La parabola del “posto fisso”: le conseguenze dell'assunzione clientelare

Stefano Costantini
23 Novembre 2017

Deve ritenersi nullo, per illiceità della causa o dell'oggetto, il contratto di lavoro posto in essere in violazione di specifiche norme di legge regolanti l'assunzione del lavoratore. La piena consapevolezza del lavoratore di essere stato assunto in virtù di una procedura del tutto irregolare, integra i requisiti della giusta causa di licenziamento.
Massima

Deve ritenersi nullo, per illiceità della causa o dell'oggetto, il contratto di lavoro posto in essere in violazione di specifiche norme di legge regolanti l'assunzione del lavoratore. La piena consapevolezza del lavoratore di essere stato assunto in virtù di una procedura del tutto irregolare integra i requisiti della giusta causa di licenziamento.

Il caso

A seguito della conclusione in primo grado di un procedimento penale contro il proprio ex amministratore delegato, una società a totale partecipazione pubblica (ex municipalizzata comunale) procedeva al licenziamento disciplinare, per giusta causa, di 41 lavoratori assunti, quasi sette anni prima, senza il rispetto delle procedure di legge e di regolamento.

In particolare, era risultato che, nell'imminenza dell'entrata in vigore dell'art. 18 D.L. n. 112/2008, convertito in Legge n. 133/2008 (norma che imponeva alle società a totale partecipazione pubblica, che gestiscono servizi pubblici locali, di disciplinare criteri e modalità di assunzione del proprio personale e per il conferimento di incarichi conformi ai principi stabiliti per i dipendenti pubblici dall'art. 35 D.Lgs. n. 165/01), l'ex amministratore delegato aveva personalmente “curato” l'assunzione diretta di un considerevole numero di impiegati, senza alcuna preventiva valutazione dei curricula, senza alcun colloquio preventivo e senza seguire alcuna procedura selettiva.

Il lavoratore, impugnando giudizialmente il licenziamento, ne sosteneva innanzitutto la discriminatorietà, lamentando una occulta motivazione politica alla base dello stesso, connessa al cambio dei vertici aziendali e dell'amministrazione di riferimento.

Rilevava anche la tardività della contestazione disciplinare e comunque, affermando la propria estraneità all'illecito penale accertato e la propria inconsapevolezza circa l'irregolarità formale della procedura di assunzione, riteneva non sussistente una giusta causa né un giustificato motivo di licenziamento.

Aggiungeva altresì che, in base alle disposizioni vigenti al momento dell'assunzione, la sua chiamata diretta doveva ritenersi perfettamente legittima.

Il Tribunale, in sede di opposizione all'ordinanza emessa a conclusione della fase sommaria, prende in esame tutte le doglianze del lavoratore, dichiarandone l'infondatezza e confermando la legittimità del provvedimento espulsivo.

Le questioni

I principali temi affrontati dalla decisione in esame sono: quello della tempestività della contestazione degli addebiti; quello delle conseguenze dei vizi genetici sul contratto di lavoro; quello della consapevolezza dell'esistenza di tali vizi quale elemento costitutivo soggettivo della giusta causa.

Le soluzioni giuridiche

Su tutte le questioni suindicate, una seppur breve e preliminare illustrazione merita la questione della invalidità dell'assunzione, per le particolari caratteristiche che, soprattutto in tale fase, assume il rapporto di lavoro del dipendente di società privata in mano pubblica.

Il legislatore ha, infatti, tentato di avvicinare quanto più possibile la delicata fase costitutiva del rapporto di lavoro tra dette società e i propri dipendenti, altrimenti di natura squisitamente privatistica, al modello proprio dell'impiego pubblico, con il preciso scopo di arginare fenomeni di clientelismo, agevolati proprio dalla diffusione del modello di gestione dei servizi pubblici locali attraverso società di diritto privato e dunque dalla sostanziale “libertà contrattuale” di cui il datore privato può godere, anche nella scelta del personale da impiegare.

Con la cosiddetta “Riforma Brunetta” e, in particolare, con l'art. 18, comma 1 del D.L. n. 112/2008 (poi modificato dalla L. di conversione 6 agosto 2008, n. 133 e oggi abrogato dal D.Lgs. n. 175/2016) si stabiliva, infatti, che le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica dovessero rispettare criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi conformi seguenti principi, fissati per i pubblici dipendenti dal comma 3 dell'art. 35 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165:

  • adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento;
  • adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire;
  • rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori;
  • decentramento delle procedure di reclutamento;
  • composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza, scelti tra soggetti terzi, neutrali ed estranei agli organismi politici e sindacali.

Le società interessate, quindi, erano quindi tenute ad adottare provvedimenti con cui si autovincolassero a rispettare i suddetti criteri generali, evidentemente ispirati ai principi costituzionali di trasparenza, correttezza e buon andamento dell'azione amministrativa, a decorrere dal sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della Legge di conversione del Decreto (ovvero dal 21 ottobre 2008).

In ordine alla tardività dell'avvio del procedimento disciplinare, avvenuto a distanza di sette anni dai fatti, il Tribunale osserva come alla “piena” conoscenza dei fatti, condizione necessaria e sufficiente per promuovere l'azione disciplinare, il datore di lavoro fosse giunto solo dopo la pubblicazione della sentenza penale che, seppure non in via definitiva, aveva riconosciuto le responsabilità del proprio dirigente, svelandone i meccanismi attuativi.

Aggiunge poi che il lasso di tempo (poco più di un mese) intercorso tra la pubblicazione della sentenza e la contestazione disciplinare doveva ritenersi compatibile con la complessità degli accertamenti – anche per il numero dei dipendenti coinvolti – e della organizzazione aziendale.

Sulla questione il Tribunale fa buon governo dei principi espressi dalla Suprema Corte, sia in relazione ai caratteri della tempestività, sia in tema di pregiudizialità penale.

Quanto al concetto di tempestività esso comporta che il datore di lavoro porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza (Cass. sez. lav., 20 giugno 2006, n. 14115; Cass. sez. lav., 12 maggio 2005, n. 9955; Cass., sez. lav., 16 settembre 2004, n. 18722).

Sul tema possono richiamarsi, per una sintesi dei principi fin qui elaborati dalla giurisprudenza, i contenuti di Cass. sez. lav., 26 maggio 2017, n. 13391, che rileva innanzitutto come l'immediatezza della contestazione, rispetto al momento della condotta addebitata, integri un elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro (sul punto è opportuno citare Cass. sez. lav., 21 aprile 2017, n. 10159, che ha rimesso alle sezioni unite la questione della natura del vizio del licenziamento intervenuto in forza di contestazione tardiva secondo il sistema della L. n. 300 del 1970, art. 18, così come innovato dalla Legge n. 92 del 2012), mirando, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, e, dall'altro, a tutelare il suo legittimo affidamento sulla irrilevanza disciplinare della condotta, affidamento che si correla al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, il cui esercizio deve sempre conformarsi ai canoni della correttezza e buona fede (v. Cass. sez. lav., 25 gennaio 2016, n. 1248; Cass. sez. lav., 12 gennaio 2016, n. 281; Cass. sez. lav., 9 luglio 2015, n. 14324).

D'altra parte, il requisito in esame deve intendersi e valutarsi in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento restando poi riservata al giudice l'indagine relativa alla effettiva sussistenza di ragioni idonee a giustificare il ritardo (Cass. sez. lav., 19 giugno 2004, n. 13955; Cass. sez. lav., 16 maggio 2016, n. 10017).

In tale contesto si innesta anche la questione della concorrenza tra procedimento disciplinare e procedimento penale, risolta dalla giurisprudenza (e, nel pubblico impiego, dallo stesso legislatore) nel senso della non pregiudizialità del secondo rispetto al primo, non essendo così necessario al datore, al fine di acquisire la piena consapevolezza dei fatti e della responsabilità del lavoratore ai fini dell'avvio e della conclusione del procedimento disciplinare, attendere l'esito definitivo del procedimento penale, sospendendo, nelle more, il primo.

Osservazioni

Venendo più propriamente agli elementi di fatto esaminati dal Tribunale, il recesso datoriale è da ricollegarsi a due concorrenti ragioni.

La nullità del contratto, perché stipulato in violazione di norme imperative e l'esistenza di una condotta gravemente compromissoria dell'elemento fiduciario, tale da integrare una giusta causa a termini dell'art. 2119 c.c.

Il Tribunale prende in esame e statuisce su entrambe le questioni anche se, a onor del vero, intervenendo la nullità sul momento genetico del rapporto, il suo accertamento, con travolgimento dell'intero contratto, renderebbe superflua qualsiasi valutazione degli eventuali inadempimenti posti in essere nel corso del rapporto stesso.

Il dato di fatto incontestato è che il lavoratore fosse stato assunto senza che fosse esperita alcuna procedura selettiva, così come richiesto dalla normativa “Brunetta” più sopra illustrata.

Le contrapposte tesi delle parti si concentrano quindi sulla data di entrata in vigore delle predette disposizioni ed anche sulla individuazione dell'atto costitutivo del rapporto di lavoro.

Il Tribunale se, da un lato, evidenzia l'irrilevanza della delibera adottata dalla Società (il giorno precedente alla scadenza del sessantesimo giorno successivo all'entrata in vigore della Legge di conversione del Decreto Legge e valutata come “mero atto interno di manifestazione di volontà ad assumere”) ai fini della individuazione del momento dell'assunzione, da identificarsi piuttosto – in un contesto privatistico – nella sottoscrizione del contratto di lavoro (avvenuta pacificamente nel vigore della nuova normativa), rileva tuttavia come l'obbligo giuridico di adottare criteri e modalità imparziali e trasparenti di assunzione sussistesse fin dalla entrata in vigore del D.L., risalente all'estate del 2008, imponendosi piuttosto alle Società destinatarie di dotarsi, entro un termine (quello, appunto, del 21 ottobre 2008), di un regolamento conforme, dovendo altrimenti astenersi dal procedere a qualsiasi assunzione.

Il buona sostanza, secondo il ragionamento del Giudice, l'eventuale mancata adozione del regolamento per le assunzioni nel termine assegnato dalla legge, doveva indurre la società interessata a desistere dall'effettuare reclutamenti di personale. Ciò, se non altro, per rispetto dei principi generali di buona fede e correttezza – rafforzati nei confronti di soggetti “sostanzialmente” pubblici – che imporrebbero di non porre in essere atti idonei ad eludere strumentalmente espressi precetti normativi.

L'aver comunque proceduto rappresenta, a giudizio del Tribunale, una palese violazione delle norme imperative più sopra ricordate, con conseguente nullità del contratto.

A rendere più solido e convincente il ragionamento giudiziale che, per il vero, adotta una interpretazione non proprio immediatamente evincibile dalla lettera della legge, soccorre il richiamo finale alla illegittimità del contratto di lavoro in quanto in frode alla legge, di modo che la validità dello stesso risulterebbe in ogni caso travolta, quale che fosse l'interpretazione (più o meno letterale) delle disposizioni vincolistiche.

Peraltro, particolare non trascurabile, la società, nel caso di specie, si era già dotata, ben prima dell'obbligo legale, di un atto interno di disciplina delle assunzioni che, seppure in parte, richiamava i principi “pubblicistici” richiesti dal legislatore.

Il che, indubbiamente, rafforzava le censure di nullità dell'assunzione “incriminata”.

Sulle conseguenze della dichiarata nullità il Tribunale si conforma alla consolidata giurisprudenza di legittimità, richiamando l'applicabilità dell'art. 2126 c.c.

La norma, com'è noto, salvaguarda gli effetti del contratto di lavoro nullo, garantendo al le prestatore “di fatto” il trattamento retributivo e le relative coperture assicurative per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, senza però nessun ulteriore diritto eventualmente connesso con la costituzione del rapporto, compresi quelli relativi alla sua risoluzione per invalidità. (v. Cass. sez. lav., 21 novembre 2007, n. 24247: L'equiparazione del contratto di lavoro invalido a quello valido, disposta nell'art. 2126 cit., è limitata agli effetti retributivi del lavoro già prestato e non fonda pretese conservative da parte del lavoratore, onde, finita l'esecuzione delle prestazioni lavorative, non trova applicazione la tutela contro i licenziamenti illegittimi”).

Da tale situazione giuridica deriverebbe il diritto della società in mano pubblica al recesso, senza necessità di “scomodare” le procedure disciplinari, non essendo la risoluzione per nullità del contratto di lavoro assimilabile ad una fattispecie di licenziamento.

Sul punto il ragionamento giudiziale riconosce il diritto datoriale al recesso per giusta causa (ovvero per gravissimo inadempimento del prestatore) o anche al giustificato motivo oggettivo, quale conseguenza di vizi genetici del rapporto, attribuibili però più alla malafede e mala gestio dello stesso datore che ad una condotta del lavoratore.

Tuttavia, come detto, nel caso in esame il rapporto di lavoro viene interrotto per giusta causa a seguito di un procedimento disciplinare.

La disamina giudiziale è, in questo caso, concentrata interamente sui fatti contestati che, alla luce dell'istruttoria, risultano integralmente confermati. Soprattutto, risulta confermata la consapevole partecipazione attiva del lavoratore alla costituzione illegale del suo rapporto di lavoro, nel senso di avere assentito a un'assunzione irregolare, connotata anche da falsificazioni documentali (anche se sempre ad opera dei vertici della società).

Ebbene, proprio la consapevolezza di avere occupato per anni, non solo immeritatamente, ma anche illegalmente, un posto di lavoro, deve valutarsi come condotta gravemente compromissoria della fiducia nella regolarità delle future prestazioni e, come tale, integrante una giusta causa di recesso.

A tale proposito la sentenza esaminata non manca di ricordare come la giurisprudenza di legittimità abbia sempre ribadito che la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento vada accertata in relazione sia della gravità dei fatti addebitati al lavoratore - desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale (nel nostro caso particolarmente valorizzato) - sia della proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, con valutazione dell'inadempimento in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c.

Una decisione che, in conclusione, fa giustizia di un diffuso malcostume nostrano, ove le cronache registrano ancora oggi, malgrado gli interventi “contenitivi” del legislatore, assunzioni pilotate, sistemazioni di parenti e amici, formalistiche procedure di attribuzioni di incarichi. Unica nota negativa e spiacevolmente pregiudizievole per la collettività, il lungo tempo trascorso da soggetti immeritevoli alle scrivanie di coloro che, ove regolarmente selezionati, le avrebbero legittimamente occupate molti anni prima, evitando magari i sacrifici e le pene sempre connesse alla ricerca di una occupazione.

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