L'insussistenza del fatto materiale contestato alla luce del Jobs Act
20 Maggio 2019
Il caso. Il Tribunale di Genova, pronunciando ai sensi del d.lgs. n. 23 del 2015 in merito all'impugnativa di licenziamento disciplinare intimato a una lavoratrice, dichiarava illegittimo il recesso, estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e condannava la società datoriale al pagamento della indennità risarcitoria.
La Corte di appello di Genova, con diversa motivazione, confermava il dispositivo della sentenza appellata; i giudici di appello osservavano come la domanda della lavoratrice, volta ad ottenere la tutela reintegratoria prevista dal comma 2 dell'art. 3, d.lgs. 23 del 2015, per il caso di insussistenza del fatto materiale contestato, dovesse essere respinta in quanto la condotta addebitata (allontanamento dal posto di lavoro) non era stata negata nella sua realtà storica; la stessa, piuttosto, non poteva ritenersi, in concreto, per le circostanze in cui si era verificata, di gravità tale da giustificare il licenziamento.
L'insussistenza del fatto materiale contestato alla luce del Jobs Act. Per la Corte di cassazione, ai fini della pronuncia di cui al comma 2 dell'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015 (Jobs Act), l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.
Nella motivazione i giudici di legittimità ricordano anzitutto come il comma 4 dell'art. 18, st. lav., nell'attribuire la tutela reintegratoria “attenuata” al dipendente richiami la nozione di “insussistenza del fatto contestato” la quale - come sintetizzato nella sentenza n. 10019 del 2016 - comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.
E, seppure, osservano i giudici, la formulazione del comma 2 dell'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015, non sia perfettamente coincidente con quella di cui al comma 4 dell'art.18, l. n. 300 del 1970, tuttavia il medesimo criterio razionale che ha già portato la giurisprudenza di legittimità a ritenere che, quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il legislatore, parlando di "insussistenza del fatto contestato", abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione (Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento che - sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato - la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determini la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2.
Invero al fatto accaduto ma disciplinarmente del tutto irrilevante non può logicamente riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso.
Conforta tale assunto, conclude la Corte Suprema, una lettura costituzionalmente orientata della norma, dovendosi, al riguardo, affermare che qualsivoglia giudizio di responsabilità, in qualunque campo del diritto punitivo venga espresso, richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all'agente e, da quello oggettivo, la riconducibilità del medesimo nell'ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità.
Per i giudici di legittimità, la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello. |