Recesso ad nutum in presenza di un patto di prova dichiarato nullo. Quale tutela?

Francesco Meiffret
30 Novembre 2017

Nel caso di licenziamento per mancato superamento della prova, la declaratoria di nullità del patto di prova comporta l'applicabilità della disciplina dei licenziamenti e, più precisamente, la tutela reintegratoria attenuata prevista dal comma 7 dell'art. 18 della L. n. 300/1970.
Massime

Nel caso di licenziamento per mancato superamento della prova, la declaratoria di nullità del patto di prova comporta l'applicabilità della disciplina dei licenziamenti e, più precisamente, la tutela reintegratoria attenuata prevista dal co. 7 dell'art. 18 della L. n. 300/1970.

Il caso

Una società ricorreva in Cassazione a seguito della condanna a reintegrare il lavoratore licenziato per mancato superamento della prova. Come conseguenza della declaratoria di nullità del patto di prova, la Corte d'Appello di Venezia aveva ritenuto il licenziamento intimato privo di giusta causa o di GMS e applicato la c.d. “tutela reintegratoria attenuata” poiché la società datrice di lavoro soddisfava i requisiti dimensionali dell'art. 18 L. n. 300/1970 commi 8 e 9.

La ricorrente denunciava la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 335 c.c.n.l. turismo eccependo che, nel caso di subentro in un appalto, l'obbligo di riassunzione senza un periodo di prova è circoscritto a quei lavoratori che non svolgono funzioni direttive o di controllo. Poiché la resistente era adibita a quest'ultime mansioni, la ricorrente riteneva legittimo la riassunzione con un periodo di prova.

La questione

Quali sono le conseguenze giuridiche di un recesso ad nutum in base ad un patto di prova ritenuto nullo?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte conferma la declaratoria di nullità, ma ne corregge la motivazione ritenendo applicabile il co. 7 dell'art. 18 L. n. 300/1970. Riqualifica, quindi, la nullità del patto di prova come un'ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a giustificazione del licenziamento per GMO.

Contrariamente da quanto sostenuto dal ricorrente, il divieto di patti di prova ex art. 335 del c.c.n.l. commercio nel caso di assorbimento di personale già impiegato nell'appalto, ha portata generale e non si applica esclusivamente al caso di riassunzione obbligatoria in base alle clausole sociali (Cass. sez. lav., 29 luglio 2005 n. 15960; Cass. sez. lav., 10 ottobre 2006, n. 21698).

Osservazioni

Il patto di prova è una clausola accessoria del contratto di lavoro. La ratio è permettere ad entrambe le parti di avere un periodo di tempo per valutare se è opportuno proseguire nel rapporto di lavoro. Proprio per questo motivo il patto di prova costituisce una delle ipotesi residuali di recesso ad nutum ex art. 2118 c.c.

In base al primo comma dell'art. 2096 c.c. deve essere stipulato in forma scritta. Nel silenzio della legge, la giurisprudenza ha ritenuto la forma scritta ad substantiam actus (Cass. sez. lav., 3 settembre 2017; Cass. sez. lav., 14 aprile 2001, n. 5591). Da tale assunto deriva che la sanzione della nullità non può essere sterilizzata con istituti processuali quali il giuramento decisorio o la confessione.

La specifica sottoscrizione del patto di prova deve avvenire anteriormente o contestualmente all'inizio dell'esecuzione della prestazione lavorativa. Tale requisito è stato interpretato in maniera rigida dalla giurisprudenza. E' stato, infatti, considerato nullo un patto di prova sottoscritto alcune ore dopo l'inizio della prima giornata di lavoro (Cass. 24 gennaio 1994, n. 681, Trib. Milano sent. 12 giugno 2009). Stessa sorte giuridica ha avuto la previsione di un patto all'interno delle condizioni di un bando di concorso (Cass. sez. lav., 14 febbraio 1987, n. 1670).

Oltre all'assenza della forma scritta, il lavoratore può impugnare il licenziamento per dimostrare l'indeterminatezza delle mansioni oggetto della prova, lo svolgimento di mansioni diverse rispetto a quelle stabilite nel patto, l'esiguità della durata per dimostrare le proprie capacità o il raggiungimento degli obbiettivi previsti nella prova. (Si veda Cass. sez. lav., 10 ottobre 2006, n. 21698; Cass. sez. lav., 9 giugno 2006, n. 13455). In relazione alla determinatezza dell'oggetto della prova la Suprema Corte, in numerosi arresti, ha ritenuto sufficiente che il patto di prova si richiami alla contrattazione collettiva qualora indichi in maniera precisa le mansioni comprese nella qualifica (Cass. sez. lav, 13 settembre 2003, n. 13498; Cass. sez. lav., 4 dicembre 2001, n. 15307).

Ulteriore requisito è la previsione della durata della prova. L'art. 10 l. 604/1966 prescrive un limite massimo di sei mesi che è considerato inderogabile, ma generalmente i c.c.n.l. stabiliscono termini inferiori a seconda delle mansioni svolte.

La giurisprudenza ha ritenuto legittima la proroga del patto di prova purché sia rispettato il termine massimo di durata previsto dalla contrattazione collettiva. Inoltre, la sottoscrizione dovrà avvenire prima dello scadere del termine originario (Cass. sez. lav., 3 agosto 2016, n. 16214; Cass. sez. lav., 13 marzo 1992, n. 3093; App. Firenze, 6 giugno 2008). La ragione della proroga è l'insufficienza del periodo originariamente fissato per verificare le capacità del lavoratore a causa della complessità dell'oggetto della prestazione lavorativa (Cass. sez. lav., 19 agosto 2000, n. 8295). Argomentando a contario si potrebbe ipotizzare che la proroga non sia valida per tutte quelle mansioni ripetitive e/o esecutive che non necessitano di un ulteriore periodo per accertare la professionalità del lavoratore.

Se nell'ambito dei lavoratori che godono della protezione ex art. 18 L. n. 300/1970 si può sostenere che un punto fermo è stato raggiunto con l'applicazione della c.d. tutela reintegratoria attenuata, nuovi contrasti sono sorti in merito alle conseguenze giuridiche nel caso di recesso illegittimo a causa di un patto di prova dichiarato nullo per quei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 all'interno di imprese che rispettano i requisiti dimensionali stabiliti dall'art. 18 L. n. 300/1970 commi 8 e 9.

Il punto di snodo è se qualificare il licenziamento per mancato superamento della prova come GMO o come disciplinare. L'art. 3 comma 2 del D.Lgs n. 23/2015 prevede la possibilità di ottenere la reintegrazione nel solo caso in cui si dimostri direttamente in giudizio l'insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento disciplinare. Nell'ipotesi di GMO il comma 1 del medesimo art. 3 prevede esclusivamente la tutela indennitaria.

In base alla sentenza in commento che ritiene il recesso ad nutum illegittimo per nullità del patto di prova un'ipotesi di LGMO, per i dipendenti assunti dall'entrata in vigore del Jobs act può essere riconosciuta la sola tutela indennitaria. A questa conclusione è giunto il Tribunale di Milano con la sentenza del 14 marzo 2017 che ha rilevato che il mancato superamento della prova non può avere natura disciplinare.

Tuttavia lo stesso tribunale meneghino, in un caso precedente (Trib. Milano, 3 novembre 2016), e il Tribunale di Torino (9 settembre 2016) hanno qualificato come disciplinare il recesso per mancato superamento della prova e applicato la tutela “reintegratoria attenuata”. Secondo il Tribunale di Milano il fatto materiale insussistente dal quale deriva l'applicazione della tutela reintegratoria è l'inesistenza di un patto di prova validamente sottoscritto da entrambe le parti prima dell'inizio del rapporto e con specifica indicazione delle mansioni. A parere di chi scrive pare arduo sostenere che dall'assenza di un patto di prova scritto derivi de plano la natura disciplinare del recesso e, quindi, la possibile applicazione della tutela reintegratoria.

Il Tribunale di Torino prospetta una diversa e più approfondita motivazione. Se la ratio del patto di prova per il datore di lavoro è valutare la professionalità e la capacità del lavoratore, il recesso per mancato superamento della prova è ontologicamente disciplinare. Una volta acclarata la nullità del patto di prova la conseguenza è la reintegrazione posto che i fatti che giustificano il recesso, di norma, non vengono descritti e, di conseguenza, devono considerasi inesistenti.

A parere di chi scrive la ricostruzione del Tribunale di Torino può permettere di sostenere che se il datore di lavoro ha, pur non essendo previsto dalla norma, tuzioristicamente motivato il recesso ad nutum, nel caso di declaratoria della nullità del patto di prova la sanzione prevista potrebbe essere quella indennitaria. La contestazione disciplinare comporterebbe l'applicazione del comma 1 dell'art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 a meno che sia provata l'insussistenza dei fatti materiali sui quali si fonda.

Per le imprese che non soddisfano i requisiti dimensionali previsti dall'art. 18 commi 8 e 9 L. n. 300/1970 l'accertamento della nullità del patto di prova comporta in ogni caso la sola tutela indennitaria a prescindere dalla data di costituzione del rapporto. Più incerto è, invece, il quadro giuridico per le imprese che soddisfano i requisiti dimensionali sopra richiamati. Per i rapporti ai quali si continua ad applicare l'art.18 post Fornero, a prescindere dalla natura oggettiva o disciplinare del licenziamento per mancato superamento della prova, la giurisprudenza è concorde nel ritenere applicabile la tutela reintegratoria attenuata. Per i contratti di lavoro stipulati dall'8 marzo 2015, dalla qualificazione della natura disciplinare o oggettiva del recesso per mancato superamento della prova deriva l'applicazione della tutela reale (attenuata) o obbligatoria.

Guida all'approfondimento
  • Taverniti S., La nullità del patto di prova e gli effetti sanzionatori del recesso illegittimo, in ADL, 2016, 6, pp. 1274 e ss.
  • Di Paola L., Recesso per mancato superamento del periodo di prova in presenza di nullità del patto e tutela integratoria “attenuata”, su questo portale 2016
  • Ambrosino S., Patto di prova-la verifica della funzionalità del patto di provanell'ipotesi di un lavoratore precedentemente somministrato, in Giur. It., 2015, 3, pp. 692 e ss.
  • Giardetti M., Patto di prova
  • Crotti M.T., Onere della prova dell'insussistenza del fatto materiale

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