Condannata per omicidio colposo l’ostetrica negligente che provoca la morte del feto durante il travaglio

Redazione Scientifica
25 Giugno 2019

In tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell'inizio del travaglio e, quindi, nel raggiungimento dell'autonomia del feto, coincidendo con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.

La vicenda. La Corte d'Appello di Salerno confermava la sentenza di primo grado con cui l'imputata era stata condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di 1 anno e 9 mesi di reclusione per il reato di cui all'art. 589 c.p., omicidio colposo a suo carico, in qualità di ostetrica, della morte del feto partorito da una donna ricoverata in ospedale a seguito della rottura del sacco amniotico e sottoposta a tracciato cardiotocografico, eseguito dal medico di turno, che rilevava l'assenza di contrazioni e di dilatazione del collo dell'utero. Successivamente la paziente veniva sottoposta ad ulteriore esame cardiotocografico, il quale rilevava l'assenza di battito cardiaco. A questo punto il ginecologo praticava apposita manovra e dopo 3 spinte l'ostetrica, la quale fino a quel momento continuava a rassicurare il ginecologo di turno che tutto procedeva in maniera regolare durante il travaglio, estraeva il feto, ma di questo si constatava l'assenza di battito cardiaco, di respirazione, di riflessi e di movimenti. Con l'esame autoptico i consulenti confermavano che il feto non aveva mai respirato ed era nato morto per asfissia perinatale.
L'ostetrica, dopo la conferma della sua penale responsabilità, ricorre tramite difensore in Cassazione, denunciando sia la violazione di legge in riferimento all'errata qualificazione giuridica della fattispecie delittuosa ascrittale, sia l'illegittimità costituzionale dell'art. 589 c.p. per violazione degli artt. 25, comma 2 e 117 Cost. e art. 7 CEDU.

La tutela del feto. Tali motivi di ricorso per la Suprema Corte di Cassazione sono infondati.
In particolare, per la tesi difensiva, al momento dell'estrazione del feto dall'utero, lo stesso era già senza vita per cui il reato deve essere riqualificato nella fattispecie delittuosa più lieve, ossia come aborto colposo ed inoltre il concetto di persona non può ricomprendere anche il feto, invocando la disposizione di cui all'art. 578 c.p. di infanticidio in condizioni di abbandono morale o materiale che differenzia le ipotesi di “morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto” da quelle del “feto durante il parto”. Pertanto, la morte del feto, sempre per la tesi difensiva della ricorrente, dovrebbe rientrare nella fattispecie più lieve di cui all'art. 17 l. n. 194/1978.
Ma per la S.C. la condotta prevista dall'art. 578 c.p. si realizza dal momento del distacco del feto dall'utero materno. Di conseguenza, quando la condotta volta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall'utero materno, la fattispecie, in assenza dell'elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre (di cui al suddetto art. 578 c.p.), configura il delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577, n. 1, c.p.
Pertanto i reati di omicidio e infanticidio-feticidio tutelano lo stesso bene giuridico, ossia la vita dell'uomo nella sua interezza. Ciò significa che il legislatore ha riconosciuto anche al feto la qualità di uomo vero e proprio, «giacché la morte è l'opposto della vita».
Detto ciò, in tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell'inizio del travaglio e, quindi, nel raggiungimento dell'autonomia del feto, coincidendo con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.
Il personale sanitario che, dunque, commette errori “fatali” per negligenza, imperizia o disattenzione deve essere condannato per omicidio colposo e non per aborto colposo, meno grave del precedente.
Per tali ragioni i Giudici di legittimità rigettano il ricorso condannando la ricorrente al pagamento delle spese di lite.

(FONTE: dirittoegiustizia.it)

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