Bancarotta fraudolenta patrimoniale: il mancato rinvenimento di beni già nella disponibilità del fallito può provare il reato
28 Maggio 2019
Massima
In tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell'amministratore, della destinazione dei beni suddetti. (Nell'affermare tale principio, la Corte ha osservato che la responsabilità dell'imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l'obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87 l. fall. sul fallito interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell'impresa, giustificano l'apparente inversione dell'onere della prova a carico dell'amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, non essendo a tal fine sufficiente la generica asserzione per cui gli stessi sarebbero stati assorbiti dai costi gestionali, ove non documentati né precisati nel loro dettagliato ammontare). Il caso
Nella vicenda giunta all'attenzione della Suprema Corte all'imputato, quale amministratore di una società a responsabilità limitata, era contestata una pluralità di fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale ai sensi dell'art. 216, comma 1 nn. 1) e 2) l. fall. nonché di bancarotta semplice ai sensi dell'art. 224 l.fall. Tra le molteplici censure mosse alla sentenza di appello merita ricordare, per ciò che qui maggiormente interessa, come la difesa criticasse anche l'impostazione della stessa volta a ritenere provato il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in ragione della mancata dimostrazione, ad opera dell'amministratore della società fallita, della destinazione di beni già nella disponibilità di quest'ultima e non rinvenuti successivamente all'apertura della procedura concorsuale. Le appena citate argomentazioni difensive erano ritenute prive di fondamento dalla Corte di Cassazione, che sul punto confermava l'impugnata sentenza. La questione
Il caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte concerne dunque la nota questione costituita dalla possibilità di giungere alla prova del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, nelle figure tipiche della distrazione o dell'occultamento di beni, tramite la condotta dello stesso imputato costituita dall'avere omesso, nell'ambito della procedura concorsuale, di dare conto della destinazione di quei beni che siano stati nella sua disponibilità e che, di seguito, non siano stati consegnati al curatore o comunque da questi rinvenuti. La questione riveste significativo interesse in quanto, in tema di prova del reato, assumono maggiore frequenza statistica proprio i casi in cui si individuano dei beni nella disponibilità dell'imprenditore anteriormente al fallimento, salvo poi perderne le tracce, rispetto a quelli ove si riesca con esattezza a documentare che il bene è stato distrutto, occultato o comunque distratto. Le soluzioni giuridiche
Il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale si contraddistingue per una diminuzione indebita del patrimonio dell'impresa fallita, individuale o collettiva, cui segua un nocumento alle ragioni creditorie giacché detto patrimonio, secondo il principio generale di cui all'art. 2740 c.c., ne costituisce garanzia, nella quale dunque si sostanzia l'oggetto giuridico del reato. La lettera dell'art. 216 comma 1 n. 1) l. fall., peraltro, non richiede una diminuzione effettiva della garanzia patrimoniale in argomento né menziona la necessità di un danno effettivo per i creditori, al contrario rilevando anche ogni condotta che costituisca nocumento potenziale alle loro ragioni, sicché, secondo il consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, trattasi di un reato di pericolo concreto. Si comprende dunque come proprio il mancato rinvenimento di un bene già nella disponibilità dell'impresa fallita costituisca paradigma del fatto tipico distrattivo, traducendosi in un impoverimento della più volte citata garanzia patrimoniale. Per quanto riguarda tuttavia la prova del reato, allorché si verifichino simili casi costituiti dal mancato rinvenimento di beni in riferimento ai quali vi sia peraltro prova certa della previa disponibilità da parte dell'imputato, si discute tradizionalmente se essa possa trarsi anche dalla mancata dimostrazione da parte di questi della loro destinazione. La Suprema Corte nella sentenza qui annotata ancora una volta risponde positivamente al quesito, richiamando in tema il proprio consolidato orientamento (ex plurimis cfr. Cass. pen., Sez. V, 22 settembre 2015 (dep. 29 febbraio 2016) n. 8260 dalla quale è tratta la massima ufficiale riportata in apertura della presente nota) ed in particolare osservando: 1) il fallito è gravato da un obbligo di garanzia rispetto alla conservazione delle ragioni creditorie e da un obbligo di verità, penalmente sanzionato, ex art. 87 l. fall. allorché interpellato dal curatore circa la consistenza patrimoniale dell'impresa e l'impiego dei beni della stessa; 2) a fronte del sicuro ingresso, al di fuori di qualsiasi presunzione, nel patrimonio dell'impresa fallita di componenti attive e dell'assoluta impossibilità di ricostruirne la destinazione, anche in ragione per l'appunto del silenzio dell'imprenditore o dell'amministratore (sia egli di fatto o di diritto), ragionevolmente si può desumere che quelle componenti attive siano state sottratte alla garanzia dei creditori; 3) ciò costituisce inversione dell'onere della prova soltanto apparente, trattandosi di soluzione interpretativa che trova piena giustificazione nei principi della procedura fallimentare e nel complesso dei citati obblighi di garanzia ed informativi che gravano sull'imprenditore e che non consentono, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, di ritenere sufficienti generiche asserzioni, soprattutto ove non riscontrate dall'esistenza di idonea documentazione contabile; 4) ciò, ancora, appare conseguire anche al principio della “vicinanza della prova” giacché la risposta al quesito circa la destinazione dei beni scomparsi ovvero del ricavato della loro alienazione può essere fornita presumibilmente soltanto dall'imprenditore o dall'amministratore della società fallita, ovvero dagli artefici della gestione dell'impresa. Osservazioni
Le conclusioni cui è giunta la Suprema Corte appaiono condivisibili, costituendo diretta conseguenza della disciplina sostanziale della procedura fallimentare nell'ambito della quale l'imprenditore, al precipuo fine di tutelare le ragioni creditorie, è obbligato a dare giustificazione dell'impiego dei propri beni e più in generale del disavanzo fallimentare. Quest'ultimo deve ritenersi giustificato allorché trovi corrispondenza anche in termini di perdite (che sono fisiologiche nell'attività d'impresa, per definizione rischiosa) e di oneri derivanti dallo stato di insolvenza (quali interessi per mancati o ritardati pagamenti), nei risultati conseguiti negli esercizi sociali, mentre esso deve ritenersi ingiustificato ove detta corrispondenza manchi. In effetti, sono numerosi in tema gli obblighi informativi a carico del fallito. L'art. 14 l. fall. in primo luogo impone all'imprenditore che chiede il proprio fallimento di depositare, tra l'altro, uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività nonché l'elenco nominativo dei creditori e l'indicazione dei rispettivi crediti mentre l'art. 89 l. fall. prescrive al curatore, in ogni caso, la compilazione dell'elenco dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti e diritti di prelazione; quest'ultimo elenco è redatto in base alle scritture contabili del fallito e alle altre notizie che il curatore può raccogliere, per cui non è escluso che questi possa chiedere all'imprenditore le ulteriori informazioni ritenute necessarie. L'art. 16 l.fall. dispone, d'altra parte, che con la sentenza dichiarativa di fallimento si dia ordine al fallito, ove questi non l'abbia già fatto ai sensi del citato art. 14 l. fall., di depositare, oltre che i bilanci e le scritture contabili e fiscali obbligatorie, l'elenco dei creditori. Il già citato art. 87, comma 3,l. fall., inoltre, dispone che prima di chiudere l'inventario il curatore invita il fallito o, se si tratta di società, gli amministratori a dichiarare se abbiano notizia che esistano altre attività da comprendere nell'inventario, avvertendoli, in caso di falsa o omessa dichiarazione, delle pene stabilite dall'art. 220 l. fall., il quale disciplina, tra gli altri, il reato di omessa dichiarazione di altri beni da comprendere nell'inventario. Quest'ultimo si distingue dalla bancarotta fraudolenta per occultamento perché nel primo caso è sufficiente che il fallito non faccia menzione della esistenza di un bene del suo patrimonio, mentre nel secondo caso è necessario che svolga una ulteriore attività, diretta a celare l'esistenza del bene, nascondendolo materialmente oppure facendolo apparire, con atti simulati, di proprietà altrui (così Cass. pen, Sez. V, 10 maggio 1983, n. 7178). D'altra parte le stesse esigenze informative in oggetto sono assicurate, in primo luogo, dagli obblighi di tenuta a carico dell'imprenditore delle scritture contabili ed invero è noto come queste ultime soddisfino l'esigenza di rilevare e documentare i risultati della gestione dell'impresa. In caso di società, tale esigenza è propria dei soci, nel cui interesse è svolta l'attività imprenditoriale, ed in tutti i casi soprattutto dei creditori, per i quali le scritture contabili costituiscono strumento di conoscenza imprescindibile in ordine alla “consistenza” economica del loro debitore ed alla ricostruzione, statica e dinamica, dell'attività imprenditoriale di questi; le scritture assolvono quindi anche ad una fondamentale funzione strumentale di tutela dei creditori medesimi perché, di regola, la loro irregolare tenuta permette od agevola la commissione di fatti di bancarotta patrimoniale ovvero il loro occultamento. Dunque, a fronte del citato quadro normativo, allorché ai fini della valutazione delle attività da comprendere nell'inventario emerga il venir meno di beni determinati, dei quali sia provata la certa pregressa esistenza nel patrimonio dell'impresa fallita, si comprende come alla prova del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale possa giungersi tramite una valutazione logica che assume carattere presuntivo: le circostanze costituite dalla menzionata prova della pregressa esistenza del bene, dal suo mancato rinvenimento e dall'inadempimento da parte del fallito dei menzionati obblighi informativi, tra cui quelli concernenti gli stringenti obblighi di tenuta delle scritture contabili e quelli di cui all'art. 87 l. fall., e dunque per fatto dell'imputato verificatosi al di fuori del procedimento penale, acquistano infatti la consistenza di indizi rilevanti induttivamente ai sensi dell'art. 192, comma 2, c.p.p. Sullo sfondo resta tuttavia una questione di rilevante interesse che non appare oggetto di approfondimento nella motivazione della sentenza che qui si annota, non avendo peraltro avuto rilevanza nel caso di specie. La Cassazione precisa infatti, incidenter, come la prova del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale possa desumersi nei termini presuntivi più volte indicati, costituiti dalla mancata dimostrazione della destinazione del bene da parte dell'amministratore, sia ove si tratti di amministrazione di fatto che di diritto. Nel primo caso, tuttavia, la posizione che viene ad assumere l'amministratore di diritto, quale “testa di legno”, merita alcune precisazioni. Infatti, affinché al silenzio possa attribuirsi significato indiziario, è necessario, per usare parole della Suprema Corte, che provenga dall'effettivo artefice della gestione dell'impresa e tale, di regola, non è il prestanome. In simili casi dunque alla condotta costituita dall'avere omesso di dare giustificazione della destinazione dei beni potrà riconoscersi carattere neutro, anche perché con ogni probabilità il prestanome non avrà avuto alcuna conoscenza dei fatti per potere fornire adeguate risposte, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore “apparente” non necessariamente implica la consapevolezza dei disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto (in questo senso cfr. anche Cass. pen., Sez. V, 26 settembre 2018, n. 54490). Resta la necessità, allora, di svolgere un'attenta indagine in ordine alla posizione effettivamente assunta da questi sì da poter comprendere se il suo ruolo sia stato in qualche modo attivo ovvero meramente omissivo, anche l'amministratore “testa di legno” essendo comunque titolare dell'obbligo di garanzia di cui all'art. 40 cpv. c.p. (tra le molte cfr. Cass. pen., Sez. V, 7 gennaio 2015, n. 7332). In proposito emergono i noti problemi interpretativi concernenti la struttura obiettiva del reato omissivo improprio, che presuppone una inerzia legata eziologicamente al reato altrui, il quale, nel caso di specie, costituisce l'evento che si ha obbligo di impedire, nonché concernenti la prova del dolo. L'indagine dovrà infatti chiarire se l'inerzia sia stata mantenuta nella precisa consapevolezza dell'altrui condotta integrante i tratti tipici del reato ovvero accettando il rischio che tali condotte fossero poste in essere ed in ogni caso, trattandosi di fatti interni al soggetto agente, dovendosene ricavare dimostrazione, secondo valutazioni di natura casistica, dalla pluralità degli elementi di fatto a disposizione, non essendo sufficiente la sola circostanza di essersi prestati ad accettare la carica, pena una responsabilità di mera “posizione”. |