Il giudice incompetente assegna un termine per la riassunzione inferiore o superiore a quello minimo e massimo previsto
25 Giugno 2019
Massima
Il termine assegnato dal giudice, con il provvedimento che dichiara la propria incompetenza, per la riassunzione ai sensi dell'art. 50, comma 1, c.p.c. non può essere inferiore o superiore a quello minimo e massimo stabiliti dall'art. 307, comma 3, c.p.c.; ne consegue che – analogamente all'ipotesi in cui il giudice si sia astenuto dall'esercitare il potere discrezionale – trova applicazione sussidiaria esclusivamente il termine perentorio massimo previsto dalla norma di legge che è quello di tre mesi dalla comunicazione del provvedimento che dichiara l'incompetenza del giudice adito. Il caso
Decidendo sulla causa di opposizione a decreto ingiuntivo proposta da Tizio nei confronti della società creditrice Alfa, il giudice di pace dichiarava la propria incompetenza per territorio assegnando alle parti termine di mesi sei dalla pubblicazione della sentenza per la riassunzione della causa avanti il Giudice di Pace indicato quale competente. La società Alfa riassumeva la causa, con comparsa notificata oltre il termine massimo di mesi tre previsto dall'art. 50, comma 2 c.p.c. (nel testo riformato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 6, lett. b) e, pertanto, Tizio proponeva eccezione di estinzione. Eccezione che veniva rigettata dal giudice di pace. Tizio proponeva appello avverso la sentenza del Giudice di Pace deducendo la intervenuta estinzione del giudizio. Il tribunale rigettava l'appello rilevando che la norma di cui all'art. 50 c.p.c., non impediva al giudice di fissare discrezionalmente il termine per la riassunzione, trovando applicazione meramente sussidiaria, in caso di omessa indicazione del termine da parte del Giudice, la disposizione dell'articolo che stabiliva il termine trimestrale. Avverso tale sentenza Tizio proponeva ricorso in Cassazione deducendo la violazione dell'art. 50 c.p.c., e art. 307, comma 3 c.p.c. La questione
La questione esaminata dalla Cassazione afferisce alla invalidità del provvedimento giudiziale che assegna un termine per la riassunzione della causa inferiore o superiore a quello minimo e massimo previsto dall'art. 307, comma 3, c.p.c. e degli atti processuali successivamente compiuti che da tale provvedimento derivano (art. 159 c.p.c.). Le soluzioni giuridiche
I giudici di legittimità hanno chiarito che, in base al combinato disposto dall'art. 50 c.p.c., comma 1, e art. 307 c.p.c., comma 3 – nel testo riformato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69 –, qualora la legge attribuisca al Giudice il potere discrezionale di assegnare alle parti termini perentori per il compimento di attività processuali, salvo espressa deroga disposta dalle singole disposizioni di legge, l'esercizio del potere da parte del Giudice deve conformarsi al rispetto del limite imposto dai termini minimo un mese – e massimo – tre mesi – previsti dalla norma generale di cui all'art. 307, comma 3 c.p.c. La norma dell'art. 50, comma 1, c.p.c. non si sottrae difatti alla disciplina generale, stabilita nell'art. 307, comma 3, c.p.c. del potere discrezionale di assegnazione del termine che le singole norme processuali vengono ad attribuire al Giudice, incontrando in ogni caso l'esercizio di detto potere il limite minimo "non inferiore al mese" ed il limite massimo "non superiore a tre mesi" stabilito dalla disciplina generale in funzione, sia delle esigenze e dei tempi tecnici di esercizio del diritto di difesa, sia dell'attuazione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo ex art. 111, comma 2 Cost., che viene a coniugarsi con la effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost., e la efficienza della funzione giudiziaria ex artt. 97 e 101 Cost. Ad avviso della Suprema Corte l'invalidità del provvedimento che assegna un termine per la riassunzione della causa superiore a quello massimo previsto ex lege, non attiene a vizi inerenti la struttura formale del provvedimento, invalidità in quanto tale irrilevante se non comminata espressamente dalla legge (art. 156, comma 1 c.p.c.) e sanabile in ogni caso laddove sia stato comunque raggiunto lo scopo cui l'atto processuale è diretto (art. 156, comma 3 c.p.c.), ma incide invece direttamente sull'esercizio del potere quale misura della competenza correlata al bilanciamento tra garanzia di effettività del diritto difesa della parte (intesa nel duplice senso di non rendere impossibile o particolarmente difficoltoso - a causa di termini eccessivamente ristretti - l'atto di riassunzione alla parte che intenda proseguire il giudizio, e di non incidere - a causa di termini eccessivamente lunghi - sulla effettività di tutela dei diritti della parte che ha ragione), e dunque viene a risolversi in un vizio di invalidità di natura sostanziale, insanabile in quanto in ogni caso lesivo del diritto di una delle parti processuali. Conseguentemente, qualora il Giudice, con il provvedimento che dichiara la propria incompetenza, assegni alle parti, ai sensi dell'art. 50, comma 1 c.p.c., un termine per la riassunzione, rispettivamente, inferiore o superiore a quello minimo e massimo stabilito dall'art. 307, comma 3 c.p.c. il provvedimento deve ritenersi tamquam non esset, in quanto improduttivo di effetti idonei a condizionare l'attività processuale delle parti. Pertanto – analogamente alla ipotesi in cui il Giudice si sia astenuto dall'esercitare il potere discrezionale – trova applicazione sussidiaria esclusivamente il termine perentorio massimo previsto dalla norma di legge (fissato in tre mesi dalla comunicazione della decisione di incompetenza dall'art. 50, comma 1, in corrispondenza al termine massimo indicato dall'art. 307, comma 3 c.p.c.). La nullità del provvedimento che assegna termini difformi da quelli legali, comunica la propria invalidità anche agli atti processuali successivamente compiuti che da esso derivano (art. 159 c.p.c.). La Suprema Corte ha tuttavia evidenziato che il nesso di derivazione rilevante attiene al solo presupposto temporale: ossia l'atto processuale conseguente è inidoneo a produrre gli effetti previsti dalla legge (nel caso di specie: la prosecuzione del giudizio) se compiuto avvalendosi in concreto del superamento del termine legale assentito dal provvedimento giudiziale (invalido). Osservazioni
In forza dell'art. 50 c.p.c. se la riassunzione della causa – conseguente alla pronuncia dichiarativa di incompetenza – davanti al giudice dichiarato competente viene effettuata nel termine fissato dal giudice o, in mancanza, in quello di legge il processo continua davanti al nuovo giudice mantenendo una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e processuali del giudizio svoltosi dinnanzi al giudice incompetente: pertanto, la riassunzione non comporta l'instaurazione di un nuovo rapporto processuale, ma costituisce la prosecuzione di quello promosso davanti al giudice dichiaratosi incompetente e le parti mantengono la posizione assunta nella fase iniziale (Cass. civ., sez. II, 10 luglio 2008, n. 19030; Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2007, n. 4775). La riassunzione determina, dunque, la sanatoria retroattiva del vizio di incompetenza e produce la conservazione di tutti gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta innanzi al giudice incompetente (Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 1995, n. 1241). Di conseguenza, la prescrizione risulta interrotta e sospesa sin dall'epoca della domanda originaria (Cass. civ., sez. lav., 10 giugno 1988, n. 3981). Inoltre, sono utilizzabili gli atti istruttori disposti ed espletati dal giudice che ha dichiarato la propria incompetenza, considerato che tale declaratoria non spiega di per sè effetti invalidanti sugli atti medesimi e che la riassunzione determina la prosecuzione del processo originariamente instaurato (Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2013, n. 11234). La Suprema Corte ha altresì chiarito che il giudice innanzi al quale le parti, a seguito di dichiarazione di incompetenza, riassumano il processo deve provvedere sulle sole spese della fase di riassunzione e non anche su quelle della fase precedentemente svoltasi innanzi al giudice incompetente, le quali vanno liquidate da quest'ultimo (Cass. civ., sez. III, 7 febbraio 2017, n. 3122). Atteso che la riassunzione del processo non comporta la costituzione di un nuovo rapporto processuale, bensì la prosecuzione di quello inizialmente instaurato, la giurisprudenza di merito si è interrogata sulla ammissibilità dell'atto di riassunzione cartaceo e non telematico. Com'è noto, l'art. 16-bis d.l. n. 179/2012 stabilisce come regola (comma 1) l'esclusiva modalità telematica di deposito per tutti gli atti di parti già precedentemente costituite (cd. endoprocessuali) e come eccezione, per i soli atti di parti non ancora costituite (c.d. introduttivi), la facoltà di scelta tra deposito telematico e cartaceo (comma 2). Secondo l'orientamento maggioritario, alla luce dei principi ribaditi nel tempo dalla Suprema Corte, la comparsa di riassunzione successiva a una pronuncia di incompetenza territoriale costituisce un atto endoprocessuale con conseguente onere di procedere al suo deposito con modalità esclusivamente telematica. Non vi è, tuttavia, uniformità di conclusioni in ordine alle conseguenze del deposito erroneamente cartaceo, essendo ampiamente controverso se si sia in presenza di un vizio sanabile ex art. 156, comma 3, c.p.c. o di un atto radicalmente inesistente dal punto di vista giuridico (per la tesi meno severa si sono espressi, con varie sfumature: Trib. Asti, 23 marzo 2015; Trib. Ancona, 28 maggio 2015; Trib. Brescia, 15 luglio 2015; Trib. Palermo, 10 maggio 2016; Trib. Torino, 11 luglio 2016 e Trib. Pescara, 8 settembre 2016; hanno invece sostenuto la tesi più rigorosa: Trib. Reggio Emilia, 1 luglio 2014; Trib. Torino, 6 marzo 2015 e 26 marzo 2015; Trib. Foggia, 15 maggio 2015; Trib. Trani, 24 novembre 2015; Trib. Vasto, 15 aprile 2016; Trib. Lodi, 4 luglio 2016 e Trib. Vasto, 28 ottobre 2016).
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