La disciplina del conflitto di interessi del socio e delle conseguenze in ordine alla validità della deliberazione assunta con il voto determinante del socio in conflitto assume una valenza centrale nella disciplina dell'assemblea e, in generale, nella disciplina dei rapporti (e dei conflitti) tra soci e tra soci e società
Introduzione. Il passaggio dalla disciplina anteriore a quella successiva alla riforma del diritto societario
La disciplina del conflitto di interessi del socio e delle conseguenze in ordine alla validità della deliberazione assunta con il voto determinante del socio in conflitto assume una valenza centrale nella disciplina dell'assemblea e, in generale, nella disciplina dei rapporti (e dei conflitti) tra soci e tra soci e società: il conflitto di interessi è, infatti, volto a disciplinare i casi in cui la normale dialettica assembleare e, dunque, i normali conflitti sociali interni a detta sede vengono ad essere influenzati e, inquinati, da elementi esterni.
Sulle norme che vanno a regolare quel conflitto e che, in qualche modo, cercano di comporlo si «scaricano», evidentemente, visioni per così dire «ideologiche» in ordine all'interesse sociale, alla sua individuazione ed alla sua eventuale rilevanza ai fini della validità delle deliberazioni.
L'ipotesi del socio che persegua un interesse esterno a quello della società è presa in considerazione, per la società azionaria, dall'art. 2373 c.c. - rubricato «conflitto d'interessi» - a mente del quale la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell'art. 2377 c.c. qualora possa recarle danno. Per la società a responsabilità limitata, l'art. 2479 ter c.c. detta una disciplina sostanzialmente analoga prevedendo che, qualora possano recare danno alla società, sono impugnabili a norma del precedente comma le decisioni assunte con la partecipazione determinante di soci che hanno, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società.
Si tratta, come è stato osservato, di una disciplina senza fattispecie in quanto il legislatore detta le regole che si applicano quando esiste un conflitto di interessi, ma nulla dice per definire il presupposto al ricorrere del quale quelle regole entrano in gioco (così, F. d'Alessandro, Il conflitto di interessi nei rapporti tra socio e società, 5).
Al fine di meglio inquadrare l'attuale disciplina del conflitto di interessi, occorre muovere dal dato storico e, precisamente, dalla disciplina anteriore alla riforma del 2003.
L'originaria formulazione dell'art. 2373, comma 1, c.c. imponeva al socio che si venisse a trovare in una situazione di conflitto di interessi con la società l'obbligo di astenersi dalla partecipazione alla votazione sulla materia oggetto del conflitto («il diritto di voto non può essere esercitato dal socio nelle deliberazioni in cui egli ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società»). Tuttavia, il secondo comma disponeva l'impugnabilità, ai sensi dell'art. 2377 c.c., della deliberazione assunta con il voto favorevole e determinante del socio in conflitto qualora la medesima avesse potuto arrecare danno alla società (per una ricostruzione dell'originaria disciplina del conflitto di interessi ex art. 2373 c.c., cfr., M.T. Cirenei, L'art. 2373 c.c. e la “nuova” disciplina del conflitto di interessi del socio, 661 ss.; V. Meli, art. 2373, 1000; A. Gambino, art. 2373, 1625; F. Dardes, art. 2373, 946; M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 268).
Una simile normativa aveva posto agli interpreti numerosi dubbi. Un primo indirizzo aveva proposto una lettura congiunta dei due commi, ritenendo non esistente un divieto di voto puro e semplice, essendo, al contrario, sanzionabile il conflitto soltanto attraverso l'impugnazione della deliberazione. Per contro, secondo una diversa ricostruzione il primo comma doveva ritenersi volto a disciplinare le condizioni per la legittimazione al voto, mentre il secondo i presupposti per la legittimazione all'impugnazione.
La riforma si è fatta carico dei problemi interpretativi ora sommariamente indicati. Abrogato il primo comma, l'originario secondo comma, oggi norma di apertura dell'articolo, dispone l'impugnabilità della deliberazione approvata con il voto determinante dei soci che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società, qualora la deliberazione possa recarle danno. Inoltre, il precedente riferimento al criterio quantitativo di calcolo («la necessaria maggioranza») è stato sostituito con il carattere «determinante» del voto dei soci in conflitto di interessi.
Nel nuovo secondo comma, mantenuto il divieto di voto per gli amministratori nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità, a seguito dell'introduzione del sistema dualistico di amministrazione, è stato aggiunto il divieto di voto per i componenti del consiglio di gestione nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza.
Infine, è stato abrogato il quarto comma dell'originaria disposizione sulla computabilità, ai fini della regolare costituzione dell'assemblea, delle azioni per le quali operava il divieto di voto.
L'art. 2373 c.c. ha, poi, subito una ulteriore modificazione per effetto del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 27 che ha sostituito la dizione «soci» in conflitto con quella di «coloro» che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società.
La riforma ha, così, comportato un decisivo spostamento sistematico interno alla disciplina: l'interesse in conflitto non rileva più sul terreno procedimentale, ma come regola sostanziale di validità della deliberazione assembleare che diviene annullabile ove risulti che, in concreto, l'interesse della società sia stato sacrificato ad un interesse esterno del socio (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 275). Più nel particolare, il voto dell'azionista in conflitto costituisce causa di annullabilità della deliberazione solo quando: a) sia stato determinante (c.d. prova di resistenza); b) abbia contribuito all'approvazione di una deliberazione idonea a danneggiare la società.
In questa prospettiva, la disposizione assume un ruolo sistematico centrale poiché pone l'interesse della società come limite alla libertà di voto da sempre riconosciuta all'azionista (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 275) e, proprio per tale motivo, essa è stata ritenuta applicabile, in via analogica, anche al di fuori della previsione di cui all'art. 2373 c.c.: ad esempio, all'interno dell'assemblea degli obbligazionisti (Trib. Milano, 12 febbraio 2014, in Giur. comm., 2015, II, 826).
Il soggetto portatore del conflitto
L'attuale dizione dell'art. 2373 c.c., conseguente alle modifiche del 2010, vede come destinatari della norma - non solo genericamente i «soci», ma - «coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società».
La modificazione legislativa trova la sua ragione nella necessità di adeguare la disciplina dell'art. 2373 c.c. al meccanismo della record date, introdotto con il d.lgs. menzionato nel testo, in attuazione della direttiva 2007/36/CE in materia di diritto degli azionisti delle società quotate. Infatti, colui che partecipa all'assemblea, in quanto soggetto legittimato in base alla data di registrazione, potrebbe non essere più socio: egli, tuttavia, potrebbe essere portatore di un interesse in conflitto con quello della società con conseguente applicazione dell'art. 2373 c.c.
Comunque, anche a prescindere dai profili della record date, la nuova dizione normativa conferma l'applicazione della disciplina sul conflitto di interessi anche all'usufruttuario ed al creditore pignoratizio (V. Meli, art. 2373, 1001; M.T. Cirenei, art. 2373,770; A. Gambino, art. 2373, 1640): in tali casi, peraltro, il conflitto rilevante deve riguardare il creditore pignoratizio o l'usufruttuario e non già anche quello del titolare della quota (V. Meli, art. 2373, 1001).
Sotto altro profilo, la modifica legislativa ha consentito l'impugnabilità della deliberazione assunta con il voto determinante al quale abbiano concorso titolari di strumenti finanziari partecipativi non soci, ma dotati del diritto di voto per specifici argomenti o dipendenti della società o di società controllate (art. 2351, ultimo comma, c.c.) (V. Meli, art. 2373, 1001).
Infine, la disposizione di cui all'art. 2373 c.c. è applicabile anche al socio unico e, dunque, anche all'ipotesi di società unipersonale (M.T. Cirenei, art. 2373,801 ss.; M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 277). Tuttavia, a parte le difficoltà di immaginare l'impugnativa di delibere assunte dal socio unico - che potrebbe comunque configurarsi da parte degli amministratori (e nei limiti in cui ciò si ritenga possibile) ovvero dai soci acquirenti (in epoca successiva alla assunzione della deliberazione) di parte della partecipazione sociale - è difficile configurare, soprattutto se l'ipotesi viene riguardata da una angolazione strettamente «contrattualistica», una contrapposizione di interessi tra socio unico e società. In altre parole, se è vero che è la maggioranza azionaria, in quanto più esposta al rischio di impresa, quella maggiormente in grado di «esprimere» e di «definire» l'interesse sociale, allora appare effettivamente difficile distinguere un interesse sociale che sia realmente distinto da quello del socio unico.
L'insussistenza di un divieto di voto e le clausole statutarie di obbligo di astensione.
Come già accennato, la riforma del diritto societario ha fugato ogni dubbio in ordine alla insussistenza di un divieto di voto per il socio in conflitto di interessi.
In via di principio, l'esercizio del diritto di voto è rimesso all'apprezzamento discrezionale del socio, il quale deve però esercitarlo in modo tale da non recare danno alla società. Entro tale limite (limite esterno al diritto di voto), il socio - o, meglio, la maggioranza azionaria - può liberamente determinare la volontà della società, rimanendo invece precluso ogni sindacato in ordine al merito delle deliberazioni e, precisamente, sulla convenienza e sulla opportunità di determinate decisioni.
Secondo la dottrina, peraltro, non sussiste neppure un obbligo per il socio di informare l'assemblea dell'esistenza del conflitto (V. Meli, art. 2373, 1004; M.T. Cirenei, art. 2373,774, nt. 64; G. Grippo - C. Bolognesi, L'assemblea nella società per azioni, 111 che evidenziano la differenza di disciplina rispetto alla posizione degli amministratori che, ai sensi dell'art. 2391 c.c., hanno l'obbligo di dichiarare gli interessi che abbiano in una determinata operazione della società).
Alla eliminazione del divieto di voto consegue la impossibilità di esclusione - ovvero del mancato computo - dal voto dell'azionista in conflitto da parte del presidente dell'assemblea (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 272; V. Meli, art. 2373, 1004; A. Gambino, art. 2373, 1625) sulla base di un suo difetto di legittimazione al voto medesimo. Tale conclusione è stata anche spiegata in forza della considerazione che non può ex ante darsi per scontato che il socio, che versi in situazione di conflitto, esprimerà effettivamente un voto dettato dal suo interesse particolare e contrastante con l'interesse sociale (F. d'Alessandro, Il conflitto di interessi nei rapporti tra socio e società, 13).
Ove, dunque, l'amministratore escludesse dal voto il socio sulla base di un supposto conflitto di interesse, la deliberazione risultante dall'assemblea risulterebbe invalidamente assunta, indipendentemente dalla prova di resistenza e dalla potenzialità dannosa di essa (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 272; in giurisprudenza, Trib. Roma, 16 aprile 2018, in Soc., 2018, 991 con nota di M.P. Ferrari, La sospensione dell'efficacia delle delibere assembleari in presenza di clausola compromissoria statutaria: secondo il tribunale romano, infatti, il socio in conflitto non può essere comunque escluso dal voto, dovendosi, semmai, valutare successivamente le conseguenze in ordine a quel voto, sotto il profilo della partecipazione determinante e della potenzialità lesiva della deliberazione così assunta).
È, invece, demandato allo stesso socio di decidere se astenersi dal voto o meno, rilevando tale scelta sul computo dei quorum per l'approvazione della deliberazione (art. 2368 c.c.).
Secondo una parte della dottrina, sarebbe ammissibile che lo statuto, in presenza di situazioni particolari e concrete che rendano palese ed insuperabile il conflitto di interessi, preveda l'obbligo di astensione in capo al soggetto in conflitto d'interessi, eventualmente accompagnato dalla previsione del potere presidenziale di escludere il medesimo dalla votazione (G. Grippo - C. Bolognesi, L'assemblea nella società per azioni, 110; L. Enriques - G. Scassellati Sforzolini, Adeguamenti statutari: scelte di fondo e nuove opportunità nella riforma societaria, in Not., 2004, 74 ss.). Altra parte della dottrina manifesta perplessità in quanto la soluzione ora indicata finirebbe per moltiplicare le occasioni di controversia fra la maggioranza e la minoranza (con il rischio che quest'ultima provi ad utilizzare strumentalmente la clausola al fine di rovesciare i rapporti di forza in sede assembleare), rispetto alla più lineare soluzione dettata dal legislatore, che concentra il sindacato giudiziario sul controllo ex post del contenuto della delibera e dell'eventuale pregiudizio da questa causato alla società (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 278). La questione è stata in una occasione portata all'attenzione della giurisprudenza ed è stata da questa risolta in senso negativo (Trib. Perugia, 25 giugno 2008, in Soc., 2010, 221 con nota di F. Fanti, Brevi note in tema di voto scalare, sospensione del diritto di voto e riscatto di azioni. In quell'occasione l'assemblea aveva deliberato una modifica statutaria che prevedeva la sospensione del diritto di voto a carico del «socio che eserciti, in modo diretto e/o indiretto attraverso partecipate, partecipanti, società comunque controllate o a lui riconducibili (attraverso il controllo o l'influenza esercitata o subita su o da parte degli altri specifici soggetti e/o società) attività in concorrenza con quella prevalente svolta dalla società»).
In particolare, pur potendosi ritenere, in astratto, percorribile la soluzione positiva, è dubbio che una clausola statutaria possa spingersi fino al punto di sospendere in maniera generalizzata, a prescindere cioè dall'oggetto della singola delibera che il socio sia chiamato a votare, il diritto di voto altrimenti esercitabile senza limitazioni e ciò ove non constino categorie di azioni a voto limitato o con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative (così, esattamente F. Fanti, Brevi note in tema di voto scalare, sospensione del diritto di voto e riscatto di azioni, 226).
A questa conclusione si giunge anche evidenziando come la valutazione del conflitto deve essere necessariamente condotta in concreto e, dunque, con riferimento ad una singola deliberazione (ed al suo specifico contenuto) e non può essere portata ad un livello, per così dire, astratto.
Più agevole è, invece, riconoscere l'ammissibilità di clausole statutarie che impongano al socio di dichiarare in assemblea la propria situazione di conflitto o anche semplicemente la propria posizione di interesse personale nella deliberazione (al pari di quanto dispone l'art. 2391 c.c. per gli amministratori). In tali casi, la violazione dell'obbligo statutario da parte del socio, oltre a comportare l'annullabilità della deliberazione assunta, integrerebbe altresì un inadempimento ad un obbligo su di lui gravante: inadempimento dal quale potrebbero derivare tanto l'obbligazione di risarcire il danno cagionato, quanto la configurabilità di una giusta causa di revoca da cariche sociali eventualmente ricoperte (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 278).
Gli interessi in conflitto
Si ha conflitto di interessi allorquando il socio sia portatore di un interesse personale contrastante con quello della società e, più precisamente, quando il socio si trovi nella condizione di essere portatore di un duplice interesse, il primo derivante dalla sua condizione di socio e l'altro che trova la propria fonte all'esterno della società in una particolare condizione del socio. Data tale duplicità di situazioni, egli non può realizzare l'uno se non sacrificando l'altro interesse.
In altre parole, dovendo porsi l'interesse del socio in contrasto con quello della società, diviene irrilevante che la delibera approvata consenta al socio il conseguimento di un suo personale interesse, se, nel contempo, non risulti pregiudicato l'interesse sociale (Cass., 17 luglio 2007, n. 15950; Cass., 21 marzo 2000, n. 3312; Cass., 21 dicembre 1994, n. 11017). Non è, però, necessario che il socio sia destinato ad assumere la posizione di controparte contrattuale della società in una determinata operazione, essendo invece sufficiente che egli possa ricavare dalla delibera un vantaggio particolare (M.T. Cirenei, art. 2373,780 la quale precisa che l'interesse deve essere valutato con riferimento all'oggetto concreto ed al contenuto effettivo della deliberazione).
Il conflitto ricorre quando l'interesse di cui il socio è in concreto portatore si pone in contrasto o appare incompatibile con l'interesse della società e non solo con l'interesse di altri soci o gruppi di soci (Trib. Milano, 9 novembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, 967; Trib. Milano, 13 maggio 1999, in Soc., 2000, 75). Non è, dunque, sufficiente che il socio miri a realizzare, in tutto o in parte, il proprio interesse personale, occorrendo anche che tale interesse si ponga obiettivamente in contrasto con quello della società e che la deliberazione sia idonea a ledere quest'ultimo interesse (Cass., 11 dicembre 2000, n. 15599).
Secondo la dottrina (D. Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, 124; A. Bertolotti, Assemblea, 234), l'interesse del socio deve essere: a) obiettivo, non essendo sufficiente un semplice motivo; 2) preesistente alla deliberazione in quanto solo così è idoneo ad influenzare il procedimento deliberativo; 3) concreto ed atipico non essendo stato predeterminato dal legislatore; 4) anche non patrimoniale.
Non ha rilievo lo stato soggettivo del socio e, quindi, la sua consapevolezza di votare in una situazione di conflitto, essendo quest'ultimo rilevabile obiettivamente utilizzando i dati forniti dalla comune esperienza.
Sussiste una posizione di conflitto anche quando l'interesse che si ponga in contrasto con la società non faccia capo direttamente al socio, ma ad un terzo. In tale ultima ipotesi, però, occorre individuare indici precisi ed univoci in base ai quali possa affermarsi che il socio ha votato in funzione dell'interesse altrui, contrastante con l'interesse sociale. Ed è da ritenere quanto meno dubbio che, in difetto di altri e diversi elementi di giudizio, sia logicamente corretto individuare un indice significativo, in tal senso, nel mero fatto che il socio si trovi in rapporto di parentela con altro soggetto, estraneo alla società e con essa in conflitto d'interessi (così, Cass., 23 marzo 1996, n. 2562 in motivazione). Un caso di interesse di terzi è stato affrontato dalla giurisprudenza di merito, la quale ha statuito che il conflitto di interessi che vieta all'amministratore di votare nelle delibere concernenti la sua responsabilità è configurabile anche allorquando ad esprimere il voto sia una società cui le sue azioni sono fiduciariamente intestate (Trib. Reggio Emilia, 20 dicembre 2002, in Giur. it., 2003, 953).
L'altro polo degli «interessi in conflitto» riguarda l'interesse della società.
L'individuazione della nozione di interesse sociale ha molto interessato la dottrina divisa tra la teoria istituzionalistica e la teoria contrattualistica (per una esposizione dettagliata delle singole posizioni, cfr. D. Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, 8; P.G. Jaeger, L'interesse sociale rivisitato (quarant'anni dopo), 795 ss.; A. Bertolotti, Assemblea, 236 ss). In estrema sintesi, secondo la prima l'interesse sociale è l'interesse che si sovrappone e si distingue dall'interesse comune dei soci, coinvolgendo anche altri soggetti (creditori, dipendenti, utenti): esso è rivolto alla valorizzazione del capitale ed alla moltiplicazione della ricchezza e, in quanto tale, è superiore all'interesse dei soci ed è indisponibile da parte di questi ultimi, seppur con decisione presa all'unanimità.
Per contro, secondo la teoria contrattualistica, oggi nettamente maggioritaria, l'interesse sociale coincide con quello dei soci in quanto tali ed è da essi disponibile.
Non potendosi in questa sede addentrare in tematiche così vaste e limitando il discorso al tema qui in esame, può, in via del tutto generale, affermarsi che l'interesse sociale va identificato nell'interesse di gruppo e, quindi, nell'interesse comune dei soci attuali volto alla realizzazione degli scopi sociali e quindi della funzione associativa: esso, in tal modo, conserva una posizione logicamente prioritaria nella ricostruzione dell'istituto del conflitto del socio (Così, M.T. Cirenei, art. 2373,780). Peraltro, inquadrando il fenomeno azionario come operazione di investimento qualificato della partecipazione ad una determinata iniziativa imprenditoriale, l'interesse del socio alla massimizzazione del valore attuale delle azioni va contemperato con le esigenze di una efficiente gestione dell'impresa sociale (M.T. Cirenei, art. 2373,795).
In giurisprudenza si afferma che l'interesse sociale è l'insieme di quegli interessi comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale (ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote), il controllo della gestione dell'attività sociale, la distribuzione dell'utile, l'alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento (Cass., 17 luglio 2007, n. 15950; Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387). Tuttavia, il diritto di voto è funzionale all'interesse individuale del socio ed incontra il limite dell'interesse sociale solo quando possa danneggiare la società, fermo restando che la prospettiva di poter vendere le azioni non costituisce un elemento estraneo, rispetto alle scelte relative all'esercizio del diritto di voto in assemblea (Cass., 22 aprile 2013, n. 9680),
Si ha conflitto di interessi del socio rilevante quando vi è, di fatto, un conflitto tra un interesse non sociale - quindi un interesse che non è in alcun modo riconducibile al contratto di società - e uno qualsiasi degli interessi che sono riconducibili a tale contratto (Trib. Roma, 20 ottobre 2011, e Trib. Roma, 19 marzo 2013 entrambe in Banca Borsa, tit. cred., 2014, II, 590 con nota di E. La Marca, Alla ricerca dell'interesse della società al suo scioglimento tra conflitto di interessi e abuso di potere).
Il danno potenziale
Ai fini dell'annullamento della deliberazione non è sufficiente l'esistenza di un conflitto di interessi e la scelta del socio portatore dell'interesse extrasociale di partecipare alla votazione e, dunque, all'adozione della deliberazione medesima: l'art. 2373 c.c. richiede, infatti, oltre che quel voto sia stato determinate per l'ottenimento della maggioranza necessaria (di cui si dirà infra), la potenzialità dannosa della decisione.
Con riferimento a questo secondo requisito, che assurge a ruolo di elemento strutturale della fattispecie (M.T. Cirenei, L'art. 2373 c.c. e la “nuova” disciplina del conflitto di interessi del socio, 680), giova precisare che l'idoneità a danneggiare la società deve essere intesa in senso oggettivo e non va confusa con la circostanza che l'azionista, attraverso la partecipazione all'assunzione della deliberazione, realizzi o possa realizzare anche interessi egoistici suoi propri rispetto ai quali, però, l'interesse della società si riveli neutrale (Così, M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 272. In giurisprudenza, Cass., 17 luglio 2007, n. 15950).
Il danno deve risultare, ad un giudizio probabilistico e statistico, possibile, anche se futuro e, quindi, non ancora verificatosi (E. Civerra, L'assemblea dei soci nelle società di capitali, 163; F. Dardes, art. 2373, 949): in altre parole, è necessario e sufficiente che vi sia un ragionevole pericolo di pregiudizio, sull'esistenza del quale non rilevano, peraltro, eventi sopravvenuti che abbiano impedito il verificarsi del danno.
Inoltre, il danno rilevante ai fini della fattispecie ha ad oggetto non solo il patrimonio sociale, ma anche il valore globale delle partecipazioni societarie, perché altrimenti ne verrebbero menomati i diritti delle minoranze (D. Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, 132; G. Sciumbata, artt. 2372-2376, 111. Sul punto, in giurisprudenza, Trib. Roma, 8 febbraio 1988, in Soc., 1988, 707).
Deve, però, consistere in un danno patrimoniale (F. Dardes, art. 2373, 949; D. Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, 132) e può articolarsi nelle note categorie del danno emergente e del lucro cessante.
Peraltro, ai fini dell'accertamento del pregiudizio potenziale, la delibera deve essere valutata non di per sé sola (e, dunque in astratto), ma in connessione ai suoi effetti, anche potenziali, diretti o mediati sulla situazione esterna alla società e sui riflessi che la situazione modificata dalla delibera produce sulla società (Cass., 4 maggio 1991, n. 4927),
La prova di resistenza
Come già in precedenza accennato, l'annullamento della deliberazione per conflitto di interessi richiede, tra i suoi presupposti, il carattere determinante, ai fini dell'approvazione della medesima, del voto espresso dal socio in conflitto.
È opinione del tutto maggioritaria che il requisito in esame debba intendersi in maniera puramente aritmetica, non potendo darsi rilievo alla semplice influenza che il socio in conflitto possa avere esercitato sugli altri soci, pur non essendo il suo voto (matematicamente) determinante per l'approvazione della deliberazione vuoi perché egli si sia poi astenuto vuoi perché egli non dispone di tante azioni da essere determinante ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta (così, V. Meli, art. 2373, 1004; M.T. Cirenei, art. 2373,775; A. Gambino, art. 2373, 1629; M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 271). È rimasto, invece, del tutto minoritario in dottrina (e senza riscontri in giurisprudenza) l'indirizzo che considerava non del tutto priva di rilievo la situazione in cui un socio, celando la sua situazione di conflitto, sia capace di determinare, con adeguate suggestioni, il voto degli altri soci nel senso favorevole al suo interesse e contrario a quello sociale (A. Blandini, Conflitto di interessi e interessi degli amministratori di società per azioni: prime riflessioni, 412). In senso contrario, si è, infatti, osservato (G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, 1412) che, se l'obiettivo dei riformatori è stato quello di valorizzare la stabilità della delibera, appare del tutto incoerente ancorare la impugnabilità della stessa ad una valutazione complessa come quella legata al ruolo più o meno determinante assunto in concreto all'interno del processo formativo della volontà assembleare dal socio in conflitto di interessi con la società (in questo ultimo senso, anche, M.T. Cirenei, L'art. 2373 c.c. e la “nuova” disciplina del conflitto di interessi del socio, 685).
Anche la giurisprudenza di legittimità ha da sempre sposato l'orientamento maggioritario, evidenziando che l'annullamento della delibera assembleare che sia stata adottata in presenza di un conflitto d'interessi di un socio ex art. 2373 c.c. esige, in via preliminare, il carattere determinante del voto espresso, secondo la prova di resistenza; esclusa dunque dal calcolo della maggioranza di voto deliberativo la quota riferita al predetto socio, se residua una maggioranza di consensi superiore alla metà di quella necessaria per la validità della decisione, da calcolarsi sugli aventi diritto al voto, va negato il carattere determinate del voto del socio in conflitto (Cass., 12 luglio 2007, n. 15613, Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387).
Nella disciplina della società a responsabilità limitata, l'art. 2479 ter, comma 3, c.c., differentemente rispetto a quanto previsto in materia di società per azioni, richiede che determinante sia non già (solo) il «voto», ma la «partecipazione» che dunque sembrerebbe intervenire tanto sul quorum costitutivo che su quello deliberativo.
Secondo una parte della dottrina, il legislatore ha voluto prendere in considerazione (non solo il voto, ma) anche il comportamento del socio che, partecipando all'assemblea, consente il conseguimento del quorum costitutivo e, dunque, l'adozione della deliberazione a prescindere dal comportamento assunto in sede di voto (ad es., il socio potrebbe astenersi) (in questo senso, U. M. Carbonara, Procedimenti e patologie delle decisioni dei soci nella S.r.l., 168; D. Corrado, art. 2479 ter, 1077).
In senso contrario (G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, 1412; M.T. Cirenei, L'art. 2373 c.c. e la “nuova” disciplina del conflitto di interessi del socio, 685), si è osservato che, in tal modo, si creerebbe una disarmonia assolutamente priva di giustificazione con la società per azioni, tenuto conto che la differenza terminologica potrebbe essere del tutto casuale. Inoltre, difficilmente una decisione adottata, per ipotesi, grazie al voto maggioritario dei soli soci non in conflitto potrebbe considerarsi «assunta» con la partecipazione determinante del socio in conflitto in base alla sola circostanza che l'intervento di quest'ultimo in assemblea ha reso possibile la presenza della metà del capitale sociale richiesta dall'art. 2479 bis, comma 3, c.c., per la regolare costituzione dell'assemblea.
In giurisprudenza si segnala che la natura determinate del voto del socio in conflitto di interessi è fatto costitutivo del diritto fatto valere dall'attore (consistente nell'impugnativa delle decisioni sociali ex art. 2479 ter c.c.), talché la sua carenza è rilevabile anche d'ufficio dal giudice, non trattandosi di eccezione in senso stretto. La “prova di resistenza” va effettuata espungendo il voto ritenuto illegittimo non solo dal novero dei voti validi ma considerando come se il socio non avesse partecipato al voto, dunque escludendolo dal quorum deliberativo (Trib. Milano, 23 settembre 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it).
Il calcolo dei quorum
Originariamente, il terzo comma dell'art. 2373 c.c. – prevedendo che «le azioni per le quali, a norma di questo articolo, non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea» - taceva in ordine alla computabilità delle azioni in conflitto per il raggiungimento del quorum deliberativo. La giurisprudenza era, dunque, giunta a posizionarsi sulla soluzione negativa evidenziando che, in caso di conflitto di interessi, il computo del quorum deliberativo assembleare non si calcola in rapporto all'intero capitale sociale, bensì in relazione alla sola parte di capitale facente capo ai soci aventi diritto al voto, con esclusione della quota del socio titolare dell'interesse confliggente, quota della quale, invece, deve tenersi conto ai fini del quorum costitutivo (così, Cass., 12 luglio 2007, n. 15613; ma già Cass., 23 marzo 1996, n. 2562). La conclusione era, peraltro, giustificata sulla base della considerazione che una diversa soluzione avrebbe paralizzato ogni possibilità deliberativa dell'assemblea quando a trovarsi in conflitto fosse stato il socio titolare di una partecipazione di un qualche rilievo, giacché il congelamento del suo voto avrebbe finito per impedire la formazione di qualsiasi maggioranza deliberativa (V. Meli, art. 2373, 1005; M.T. Cirenei, art. 2373,765, nt. 38).
Oggi, a seguito della riforma del diritto societario, la disciplina dei quorum è stata trasposta nell'art. 2368, comma 3, c.c. a mente del quale, salvo diversa disposizione di legge, le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea; le medesime azioni e quelle per le quali il diritto di voto non è stato esercitato a seguito della dichiarazione del socio di astenersi per conflitto di interessi non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l'approvazione della deliberazione.
È stata, così, adottata una disciplina opposta a quella previgente: il voto espresso dal socio in conflitto di interessi deve essere computato ai fini tanto del quorum costitutivo quanto di quello deliberativo, con le eccezioni costituite dai casi in cui il soggetto portatore del conflitto abbia deliberatamente scelto di astenersi (V. Meli, art. 2373, 1005) ovvero in cui si ponga ai voti la deliberazione inerente la responsabilità di un socio-amministratore.
Il divieto di voto a carico degli amministratori in conflitto
Il secondo comma dell'art. 2373 c.c. pone, poi, il divieto di voto in due fattispecie tipizzate: gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità; i componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza.
La norma, che costituisce manifestazione del principio per cui nemo iudex in causa propria (A. Gambino, art. 2373, 1628), impedisce che gli amministratori partecipino alla formazione di una delibera avente ad oggetto l'apprezzamento della propria condotta. L'esistenza del conflitto, ritenuto in re ipsa in ragione del contenuto della deliberazione da adottare, incide sulla stessa legittimazione al voto, che non è soltanto limitato, ma del tutto inibito: nessuna rilevanza assume da un lato la decisività del voto e dall'altro il pericolo di danno per la società. Conseguentemente, il presidente dell'assemblea è tenuto ad accertare il difetto di legittimazione e ad escludere dal voto i soci non legittimati.
In tale modo, in ragione della gravità del conflitto che influisce sulla stessa gestione della società, il legislatore ha inteso attribuire alla minoranza il potere di decidere sull'azione di responsabilità (A. Gambino, art. 2373, 1629).
In tali casi, per il calcolo dei quorum dovrà applicarsi l'art. 2368 c.c.: le azioni del socio-amministratore in conflitto si computeranno solo nel quorum costitutivo e non in quello deliberativo (M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 273).
Si ritiene, poi, che il divieto di voto si estenda anche al caso in cui le azioni dell'amministratore siano state intestate fiduciariamente ad un terzo (Trib. Reggio Emilia, 20 dicembre 2002, in Giur. it., 2003, 953) ovvero al caso in cui nella deliberazione vi sia stato il voto contrario espresso dai soggetti contro cui l'azione risarcitoria viene proposta, sebbene abbiano ormai lasciato l'incarico o agiscano come procuratori di altro socio (Trib. Ancona, 7 marzo 2006, in Giur. it., 2007, 666).
Dovrebbe escludersi che la regola ora in esame possa applicarsi anche al caso di deliberazione di revoca degli amministratori. Infatti, salvo il caso in cui la revoca consegua automaticamente alla deliberazione di autorizzazione all'azione di responsabilità ai sensi dell'art. 2393, comma 5, c.c., nell'ipotesi di revoca non sembra predicabile un potere della minoranza di decidere sulla revoca stessa degli amministratori in carica.
Nei casi in cui l'azione riguardi la responsabilità di più soci-amministratori, è dubbio se debba essere posta ai voti separatamente la responsabilità di ciascun socio-amministratore, con la conseguenza che ciascuno di essi sarebbe obbligato ad astenersi esclusivamente in ordine alla deliberazione concernente la propria responsabilità potendo legittimamente votare in ordine alla responsabilità degli altri soci-amministratori, ovvero cumulativamente, con la conseguenza che tutti i soci-amministratori destinatari della futura azione sarebbero privi del diritto di voto. La prima soluzione, che si conforma al principio della responsabilità per fatto proprio e che ha trovato un importante avallo in una nota pronunzia arbitrale (Collegio arbitrale, 2 luglio 2009, in Giur. comm., 2010, II, 911), non convince in ragione tanto del carattere solidale della responsabilità degli amministratori soprattutto allorquando siano imputate agli amministratori condotte convergenti verso la causazione di un unico danno quanto della natura della deliberazione che autorizza l'esercizio dell'azione, ma non ne (pre)determina il contenuto essendo lecito che, in sede di proposizione l'azione di responsabilità, quest'ultima possa essere fondata anche su atti diversi da quelli specificamente esaminati dall'assemblea.
È, infine, dubbio che possa applicarsi alla società a responsabilità limitata la previsione del divieto di voto per i soci-amministratori in ordine alla deliberazione inerente alla propria responsabilità.
Va, in primo luogo, osservato che, nella società a responsabilità limitata, è discusso se l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità richieda necessariamente o meno la previa deliberazione societaria. Secondo una parte della dottrina, nel caso di azione proposta dalla società, sarebbe necessario un preventivo pronunciamento autorizzativo dei soci (sotto forma di deliberazione assembleare ovvero di decisione dei soci assunta mediante consultazione scritta ovvero sulla base del consenso espresso per iscritto), dal che deriverebbe la improcedibilità dell'azione proposta per conto della società dall'amministratore in difetto di tale deliberazione o decisione (G. Scognamiglio, L'azione sociale di responsabilità, 297; M.G. Paolucci, art. 2476, 504). In realtà appare preferibile la diversa tesi secondo la quale l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità rientra nella generale competenza degli amministratori, che si estende a tutti gli atti che non siano da norme legali o statutarie riservate ad i soci (G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, 1067; S. Serafini, Responsabilità degli amministratori e interessi protetti, 109, nt. 71; A. Angelillis - G. SAndrelli, art. 2476, 735; G. Salanitro, Profili sistematici della società a responsabilità limitata, 100). Depongono per una simile conclusione, oltre la evidenziata competenza generale degli amministratori, anche la duplice circostanza che nella disciplina della società a responsabilità limitata non è riprodotta una norma di contenuto analogo a quella prevista dall'art. 2393, comma 1, c.c. e che l'esercizio dell'azione sociale di responsabilità non rientra tra le materie riservate «in ogni caso», ai sensi dell'art. 2479, comma 2, c.c., alla competenza dei soci. Il medesimo contrasto si avverte in giurisprudenza. Infatti, a fronte di un orientamento secondo il quale non occorre una preventiva deliberazione assembleare (Trib. Roma, 19 ottobre 2015, in IlSocietario.it), è stata talvolta dichiarata improcedibilità dell'azione nel caso in cui non risulti essere mai stata né deliberata o comunque autorizzata dai soci (Trib. Milano, 13 gennaio 2005, in Giur. it., 2005, 523; Trib. Milano, 30 giugno 2008, in Giust. Milano, 2008, 53).
Tanto preliminarmente chiarito, appare certo che, anche a volere aderire all'orientamento secondo il quale la deliberazione autorizzativa all'esercizio dell'azione di responsabilità non è necessaria nella società a responsabilità limitata, la società possa autonomamente determinarsi rimettendo ai soci la relativa decisione.
In tal caso, appare preferibile l'opinione secondo la quale dalla disciplina dell'art. 2479 ter c.c. emerge una lacuna che è possibile colmare con il ricorso all'analogia (G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, 1414, secondo il quale l'art. 2373, comma 2, c.c. prevede una ipotesi tipizzata di conflitto di interessi e, dunque, non costituisce norma eccezionale rispetto alla logica sottesa alla disciplina di quest'ultimo; N. De Luca, Azioni di responsabilità e astensione per conflitto di interesse nelle s.r.l., 431. In senso contrario, M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 274) con conseguente applicazione dell'art. 2373 comma 2 c.c. che fa divieto ai soci amministratori di votare nelle deliberazioni riguardanti la propria responsabilità: il voto ugualmente espresso dall'amministratore socio sarà, dunque, invalido e, allorquando sia stato determinante per il raggiungimento della maggioranza, renderà la decisione impugnabile (ai sensi dell'art. 2377, comma 5, c.c. richiamato, per la società a responsabilità limitata, dall'art. 2479 ter c.c.), senza che occorra dimostrare la potenzialità lesiva della deliberazione per la società, da considerarsi in re ipsa.
Conseguentemente, il socio-amministratore in conflitto di interessi non ha facoltà di astenersi, non spettando allo stesso votare ex lege: consegue ulteriormente che, in applicazione analogica dell'art. 2373, comma 2 c.c. e dell'art. 2368, comma 3 c.c., la partecipazione del socio amministratore deve computarsi nel quorum costitutivo e scomputarsi da quello deliberativo.
La giurisprudenza di merito sembra, però, orientata diversamente. In un caso, l'impossibilità di applicare analogicamente alla società a responsabilità limitata il disposto di cui all'art. 2373, comma 2, c.c. è stata predicata sia in ragione della natura eccezionale della norma in argomento sia sull'assenza della aedem ratio, poiché la mancanza del divieto di voto, se nella società per azioni potrebbe influenzare negativamente la possibilità di raggiungere il quorum necessario per l'esercizio dell'azione di responsabilità, non può comportare le medesime conseguenze in un tipo sociale come la società a responsabilità limitata, dove l'art. 2476, comma 3, c.c. legittima ciascun socio ad esercitare la suddetta azione sociale di responsabilità (Trib. Verona, 9 marzo 2007, in Soc., 2007, 1368 con nota di M. Luchini, Il voto dell'amministratore di s.r.l. in conflitto di interessi). In altri casi, si è affermato che in materia di deliberazioni dell'assemblea di una società a responsabilità limitata, anche in caso di astensione volontaria di un socio per dichiarato conflitto di interesse, i voti allo stesso spettanti devono essere computati nel quorum deliberativo, in quanto il disposto dell'art. 2368, comma 3, c.c. non trova applicazione analogica alle S.r.l.; l'integrazione normativa per via di analogia con disposizioni dettate in materia di S.p.a. trova spazio solo là dove ciò sia necessitato dalla salvaguardia di esigenze di fondo dell'ordinamento ovvero di tutela dei terzi, come ad es. in materia di riconoscimento dell'azione dei creditori ex art. 2394 c.c. (Trib. Milano, 10 novembre 2017, in Soc.,2018, 427 con nota di N. De Luca, Azioni di responsabilità e astensione per conflitto di interesse nelle s.r.l.).
Casi particolari sottoposti all'attenzione della giurisprudenza. Scioglimento della società, compenso degli amministratori e aumento di capitale
La giurisprudenza ritiene non configurabile un conflitto di interessi tra socio e società con riferimento alla deliberazione di scioglimento anticipato della società. In particolare, si afferma che non è astrattamente configurabile un conflitto di interessi ex art. 2373 c.c. in riferimento ad una delibera di scioglimento anticipato della società, in quanto la situazione di conflitto rilevante ai fini del predetto articolo deve essere valutata con riferimento ad un eventuale contrasto tra l'interesse del socio e l'interesse sociale inteso come l'insieme degli interessi riconducibili al contratto di società, tra i quali non è ricompreso l'interesse della società alla prosecuzione della propria attività imprenditoriale, residuando tutto al più soltanto un conflitto pratico tra i vari soci, di per sé giuridicamente irrilevante (Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 20 ottobre 2011, e Trib. Roma, 19 marzo 2013 entrambe in Banca Borsa, tit. cred., 2014, II, 590 con nota di E. La Marca, Alla ricerca dell'interesse della società al suo scioglimento tra conflitto di interessi e abuso di potere; nonché, Trib. Milano 28 gennaio 1998, in Soc., 1998, 947, con nota di L. Picone, Conflitto di interessi ed abuso di potere nella delibera di scioglimento della società. Nel medesimo senso, Trib. Roma, 4 giugno 2014 in ilcaso.it).
La deliberazione di scioglimento anticipato della società sarà però impugnabile per abuso di maggioranza, ricorrendone i relativi presupposti (Cass., 12 dicembre 2005, n. 27387, cit.; in senso diverso, in dottrina, M. Libertini-A. Mirone-P.M. Sanfilippo, L'assemblea di società per azioni, 281 secondo i quali non può tuttavia escludersi che lo scioglimento possa dipendere da autonome scelte personali degli azionisti di maggioranza, che intendano procedere al disinvestimento pur in presenza di una attività florida: in tali casi, ove lo scioglimento arrechi di per sé un danno all'avviamento commerciale o sussistano ostacoli all'esercizio provvisorio dell'impresa durante la liquidazione, è da ritenere che la maggioranza debba percorrere preliminarmente ragionevoli alternative prima di determinarsi a deliberare lo scioglimento).
Un caso particolare di conflitto di interessi si ha, invece, in relazione alla deliberazione di determinazione del compenso in favore dell'amministratore che sia anche socio. In via generale, si afferma che non è annullabile per conflitto d'interessi la deliberazione determinativa del compenso dell'amministratore per il mero fatto che essa sia stata adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all'assemblea in veste di socio, se non ne risulti altresì pregiudicato l'interesse sociale. E lo stesso principio è stato applicato anche in un caso in cui la validità di una siffatta deliberazione era stata vagliata sotto il diverso profilo dell'eventuale vizio di eccesso di potere, ritenendosi comunque essenziale l'accertamento della sproporzione del compenso attribuito (Cass. 17 luglio 2007, n. 15942; Cass. 21 marzo 2000, n. 3312): in questa prospettiva, l'interesse dell'amministratore ad una congrua retribuzione per l'opera svolta può sicuramente contribuire a rendere armonicamente funzionale la prestazione di quell'attività al servizio e nel perseguimento dei fini sociali (Trib. Milano 29 giugno 1989, in Soc., 1989, 1285).
Più nel particolare, si afferma che il vizio della deliberazione determinativa del compenso ricorre quando essa è diretta al soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società, senza che risulti condizionante in sé - ai fini del conflitto di interessi ovvero anche dell'eccesso di potere - la decisività del voto da parte dell'amministratore (beneficiario dell'atto) che sia anche socio; ne consegue che la accertata irragionevolezza della misura del compenso (valutata in base al fatturato ed alla dimensione economica e finanziaria dell'impresa, da rapportare all'impegno chiesto per la sua gestione) può risultare anche quando la delibera attua un patto parasociale, in precedenza stipulato sotto forma di transazione fra i soci, compresi gli impugnanti soci di minoranza, che sono legittimati all'impugnazione in quanto dissenzienti e nonostante la partecipazione al predetto accordo (Cass., 3 dicembre 2008, n. 28748; Cass., 21 marzo 2000, n. 3312; Trib. Torino, 20 novembre 2018, n. 5384, in DeJure; Trib. Roma, 21 luglio 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 1 febbraio 2005, in Giur. it., 2005, 2110; App. Milano, 8 novembre 1996, in Soc., 1997, 547).
Infine, in giurisprudenza si è affermato che non sussiste alcun conflitto di interessi invalidante nella manifestazione di voto del socio di maggioranza ed amministratore unico della società avente ad oggetto la delibera di aumento del capitale sociale, operazione obiettivamente necessaria per far fronte alle conseguenze economiche derivanti da gravi reati di carattere ambientale e di inottemperanze amministrative a carico del medesimo socio-amministratore, comportamenti eventualmente fonte di responsabilità risarcitoria solo se accertati con idonea iniziativa processuale da parte dei soci di minoranza (Trib. Torino, 5 novembre 2015, in IlSocietario.it, 2016).
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Sommario
L'insussistenza di un divieto di voto e le clausole statutarie di obbligo di astensione.
Casi particolari sottoposti all'attenzione della giurisprudenza. Scioglimento della società, compenso degli amministratori e aumento di capitale