della pubblica amministrazione. Successivamente il Consiglio di Stato, con la sentenza emessa dalla sez. VI il 23 maggio 2016, aveva affermato la possibilità che gli appartenenti alle forze di Polizia potessero richiedere il congedo, ma a condizione che la concessione non pregiudicasse l'interesse pubblico della sicurezza. Con questa nuova interpretazione dell'istituto, il Consiglio di Stato aveva sottoposto l'utilizzo del congedo alla condizione che questo non si ripercuotesse negativamente sull'organizzazione dell'arma al quale il lavoratore apparteneva e, quindi, non venisse messa in pericolo la sicurezza della collettività. Il bilanciamento degli interessi nell'ambito del pubblico impiego non privatizzato è stato ribadito da una recentissima sentenza del Consiglio di Stato, la n. 4993 del 30 ottobre 2017. In detta pronuncia viene negato la spettanza dei congedi parentali al padre appartenente alle forze dell'ordine poiché la madre svolgeva l'attività di casalinga. In netto contrasto con l'orientamento della Suprema Corte (cfr. ex plurimis Cass. Civ., Sez.III, sent. 3 marzo 2000, n. 4657) che ha riconosciuto l'importanza e le difficoltà del lavoro domestico, il Consiglio di Stato ha stabilito che la casalinga può gestire autonomamente il proprio lavoro e, quindi, non è necessario che il padre, dipendente delle forze armate, debba assentarsi dal proprio. Il Consiglio di Stato, quindi, paragona la casalinga ad una libera professionista, ma ritiene non applicabile nel pubblico impiego non privatizzato la lettera c) dell'art. 40 del D.Lgs 151/2001 che prevede che il padre possa usufruire dei periodi di riposo anche quando la madre non sia una dipendente.
Tirando le fila del discorso dal punto di vista dogmatico il congedo parentale può essere definito come un “Giano bifronte”. Esso si mostra all'operatore del diritto come un diritto potestativo nell'ambito del diritto del lavoro privato e del pubblico impiego privatizzato, ma degrada ad interesse legittimo nel caso di pubblico impiego non privatizzato, dovendo in quest'ultimo caso effettuare un bilanciamento con altri interessi e/o diritti di natura pubblicistica che tendono a prevalere ed essendo, inoltre, posto a carico del lavoratore l'onere probatorio di dimostrare la necessità dell'utilizzo del congedo.
Infine il D.Lgs n. 151/2001 non lascia adito a dubbi al fatto che la ratio della norma sia quella di tutelare i bisogni relazionali ed affettivi della prole con entrambi i genitori. Innegabilmente la richiesta di permessi volti a non accudire i propri figli non può non essere inquadrata nella fattispecie “abuso del diritto”. Cionondimeno, a sommesso parere di chi scrive, sussistono perplessità nel ritenere sempre e comunque applicabile la sanzione del licenziamento per giusta causa.
La stessa sentenza in commento lascia presupporre una discrezionalità del Giudice nel valutare la gravità della sanzione da applicarsi nel caso di un utilizzo non genuino del congedo parentale che può anche non comportare la sanzione disciplinare più grave. Soluzione, quest'ultima, percorribile solo nei rapporti di lavoro iniziati prima dell'entrata in vigore del Jobs act. Per quelli che rientrano nella disciplina delle tutele crescenti, la conseguenza non può non essere che il licenziamento essendo stata eliminata la discrezionalità del giudice una volta accertata l'esistenza del fatto materiale contestato.
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