Sul principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento

Luigi Di Paola
24 Giugno 2019

Il datore di lavoro non può addurre in giudizio, a giustificazione del licenziamento, fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento dell'intimazione del recesso, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti; il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa e la sua violazione è sanzionata con l'inefficacia del licenziamento.
Massime

Il datore di lavoro non può addurre in giudizio, a giustificazione del licenziamento, fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento dell'intimazione del recesso, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti; il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa e la sua violazione è sanzionata con l'inefficacia del licenziamento.

In caso di azione giudiziale proposta per dedurre un vizio del licenziamento diverso da quello fatto valere con un precedente ricorso, il termine di decadenza di cui all'art. 6, comma 2, l. n. 604 del 1966, come sostituito dall'art. 32, comma 1, l. n. 183 del 2010 e modificato dall'art. 1, comma 38, l. n. 92 del 2012, decorre comunque dalla data di spedizione dell'impugnativa del licenziamento, senza che rilevi che tale azione si fondi su motivi di recesso nuovi, addotti nel corso del primo giudizio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto irrilevante, ai fini della decadenza, che le circostanze poste a fondamento dell'azione di nullità del licenziamento per motivi discriminatori fossero emerse in sede di libero interrogatorio del datore di lavoro, nel giudizio avente ad oggetto l'annullabilità dello stesso licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo).

Il caso

Una lavoratrice impugna in via extragiudiziale il licenziamento intimatole per giustificato motivo oggettivo e ne chiede in giudizio l'annullamento; nel corso dell'interrogatorio libero, il legale rappresentante della società rilascia dichiarazioni ipoteticamente attestanti la natura discriminatoria del predetto licenziamento.

La lavoratrice promuove quindi un secondo giudizio, deducendo, questa volta, la nullità del recesso datoriale. Riuniti i procedimenti, in appello viene dichiarata inammissibile la domanda introduttiva del secondo giudizio, per essere stato quest'ultimo instaurato oltre il termine di decadenza - previsto dal comma 2 dell'art. 6, l. n. 604 del 1966 - di 180 giorni dall'impugnativa extragiudiziale.

La Cassazione, confermando la pronuncia di secondo grado, rigetta il ricorso proposto dalla lavoratrice.

La questione

Le questioni in esame sono le seguenti: a) la violazione del principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento determina la inefficacia “impropria” di cui al comma 6 dell'art. 18, st.lav. (e, per i nuovi assunti, di cui all'art. 4, d.lgs. n. 23 del 2015), quindi un vizio formale sanzionabile con la tutela indennitaria debole - restando quindi ferma la possibilità per il datore di fornire in giudizio la prova dei nuovi fatti indicati, ad esempio, nella memoria difensiva -, oppure la predetta violazione ha l'effetto di precludere al datore di dare la prova in questione? b) una volta ammesso che il lavoratore possa proporre, in relazione ad un unico licenziamento, più ricorsi, facendo valere, in ciascun giudizio, profili di illegittimità diversi, la decadenza ex comma 2 dell'art. 6, st.lav., decorre comunque, per tutti i predetti ricorsi, dall'impugnativa extragiudiziale?

Le soluzioni giuridiche

La S.C., quanto al primo quesito, afferma che il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa e la sua violazione è sanzionata con l'inefficacia del licenziamento, ma non precisa quale é la portata della predetta inefficacia.

Da un passo della sentenza (ove si legge che “Nel caso di specie il licenziamento della lavoratrice è stato intimato per “crisi aziendale” con lettera dell'1° ottobre 2013: di fronte a questa che è la ragione, unica, sostanziale dell'atto, nessun altro motivo poteva essere aggiunto dal datore di lavoro stante il divieto di modificabilità dei motivi di recesso, principio posto a garanzia del diritto di certezza giuridica del lavoratore. Irrilevanti risultano, pertanto, le circostanze dedotte dal legale rappresentante della società in sede di interrogatorio libero”) sembrerebbe ricavarsi il principio che la motivazione del licenziamento emersa in giudizio debba considerarsi “tamquam non esset”.

Il che ha quale diretta implicazione che delle ragioni di licenziamento non menzionate nell'atto espulsivo, ma, ad esempio, indicate nella memoria difensiva, il datore non potrebbe fornire la prova; con la conseguenza che il licenziamento in questione dovrebbe essere inevitabilmente dichiarato, all'esito del processo, illegittimo per insussistenza (“manifesta”, ove fosse stato intimato per giustificato motivo oggettivo) del fatto.

Potrebbe però ritenersi che, nel caso specifico, il giudizio di irrilevanza dei motivi di licenziamento emersi in giudizio - come visto, in sede di interrogatorio libero del legale rappresentante della società datrice - sia stato formulato dalla S.C. solo ai fini della decadenza ex art. 6, l. n. 604 del 1966, ossia esclusivamente per escludere che inizi a decorrere, a favore del lavoratore, un nuovo termine per una ulteriore impugnativa fondata su motivi diversi da quelli indicati nell'atto espulsivo.

Sta di fatto che l'irrilevanza della motivazione, in quanto non contestuale al licenziamento, ha finito per giocare non a favore del lavoratore (a tutela del quale il principio di immodificabilità è preordinato, come del resto riconosce la stessa S.C. nella motivazione della sentenza in commento), bensì del datore di lavoro, giacché all'ammissione, proveniente dal legale rappresentante della società datrice, circa l'ipotetica ragione discriminatoria del licenziamento, non si è potuto attribuire rilievo ad alcun fine.

Quanto al secondo quesito, la testé illustrata impostazione seguita dalla S.C. consente di concludere nel senso che il termine di decadenza di 180 giorni, di cui al comma 2 dell'art. 6, l. n. 604 del 1966, decorre sempre e comunque dall'impugnativa extragiudiziale, sicché tutti gli eventuali ricorsi devono essere promossi entro il termine in questione.

Osservazioni

In ordine alla prima questione, va detto che non è ancora del tutto chiaro se il datore possa, utilmente, fornire in giudizio una motivazione del licenziamento diversa da quella indicata al momento di intimazione dell'atto espulsivo.

Ed infatti, dal principio di “immodificabilità” dei motivi del licenziamento, ritenuto valido anche nella vigenza del nuovo assetto normativo, potrebbero trarsi conseguenze diversificate.

Sul punto, potrebbe sostenersi che le ragioni del licenziamento esternate nel corso del giudizio, verosimilmente nella memoria difensiva, prevalgono - in quanto solo con riguardo ad esse il datore avrà ovviamente articolato la prova - su quelle, diverse (che è quindi come se non ci fossero), contenute nell'atto di licenziamento. Il caso sarebbe così assimilabile a quello in cui la motivazione non è contenuta nel licenziamento ma direttamente nella memoria difensiva. In tale situazione vi sarebbe, certamente, una violazione procedurale per mancato rispetto del principio di contestualità tra motivazione e licenziamento. Il che, però, non dovrebbe implicare che le ragioni indicate in giudizio non possano valere a giustificare il licenziamento stesso, ove provate.

Inoltre, nel caso di licenziamento disciplinare, la motivazione indicata nella memoria difensiva, ove diversa da quella contenuta nel licenziamento - e, quindi, verosimilmente non corrispondente neppure a quanto previamente contestato al lavoratore con la formulazione degli addebiti -, potrebbe essere intesa anche quale contestazione tardiva, con applicazione del relativo regime di tutela; ma, comunque, anche qui, senza pregiudizio per l'esito del giudizio, che potrà essere favorevole al datore che provi la sussistenza dei fatti compendiati nella predetta motivazione. Ove, invece, quest'ultima non fosse intesa quale contestazione disciplinare, allora dovrebbe dirsi che fa in radice difetto la previa formulazione degli addebiti, con conseguente applicabilità della sanzione prevista per l'omessa contestazione (su cui v. infra).

In senso contrario, potrebbe invece affermarsi che le ragioni del licenziamento indicate direttamente in giudizio siano irrilevanti, con la conseguenza che il giudice non dovrebbe tenerne conto; pertanto, il fatto, insuscettibile di esser provato, è da considerarsi “insussistente”, anche ove il licenziamento fosse in origine provvisto di una motivazione, poiché non questa, ma quella diversa contenuta in memoria potrebbe essere, ovviamente, oggetto di prova.

Tale tesi sembra consolidarsi in seno alla S.C., avuto riguardo al precedente di Cass. 25 marzo 2019, n. 8293, ove è precisato che “Il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, può ritenersi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, rispetto ad una contestazione relativa ad irregolarità nella negoziazione di titoli di credito, commesse da un dipendente di un istituto credito, non aveva valutato, ai fini della sussistenza della giusta causa, il diverso addebito, specificato solo nel corso del giudizio, della richiesta di prestiti ad un cliente per far fronte ad una forte esposizione debitoria)”.

Quest'ultima tesi, tuttavia, di fatto, finisce per svalutare, in molti casi, la rilevanza del vizio, avente natura formale, derivante dalla violazione del principio di necessaria contestualità tra motivazione e licenziamento di cui al comma 2 dell'art. 2, l. n. 604 del 1966, con conseguente annientamento della portata precettiva del comma 6 dell'art. 18, st.lav.

In ordine alla seconda questione, occorre partire dal recente insegnamento di Cass. 24 marzo 2017, n. 7687 (e di altre successive), secondo cui “La disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all'atto e non è idonea a estendere l'oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all'azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati”. Dal che consegue che il lavoratore può, in via di principio, azionare separatamente più domande di impugnativa dello stesso licenziamento, concernenti ciascuna profili diversi.

Ciò posto, la problematica della decorrenza (ed impedimento) della decadenza si presenta di agevole soluzione quando la motivazione è contenuta nel licenziamento e non è modificata nel giudizio.

In tal caso, il lavoratore, una volta effettuata l'impugnativa extragiudiziale, dovrà presentare le varie domande entro 180 giorni dalla predetta impugnativa; infatti, la proposizione del primo ricorso impedisce la decadenza solo con riferimento al vizio in esso denunciato e non rispetto a tutti quelli possibili.

La situazione, invece, potrebbe complicarsi ove il datore motivi il licenziamento a più riprese, ad esempio indicando alcune ragioni nell'atto espulsivo ed altre (diverse) in memoria.

Qui, ove si ritenga che il termine di decadenza decorra solo da un licenziamento “motivato”, potrebbe ipotizzarsi l'ammissibilità di più impugnative da proporsi entro i diversi termini decorrenti da ogni singola motivazione.

Ma tale soluzione, come sopra visto, pare essere esclusa dalla S.C. nella sentenza in commento, sull'assorbente rilievo che la motivazione “nuova” debba considerarsi irrilevante.

Tuttavia, ove volesse ritenersi che il datore, pur incorrendo nella violazione formale, possa essere comunque ammesso a provare i fatti indicati per la prima volta in memoria a supporto del licenziamento (sempre che, in caso di licenziamento disciplinare, essi abbiano formato oggetto di previa contestazione, venendo altrimenti in considerazione l'insegnamento di Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745, secondo cui “il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18,l. n. 300 del 1970”), si tratta di stabilire in qual modo il lavoratore possa controdedurre.

In tale ipotesi, non sembra esservi necessità di una nuova impugnativa dello stesso licenziamento, bastando, ragionevolmente, la concessione di un termine entro il quale il lavoratore possa prospettare una propria difesa avverso l'impianto deduttivo e istruttorio approntato dal datore.

Il discorso non dovrebbe cambiare nell'ipotesi in cui il datore medesimo abbia fornito due diverse motivazioni del licenziamento, una contestuale all'atto ed una nella memoria.

Qui, però, il lavoratore potrebbe avere interesse a dedurre una fattispecie di illegittimità non speculare ai motivi addotti dal datore; in particolare, dalla “doppia” motivazione egli potrebbe ricavare un indizio della “pretestuosità” del licenziamento stesso, che necessita, quindi, di una specifica deduzione.

Ed è dubbio che quest'ultima possa esser formulata nel medesimo giudizio introdotto per far valere un diverso vizio del licenziamento, trattandosi di domanda nuova (e di questo avviso sembra essere stata, nel caso esaminato nella sentenza annotata, la lavoratrice, che ha, infatti, proposto la domanda di nullità del licenziamento in separato processo). Il lavoratore, quindi, dovrà proporre un nuovo giudizio, ma ciò potrà fare solo ove dall'impugnativa stragiudiziale non siano decorsi i 180 giorni di cui al comma 2 dell'art. 6, l. n. 604 del 1966.

La questione, in buona sostanza, è non poco complessa, poiché densa di implicazioni derivanti dalla contemporanea incidenza di più aspetti, di natura sostanziale e processuale, la cui armonizzazione richiede, necessariamente, una accurata ed ampia riflessione.

Per riferimenti sul tema, v. L. Di Paola, Rilevanza dei motivi del licenziamento e sindacato giudiziale, ne “Vicende ed estinzione del rapporto di lavoro”, III, Lavoro, Pratica Professionale, diretto da P. Curzio, L. Di Paola e R. Romei, Giuffré, 2018, 382.

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