Tutela reintegratoria da licenziamento illegittimo: è necessaria l'offerta della prestazione per il conseguimento della posta risarcitoria?

Luigi Di Paola
19 Luglio 2019

Nell'ipotesi di ordine di reintegrazione del lavoratore ai sensi dell'art. 18, st.lav., nel testo applicabile anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012, il diritto al risarcimento del danno non è subordinato - diversamente da quanto accade nel caso di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato - alla messa in mora del datore di lavoro mediante l'offerta della prestazione lavorativa da parte del prestatore (nella specie, un lavoratore, dopo la sentenza di accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società poi fallita, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria, si era visto escludere dallo stato passivo il credito avente per oggetto le retribuzioni maturate anche nel periodo successivo alla sentenza, sul presupposto, censurato dalla S.C., di non aver provato l'offerta della prestazione alla società datrice).
Massima

Nell'ipotesi di ordine di reintegrazione del lavoratore ai sensi dell'art. 18, st. lav., nel testo applicabile anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012, il diritto al risarcimento del danno non è subordinato - diversamente da quanto accade nel caso di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato - alla messa in mora del datore di lavoro mediante l'offerta della prestazione lavorativa da parte del prestatore (nella specie, un lavoratore, dopo la sentenza di accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società poi fallita, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria, si era visto escludere dallo stato passivo il credito avente per oggetto le retribuzioni maturate anche nel periodo successivo alla sentenza, sul presupposto, censurato dalla S.C., di non aver provato l'offerta della prestazione alla società datrice).

Il caso

Un lavoratore agisce per veder soddisfatto, in sede fallimentare, il proprio credito risarcitorio - per il periodo compreso tra il 13 febbraio 2007, giorno dell'intimato licenziamento, e il fallimento della società datrice avvenuto nell'aprile 2015 - riconosciuto da una sentenza, intervenuta nell'anno 2009, contenente la declaratoria di illegittimità del licenziamento nonché la condanna della predetta società a reintegrare il lavoratore medesimo nel posto di lavoro e a pagargli la conseguente posta risarcitoria. L'opposizione presentata avverso lo stato passivo, dal quale il credito in questione era stato escluso, viene rigettata, in ragione della mancata prova, ad opera del lavoratore, dell'offerta delle proprie energie lavorative in favore della società datrice. La Cassazione cassa il decreto, enunciando il sopra riportato principio.

La questione

La questione in esame é la seguente: nell'ipotesi di riconoscimento della tutela reale, è necessaria la cd. “messa in mora” per il conseguimento, da parte del lavoratore, delle somme dovute dal datore a titolo risarcitorio per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale?

Le soluzioni giuridiche

La S.C. dà al quesito risposta negativa, ritenendo che l'ipotesi dell'art. 18, st. lav., non possa essere correttamente assimilata a quella di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, per la natura ricognitiva della dichiarazione di nullità. E precisa che “quando invece il lavoratore impugni stragiudizialmente il licenziamento illegittimo, a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione manifestato con l'intimazione del licenziamento, egli già con tale agire compie l'offerta della sua prestazione lavorativa richiedendo il ripristino del rapporto”.

La Cassazione, pertanto, nel caso di specie, utilizza due argomentazioni concorrenti che, a ben vedere, sarebbero sufficienti, anche ove isolatamente considerate, a sorreggere la decisione.

La prima, in ordine logico, benché sviluppata nella motivazione per ultima, è che l'offerta della prestazione è compiuta dal lavoratore licenziato già con l'impugnativa stragiudiziale del licenziamento; dal che consegue che non vi sarebbe, nel prosieguo, necessità, ai fini della maturazione della posta risarcitoria, di ulteriori iniziative del lavoratore.

Tale ricostruzione, però, postulando che il licenziamento integri un rifiuto di accettazione della prestazione lavorativa, trascura di considerare che il licenziamento stesso, almeno in apparenza, fin quando non ne sia dichiarata la illegittimità (nella doppia versione della nullità o annullabilità), è idoneo a far venir meno il sinallagma contrattuale.

Pertanto, a fronte del licenziamento, il lavoratore non è tecnicamente tenuto ad offrire la propria prestazione, ma ha l'onere di impugnare l'atto espulsivo affinché di esso sia rimossa anche solo la apparente sussistenza; sembrando improprio, in tal caso, far ricorso all'istituto della “mora del creditore” di cui agli artt. 1206, c.c., e seguenti, che presuppone un rapporto contrattuale, anche apparentemente, in essere, nonché operativo sul piano funzionale.

Se così è, la spettanza della posta risarcitoria non può dipendere da un atto di costituzione in mora del lavoratore, ma è legata all'inadempimento contrattuale imputabile al datore.

Va infatti precisato che l'azione di impugnativa del licenziamento si configura come domanda con la quale il lavoratore fa valere un inadempimento contrattuale, in ciò risolvendosi il recesso illegittimo, sanzionato in modo speciale dall'ordinamento lavoristico, in alcuni casi - oggi, come è noto, tassativamente indicati - con il ripristino del rapporto e con una posta risarcitoria di cui è stabilita entità e decorrenza.

Ciò sembra porsi in linea con la prima argomentazione, messa in campo dalla Corte, secondo cui la costituzione in mora del datore è necessaria - anzi, lo era prima della nota riforma del 2010 che ha introdotto la forfetizzazione del risarcimento mediante l'indennità omnicomprensiva – per far scattare l'obbligo del pagamento delle poste monetarie in caso di accertamento della nullità del termine apposto al contratto, poiché, lì, il rapporto di lavoro, pur connotato dalla presenza di un termine finale, è da considerarsi in essere, con persistente operatività del sinallagma, attesa la nullità del termine stesso, da accertarsi con pronunzia dichiarativa e ricognitiva di una situazione esistente sin dall'origine.

Rimane l'obiezione imperniata sulla possibile equiparabilità, ai fini della disciplina applicabile (ossia mora del creditore o inadempimento), tra nullità del contratto a termine e nullità (od inefficacia) del licenziamento, giacché la mancata produzione di effetti della fattispecie lascia comunque inalterata la persistenza del rapporto e, quindi, il sinallagma contrattuale.

Ma può qui ribattersi che la clausola appositiva del termine affetta da nullità non può essere il derivato di un inadempimento in senso tecnico, che ben può essere invece l'effetto di un licenziamento nullo.

Sembra in definitiva ragionevole ritenere, conformemente a quanto affermato dalla S.C. nella sentenza in commento, che, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, il risarcimento spettante al lavoratore nell'area di operatività della tutela reale sia dovuto a prescindere da un atto di messa in mora del lavoratore (dovendo precisarsi che, sebbene la conclusione cui si perviene riguarda la sfera di applicabilità dell'art. 18, st. lav., vecchio testo, essa vale anche nell'ipotesi di tutela reintegratoria delineata dal legislatore con la legge “Fornero” e con il “Jobs Act”).

Sul che non dovrebbero nutrirsi dubbi per il periodo che va dal momento dell'intimazione del licenziamento a quello di emissione della declaratoria giudiziale di illegittimità del licenziamento stesso.

E' invece meno nitido - per come si vedrà subito infra - il panorama giurisprudenziale con riguardo al periodo successivo alla predetta declaratoria, nell'ipotesi in cui il datore, non conformandosi a quest'ultima, non abbia reintegrato il lavoratore.

Sul punto la sentenza in commento non si esprime direttamente, ma dalla cronologia degli eventi, così come riportata in motivazione - in cui è chiaro il riferimento alla “quota” di risarcimento maturata dopo la pronuncia giudiziale -, emerge con linearità l'applicabilità del principio di diritto ivi affermato con riferimento tutto il periodo, anche quello successivo alla predetta pronuncia.

Osservazioni

La sentenza in esame è in linea con l'orientamento espresso da Cass. 3 luglio 2014, n. 15251, ove è affermato che “In materia di licenziamento illegittimo, le somme erogate in favore del lavoratore ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (nel testo ratione temporis applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92), sono giustificate dall'obbligo risarcitorio, derivante dall'illegittimità del licenziamento, e non dall'inosservanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di reintegra, senza che assuma rilievo l'offerta da parte del lavoratore della propria prestazione”.

Tuttavia si registra un orientamento difforme.

Ad esempio, in Cass. 25 febbraio 2015, n. 3852, è puntualizzato, in motivazione, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella esaminata dalla sentenza in commento, che “nessun importo ulteriore spetta alla lavoratrice a titolo risarcitorio per il periodo successivo alla sentenza, posto che dalla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro deriva che, al di fuori di espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro venga di fatto eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente”.

Del predetto orientamento sembra essere espressione anche Cass. 5 luglio 2016, n. 13669, ove è affermato - sulla scia di Cass., sez. un., 27 luglio 1999, n. 508 - che “Il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all'art. 2 della l. n. 604 del 1966 e succ. mod. è inefficace e non produce effetti sulla continuità del rapporto, sicché, per i rapporti non rientranti nell'area della tutela reale, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, determinabile anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute ma, data la natura sinallagmatica del rapporto, è necessaria la previa offerta della prestazione lavorativa”.

Si tratta, a tale riguardo, di stabilire la ragione per cui il lavoratore, una volta ottenuta la pronuncia di ripristino del rapporto, debba, in ipotesi, nuovamente compulsare il datore onde poter ottenere la “quota” di risarcimento per il periodo successivo a detta pronuncia (la quale, ovviamente, non presenta alcuna incidenza, in chiave modificativa, sull'originario intendimento del lavoratore di essere reintegrato).

Una possibile risposta al quesito é che la pronuncia giudiziale, essendo esecutiva, “svela” il rapporto in essere (in caso di accertata nullità od inefficacia, in senso proprio, del licenziamento) o lo ricostituisce (in caso di acclarata ingiustificatezza del licenziamento stesso), sicché, dall'istante in cui la stessa è emessa, torna ad essere operativo il principio di sinallagmaticità, con conseguente necessità, per il lavoratore - che, non essendo reintegrato, punti al conseguimento del risarcimento -, di mettere in mora il datore.

Su tale delicata questione si innesta la nota pronuncia (C. cost. 23 aprile 2018, n. 86) della Corte costituzionale, la quale - nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 4 dell'art. 18, st.lav., sollevata, in riferimento al primo comma dell'art. 3 della Costituzione - ha affermato, per quanto qui interessa, che “ove il datore di lavoro non ottemperi all'ordine di reintegrazione, tale suo comportamento, riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato contra ius, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato”.

Ed ha aggiunto che “La disposizione di cui al novellato quarto comma dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 - con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all'ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» - non è dunque irragionevole […], bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente […]. Viene, in tale contesto, in rilievo il lucro cessante - il mancato guadagno, cioè, subito dal lavoratore per effetto, prima, del licenziamento illegittimamente intimato e, poi, della mancata riassunzione - e tale voce di danno è coerentemente rapportata a quanto il dipendente avrebbe percepito se, senza il licenziamento, avesse continuato a lavorare e poi se, dopo l'annullamento di questo, fosse stato riassunto in esecuzione dell'ordine di reintegrazione imposto dal giudice”.

In buona sostanza, il Giudice delle leggi ha convalidato l'idea che la declaratoria di illegittimità del licenziamento nell'area della tutela reale non muta la natura, che rimane pur sempre risarcitoria, dell'indennità a seguito dell'inadempimento del datore.

Ed una delle varie implicazioni dell'affermazione è che, alla base, vi è, appunto, un inadempimento contrattuale, al quale si applica unicamente la disciplina dettata per tale istituto.

Tuttavia, nella pronuncia in questione, vi è il seguente, significativo, passaggio finale: “Va poi considerato che il datore di lavoro, ove messo in mora, dal lavoratore, ai fini dell'adempimento del suo obbligo di ottemperanza all'ordine del giudice, nel contesto della disciplina lavoristica ispirata al favor praestatoris, può andare, a sua volta, incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, c.c.), nei suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno conseguente al mancato reinserimento nell'organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma”.

Il dubbio che tale affermazione possa avvalorare l'orientamento non accolto dalla sentenza in commento sembra, ad ogni modo, superabile ove - come sembra plausibile ritenere - l'affermazione in questione sia interpretabile nel senso che la messa in mora è necessaria solo ove il lavoratore - ferma restando l'indennità risarcitoria, che deriverebbe automaticamente dal licenziamento illegittimo - volesse conseguire una somma ulteriore (il diritto all'ottenimento della quale non verrebbe meno con la riforma della declaratoria di illegittimità del licenziamento), scaturente dalla mancata ottemperanza del datore all'ordine di reintegra, volta a risarcire un danno diverso (ad esempio, alla professionalità, sul versante patrimoniale e non patrimoniale) da quello ristorabile mediante la predetta indennità.

Come è agevole intuire, il tema è a dir poco complesso, dovendo le categorie civilistiche, ancora una volta, trovare la giusta e calibrata collocazione nell'ambito dei peculiari istituti disciplinati dal diritto del lavoro.

Per riferimenti sul tema, v. L. Di Paola, La disciplina sanzionatoria correlata al licenziamento individuale illegittimo, ne Il licenziamento, a cura di L. Di Paola, Giuffré, 2019, 417.

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