Il licenziamento ingiustificato nel regime delle tutele crescenti dopo la Corte cost. n. 194 del 2018
10 Giugno 2019
Introduzione
La Corte costituzionale con la sentenza n. 194 del 2018 ha inciso profondamente sul regime delle c.d. “tutele crescenti”, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui individua in via esclusiva il criterio dell'anzianità di servizio – e con la rigidità del metodo aritmetico adottato – per la determinazione dell'indennità per il licenziamento ingiustificato.
Con la sentenza la Corte censura la rigidità del metodo esclusivamente aritmetico, che “contrasta anzitutto con il principio di uguaglianza, sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse”. Perché “nel prestabilirne interamente il quantum in relazione all'unico parametro dell'anzianità di servizio, la citata previsione connota l'indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità”.
La previsione di una misura risarcitoria così uniforme e – soprattutto – rigida nel suo meccanismo di quantificazione, che prescinde dalle peculiarità e dalle diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, “si traduce in una indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell'esperienza concreta – diverse”. Viceversa, sempre secondo quanto riportato dalle motivazioni della sentenza n. 194 del 2018 “è un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L'anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti”.
La Corte dichiara dunque l'incostituzionalità del primo comma dell'art. 3, d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, restituendo così al giudice il compito di assicurare, con l'esercizio della propria discrezionalità nel determinare la misura dell'indennità da riconoscere in concreto caso per caso, il componimento degli interessi tra la libertà organizzativo-imprenditoriale e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato, operando una “personalizzazione del danno subito” in ossequio al principio di uguaglianza.
Lo smantellamento del sistema aritmetico sul quale si fondava il regime delle tutele crescenti, ha fatto temere per le ricadute d'incertezza che possono conseguire dall'assenza di una previsione di requisiti cui il giudice possa attingere nell'individuare in concreto la misura indennitaria. È pur vero che nelle motivazioni della sentenza la Corte fa riferimento “agli altri criteri già prima richiamati(art. 8, l. n. 604 del 1966, e art. 18, st. lav.), desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”, ma è altrettanto vero che l'applicazione delle norme richiamate richiede una indagine preliminare, alla luce della sentenza n. 194 del 2018, della normativa sulla quale interviene, con una verifica di compatibilità e di certezza la cui testimonianza pragmatica ci proviene dalle prime applicazioni da parte della giurisprudenza di merito. La sentenza n. 194 del 2018 della Corte costituzionale
Tra le diverse eccezioni di incostituzionalità sollevate nel giudizio a quo, la Corte costituzionale ha accolto soltanto quella relativa all'art. 3, comma 1,d.lgs. n. 23 del 2015, per contrasto con gli artt. 3, 4, comma 1, e 76 e 117, Cost., in quanto la norma prevede un regime di tutela contro i licenziamenti ingiustificati ritenuto troppo rigido nella sua predeterminazione e perciò inadeguato a garantire una tutela effettiva rispetto alle diverse fattispecie che possono verificarsi.
Il sindacato della Corte ha ad oggetto non tanto la predeterminazione del firing cost in sè, che non necessariamente confligge con i princìpi costituzionali, ma l'unicità del criterio adottato, e, soprattutto, la rigidità del metodo introdotto – puramente aritmetico – tale da realizzare un meccanismo che prefigura misure risarcitorie appiattite da una uniformità avulsa dalle fattispecie concrete, che svuota – è il giudizio che traspare – il concetto stesso di valutazione e reazione dell'ordinamento alla illegittimità e gravità del licenziamento.
Il vulnus individuato dalla Corte è rappresentato dalla uniformità di disciplina per casi anche molto dissimili tra loro.
La Corte nel dichiarare la fondatezza della questione, ripercorrendo la propria giurisprudenza, ha da un lato riaffermato la specialità del diritto del lavoro “come diritto fondamentale cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”, pur nell'ambito della propria discrezionalità, in virtù della quale lo stesso legislatore ben può prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (Corte cost. n. 303 del 2011), purché tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient'altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidità dell'atto non conforme” (Corte cost. n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto).
Ciò premesso, la Corte critica il meccanismo di quantificazione perché legato in via esclusiva all'anzianità di servizio e perché non graduabile in relazione a parametri diversi ma uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. L'indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio, e calcolata in maniera meccanica, a fronte del danno derivante al lavoratore dall'illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ne consegue la violazione del principio di eguaglianza, “sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse”. Omologazione che è ritenuta indebita, e la norma incostituzionale, perché destinata a trattare con criteri rigidamente uniformi situazioni che l'esperienza concreta ci consegna essere diverse.
A non risultare conforme, secondo i giudici, non è tanto la prevedibilità della misura, quanto la rigidità del metodo, che impedisce di attagliare – entro i limiti legali ritenuti coerenti con il dettato costituzionale – una tutela adeguata ad ogni singola posizione.
Ciò ha condotto alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Decisione formalmente parziale rispetto all'ordinanza ed alla norma, ma sostanzialmente fondamentale, perché interviene sul nucleo essenziale delle tutele crescenti, che ne rappresenta l'essenza qualificante: l'automatismo della predeterminazione delle indennità in caso di licenziamento ingiusto, quale momento di certezza nella previsione del c.d. firing cost.
Così che, il testo della norma vigente risulta essere il seguente: “salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”. Le conseguenze applicative
La dichiarazione di incostituzionalità ha eliminato quei criteri, dichiarando la necessità di soddisfare la “esigenza di scrutinare in modo accurato l'entità della misura risarcitoria e di calarla nell'organizzazione aziendale”. Esigenza che è coniugata a quella di scongiurare un horror vacui conseguente all'espunzione dall'ordinamento di quel meccanismo di calcolo.
Innanzi tutto, non paiono porsi particolari dubbi in ordine al parametro retributivo da adottare, che continua a poter essere l'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. È infatti la stessa sentenza a confermare espressamente l'immanenza del criterio a prescindere da una abrogazione soltanto incidentale delle parole che vi si riferivano, intendendo la permanenza del criterio comunque desumibile dal d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, quale criterio generale per la commisurazione dei risarcimenti.
Più complessa si presenta invece l'individuazione in concreto dei criteri per determinarne la misura. È pur vero infatti che la Corte, nel capoverso conclusivo delle motivazioni afferma che “nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio, nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”. Non pochi sono i dubbi sorti però, circa la trasferibilità tout court dei metodi noti nell'applicazione dell'art. 8, l. n. 604 del 1966, e dell'art. 18, st. lav., alla fattispecie in esame. Ciò nonostante appaia piuttosto chiara la difficoltà di ammettere l'alternativa. Consentire cioè ai giudici di individuare l'indennità in una misura tra il minimo e il massimo previsto dalla legge, senza il vincolo di criteri predeterminati, vanificherebbe proprio le finalità della sentenza, rilasciando all'alea della disparità di trattamenti quello che, invece, deve rappresentare il giusto (ed oggettivo) contemperamento tra le opposte esigenze imprenditoriali e del lavoratore, pur nell'esigenza di personalizzazione della misura risarcitoria. I dubbi
Considerati i princìpi affermati della sentenza, ciò che impegna l'interprete della norma di risulta è la individuazione delle modalità concrete attraverso le quali affiancare al criterio-guida dell'anzianità di servizio gli altri, richiamati espressamente dalla Corte. È necessario innanzi tutto assegnare la funzione concreta all'anzianità di servizio: prevalente sugli altri? Contenuto di tutela minima? Tutto ciò in ogni caso nell'ambito di un approccio di prudenza, che affermi l'operatività oggettivo-sistematica della combinazione dei criteri per determinare l'indennità da licenziamento ingiustificato, evitando di abbandonare il giudice ad una discrezionalità circoscritta soltanto dai valori minimo e massimo previsti dalla legge, col rischio di prefigurare nuove ragioni di incostituzionalità conseguenti a tale indeterminatezza.
Conseguentemente, appare necessario individuare criteri predeterminati, attingendo ai quali l'interprete può giungere alla determinazione della misura attagliata al singolo caso concreto. Tutto ciò con la consapevolezza dell'impossibilità di adagiarsi su un rinvio sterile all'art. 8, l. n. 604 del 1966. Questa opera di semplificazione è impedita dalle differenze ontologiche tra le due norme. Laddove l'art. 8, l. n. 604 del 1966 (ed i criteri indicati per determinare l'indennità risarcitoria) si pone quale alternativa al rifiuto del datore di lavoro di riassumere il lavoratore licenziato, e soltanto per le aziende di piccole dimensioni, il primo comma dell'art. 3, l. n. 604 del 1966, ha un ambito applicativo più ampio. Oltre agli importi, notevolmente superiori, con proporzionale maggiore ampiezza dell'ambito entro il quale il giudice deve esercitare il proprio sindacato.
Pertanto, non può che condividersi l'indicazione della Corte, che fa riferimento a tutti i criteri “desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti”, operazione che induce a ricomprendere nella ricerca di tali riferimenti, senza dubbio, anche l'art. 18, st. lav., in combinato disposto con il predetto art. 8, l. n. 604 del 1966, considerato che alla luce delle considerazioni premesse, anche questa norma, da sola, non può ritenersi soddisfacente delle esigenze sin qui evidenziate.
Dunque il giudice, alla luce della sentenza in discorso, nell'individuare la misura concreta dell'indennità da riconoscere in applicazione dell'art. 3, comma 1, d.lgs.n. 23 del 2015, dovrà avere riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti, unitamente alle dimensioni dell'attività economica ed alle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione. Assegnando al criterio dell'anzianità di servizio quel ruolo di preminenza che la Corte costituzionale ribadisce. Le prime esperienze della giurisprudenza di merito
Con singolare spirito precursore, il Tribunale di Bari, ancor prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, e sulla scorta del solo comunicato stampa che dava notizia della natura della decisione, aveva già applicato l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 “in chiave costituzionalmente orientata”, riconoscendo un indennizzo pari a dodici mensilità nonostante un'anzianità di servizio inferiore ai due anni (Tribunale di Bari, 11 ottobre 2018). Giungeva a tale quantificazione valorizzando il comportamento datoriale, la dimensione dell'attività economica ed i livelli occupazionali, mutuando la combinazione ed i parametri dall'art. 18, st. lav., e superando appunto il solo dato dell'anzianità di servizio.
Al di là di questo singolare esempio, la pur limitata esperienza attuale della giurisprudenza di merito, ci consegna il riconoscimento del criterio dell'anzianità di servizio quale pietra angolare nella quantificazione della indennità da licenziamento ingiustificato, sebbene con articolazioni talvolta differenti della combinazione degli altri fattori.
Il tratto comune che sembra legare le pronunce dei giudici di merito al momento note è dato dalla individuazione della soglia minima prevista dalla legge quale limite irriducibile sul quale incide la ponderazione degli altri requisiti.
Così, l'aver lavorato per poco più di un anno, unitamente alle ridotte dimensioni societarie ed alla sussistenza dell'addebito disciplinare, sebbene non così grave da giustificare il licenziamento, legittima il risarcimento limitato a tre mensilità (così Tribunale Alessandria, 29 novembre 2018). La considerazione preliminare – e preminente – dell'anzianità di servizio, unitamente a quella del comportamento datoriale, ha consentito in un'altra occasione di riconoscere un'indennità maggiore di quella aritmeticamente determinabile, avendo ritenuto il giudice che la portata della sentenza n. 194/2018 “non può risolversi in un danno per il lavoratore, sicché al dato dell'anzianità va riconosciuto valore preminente soprattutto in casi, come quello oggetto del presente giudizio, in cui detto dato determina un punto di partenza considerevole nella determinazione dell'indennità”. Perché “se prima della sentenza il ricorrente avrebbe avuto diritto a 12 mensilità, detto dato va considerato come punto di partenza al di sotto del quale non può andarsi. In caso contrario infatti verrebbe vanificata la portata della sentenza n. 194” (Tribunale Cosenza, ord. 20 febbraio 2019, che ha così riconosciuto 15 mensilità).
Comportamento delle parti che incide, anche negativamente, ed anche quando è riferito a quello del lavoratore, per contenere al minimo l'indennità riconosciuta in caso di licenziamento illegittimo (Tribunale Cosenza, sent. 20 febbraio 2019, nello specifico aveva rifiutato la contestazione disciplinare, che gli era stata letta, ed aveva negato in giudizio di averla avuta).
Compendio e rilievo dei diversi criteri applicabili per la determinazione del quantum da riconoscere al destinatario di un licenziamento ingiustificato in regime di tutele crescenti, che conferma certamente il ruolo centrale dell'anzianità di servizio, così come l'esigenza di scrutinare in modo accurato, con l'ausilio degli altri parametri, l'entità della misura risarcitoria. Ciò per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, in un sistema equilibrato di tutele, bilanciando con i valori dell'impresa l'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore.
Sulla scorta di queste premesse, il Tribunale di Roma, limita tale esercizio di discrezionalità entro il valore massimo previsto dal legislatore, perché “non esiste alcuna valida ragione che possa giustificare, anche dopo l'intervento della Corte costituzionale, un risarcimento superiore (a quello ex lege), e ciò proprio alla luce del criterio del ‘comportamento e delle condizioni delle parti', non potendo essere addossate al datore di lavoro le ulteriori conseguenze negative della perdita del posto di lavoro” successive ed estranee al comportamento appunto datoriale (Tribunale di Roma, 23 novembre 2018).
I limiti legali si pongono dunque quale argine all'eccessiva ampiezza della discrezionalità che si temeva potesse abbattersi sui giudici all'indomani dello svincolo dal canone aritmetico per effetto della Corte cost. n. 194 del 2018.
Si conferma pertanto il recepimento dell'indirizzo espresso dalla Corte, teso ad impedire indebite omologazioni rispetto a fattispecie ed esigenze di tutela che possono essere diverse. Così, nonostante un'anzianità di servizio astrattamente irrisoria (nello specifico inferiore all'anno), ad esempio la particolare offensività delle modalità con le quali il licenziamento è stato irrogato, la palese sua ingiustificatezza, ha consentito il riconoscimento di una indennità superiore al minimo di legge (Tribunale di Sassari, 29 gennaio 2019).
L'affermazione di questi princìpi si è riverberata anche sull'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, che pure non ha subito censure esplicite, essendo rimasto estraneo al giudizio conseguente all'incidente di costituzionalità. Perché “è inevitabile però valutare l'incidenza della pronuncia 194/2018 anche sulla sua applicazione, sia perché questa norma richiama direttamente quella dell'art. 3, primo comma, per assumere la base di calcolo dell'indennizzo dovuto ai dipendenti delle piccole imprese sia perché adotta lo stesso congegno, ancorato esclusivamente all'anzianità di servizio”.
Le argomentazioni della Corte cost. n. 194 del 2018 muovono da considerazioni che investono la “predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno” alla luce di principi generali dell'ordinamento. All'interno del disposto dell'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, non v'è un elemento, neppure d'ordine sistematico, che renda ragionevole discostarsene per il solo fatto che l'impresa datrice di lavoro sia priva del requisito dimensionale dell'art. 18, l. n. 300 del 1970.
Onde evitare un'applicazione contrastante col pronunciamento della Corte costituzionale, deve ritenersi che il rinvio all' ‘ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1' vada letto in riferimento a tutti i criteri risarcitori indicati dalla sentenza n. 194 del 2018 (Tribunale di Genova, 21 novembre 2018). Conclusioni. La sentenza della Corte costituzionale tra incertezze e conferme
La Corte costituzionale n. 194 del 2018, da un lato rappresenta una inversione di tendenza rispetto alle più recenti riforme che hanno interessato la disciplina dei licenziamenti, recuperando la supremazia della discrezionalità del giudice nella determinazione della misura concreta di tutela. Dall'altro conferma invece il filo conduttore comune degli interventi del 2012 e 2015, rappresentato dal primato della tutela indennitaria rispetto a quella reintegratoria.
Portando con sé questa ambivalenza, la pronuncia della Consulta ritorna in buona sostanza a restituire ai giudici l'esercizio di quella discrezionalità che nell'ambito della tutela obbligatoria era già nota e con la quale la giurisprudenza e gli interpreti avevano ormai dimestichezza, sin dalla norma sui licenziamenti individuali del ‘66, fino ai più recenti strumenti previsti dalla riforma dell'art. 18, st. lav., ad opera della l. n. 92 del 2012.
Nello specifico, come osservato, l'elemento di criticità ulteriore è dato dalla compatibilità dell'applicazione di tali criteri con un impianto normativo, quello delle “tutele crescenti”, pensato e costruito per affrancarsi nettamente proprio da tale indeterminatezza relativa. Il d.lgs. n. 23 del 2015 aveva espressamente sottratto qualsiasi momento valutativo nell'applicazione della sanzione avverso il licenziamento illegittimo. Esercizio di discrezionalità che invece ritorna, per effetto del richiamo da parte della Corte costituzionale n. 194 del 2018 e comunque, giocoforza, dettato dalla necessità di colmare quello che altrimenti rappresenterebbe un vuoto normativo non tollerabile per il sistema.
Cionondimeno, permangono i dubbi di compatibilità tra i criteri previsti all'art. 8, l. n. 604 del 1966, e all'art. 18, st. lav., e per quei sistemi, rispetto all'impianto delle “tutele crescenti”, sul quale intervengono solo in conseguenza del provvedimento della Corte. Compatibilità piena che – verosimilmente – potrebbe essere colmata in maniera appropriata con un intervento apposito del legislatore. |