Lavori in corso sul processo civile: al peggio non c'è mai fine

Mauro Di Marzio
30 Luglio 2019

Se non vado errando il principale pregio del disegno di legge delega di cui mi accingo a parlare, per l'efficienza del processo civile, e concernente diversi altri gangli vitali del funzionamento della giustizia, dei quali invece non mi occuperò, sta in ciò, che — trattandosi appunto di delega, che come tale richiederà i decreti delegati — il progetto è bel lungi dal vedere la luce. E, come dirò, per fortuna. Ciò vuol dire che il lettore può, se crede, chiudere qui la sua lettura, e dedicarsi ad altri e più proficui impegni. Ma se il desiderio di tenersi informato dovesse essere irrefrenabile, allora ecco i punti essenziali di questo geniale progetto di intervento sul processo civile.
Ancora riduzione della durata del processo

Alla base, come si desume dalla relazione illustrativa al disegno di legge, c'è il solito tormentone: il processo dura troppo, e gli investitori internazionali non vengono da noi, guarda un po', proprio per questo: non perché abbiamo una legislazione farraginosa nella quale anche un Carnelutti faticherebbe a districarsi, non perché abbiamo una pressione fiscale con la quale solo un pazzo sceglierebbe il nostro Paese, non perché abbiamo un assortimento di criminalità organizzata che il mondo ci invidia; no, gli investitori si tengono alla larga perché il processo civile è inefficiente. Solo che il punto di partenza del ragionamento è ormai logoro, obsoleto e fallace, ed è impressionante come il Legislatore sappia così poco della materia su cui legifera.

Nella relazione si sciorinano dati statistici sulla durata media di alcune tipologie di processi civili. Ma sono dati aggregati, concernenti cioè l'intero territorio nazionale: ed invece qualunque avvocato che si rispetti e che abbia cause distribuite qua e là sa, io credo, che ci sono uffici giudiziari in cui i tempi della c.d. ragionevole durata sono di regola rispettati ed uffici giudiziari (per lo più nel sud) in cui invece sono costantemente violati. Ora, che senso ha sfasciare il processo civile — è questo quello che si vorrebbe fare con il generalizzare, come vedremo, il procedimento sommario di cognizione —, che so, ad Aosta, perché non funziona a Lamezia Terme? L'art. 31 del disegno di legge si dice, sorprendentemente, che il giudice deve definire il processo di primo grado in quattro anni: e ad Aosta, allora, che fanno, si specializzano nell'allungare il brodo, visto che da loro si sta sotto l'anno?

In realtà, quello dei processi troppo lunghi è un ritornello ormai troppe volte ripetuto, e che non risponde più se non in parte alla realtà delle cose: basti considerare che le cause complessivamente pendenti erano 4.597.480 nel 2003, e sono oggi 3.408.529, con una non indifferente diminuzione di circa un quarto: e questi, tengo a precisare, sono dati presi dal sito del Ministero della giustizia. Insomma, i molti interventi sul processo civile cumulatisi dal 1990 in poi hanno dato frutti, almeno sotto l'aspetto della durata, dei quali occorre tener conto. Dicevo: se non in parte. Ed in effetti un problema grave di durata c'è, e riguarda, come fatto sistemico (e cioè non determinato dalle locali disfunzioni degli uffici giudiziari), il giudizio di cassazione: del quale, però, il disegno di legge — grazie a Dio … — si disinteressa. Nulla neppure per gli uffici giudiziari disastrati, quelli che non funzionano, in cui sovente i problemi sono di uomini e mezzi: la politica rimane quella delle riforme a costo zero, come di desume dall'ultimo articolo del disegno di legge, probabilmente quello che conta di più, il quale, all'insegna del facciamo le nozze coi fichi secchi, stabilisce che: «Dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato».

Più negoziazione assistita, meno mediazione

L'art. 2 del disegno di legge apporta modifiche non esattamente rivoluzionarie all'ambito di applicazione della mediazione e della negoziazione assistita: per motivi misteriosi la prima si restringe un po', la seconda si allarga un po'. Niente più mediazione per colpa medica e sanitaria e per contratti finanziari, bancari e assicurativi, materie in cui la mediazione in effetti male non faceva, ma, chissà perché, sì alla mediazione d'ora in poi per mandato e rapporti di mediazione. La negoziazione assistita cade per la circolazione stradale, ma viene ammessa, con alcune cautele, nella materia del lavoro.

Nell'ambito della negoziazione assistita viene consentito agli avvocati di fare attività istruttoria (ivi compresa l'assunzione dell'interrogatorio formale: ed è davvero difficile immaginare la parte che confessi fatti a sé sfavorevoli all'avvocato proprio e a quello della controparte) che potrà poi essere utilizzabile nell'eventuale giudizio civile. Si chiede insomma agli avvocati di non fare gli avvocati, ma di svolgere un'attività, quella dell'ammissione e assunzione dei mezzi di prova, che è tipicamente giudiziale.

Non è, per la verità una grande novità: ricordo che, da giovane uditore del Tribunale di Roma, tanti anni fa, era prassi che le prove testimoniali le raccogliessero gli avvocati, appollaiati su qualche tavolo di risulta, se non su termosifoni e davanzali. Gli esiti non erano esattamente entusiasmanti: presenti i clienti, gli avvocati riempivano pagine e pagine di verbali, per lo più inutili, fitte di considerazioni giuridiche e di rilievi extravaganti, oltre che di resoconti dei battibecchi tra di loro. Migliorare la funzionalità del processo civile facendo fare agli avvocati il lavoro del giudice: ecco un'idea di sorprendente acutezza.

Bisogna dire ancora che la norma prevede un'elevazione del compenso agli avvocati che abbiano fatto l'istruttoria (anche se inutile?) di almeno il 30%: non mi è chiaro come la funzionalità del processo civile possa migliorare attraverso un simile tentativo di captatio benevolentiae del mondo forense.

La generalizzazione del sommario

Ma il clou è un altro. L'art. 3 prevede la generalizzata applicazione dinanzi al giudice monocratico (fatto salvo il rito del lavoro) del rito sommario di cognizione, che viene riveduto e corretto, in una prospettiva per di più giugulatoria, fatta di previsione di termini e controtermini ai limiti della paranoia: e — sembra incredibile — la soppressione pressocché totale del procedimento di cognizione ordinaria come noi lo conosciamo. Questo dovrebbe ridurre i tempi della giustizia civile perché il rito sommario dovrebbe durare meno di quello ordinario. Il che, lo dirò brutalmente, è una solenne sciocchezza sotto tutti i profili.

La giustizia civile, anzitutto, ha necessariamente una strettoia, e chiunque la pratichi lo sa: strettoia che è data dal numero dei provvedimenti decisori che il giudice può decorosamente scrivere, possibilmente dopo aver letto le carte.

Se domani mettete sul mio tavolo mille fascicoli pronti per sentenza, non avrete dopodomani mille sentenze (o ordinanze o decreti, e se li chiamate Mario o Peppino cambia poco: il tempo non si impiega a scrivere la decisione, ma a prenderla, ossia a studiare il caso), le avrete, se scrivo duecentocinquanta sentenze l'anno (cioè più o meno una sentenza al giorno, tolte ferie, feste comandate e giorni di udienza, in cui ovviamente sentenze non ne scrivo), dopo quattro anni. Sul piano pratico, dunque, le possibilità di successo della generalizzazione del sommario è pari a zero. Dico zero.

Sul piano dei principi, poi, il sommario generalizzato si riassume in una scelta tanto chiara quanto fuori bersaglio: quella dell'aumento dei poteri del giudice, che stabilisce a sua discrezione se, come e quando il processo deve dipanarsi. Ora, non c'è dubbio che il giudice una certa quantità di potere debba averla, altrimenti in processo non funziona: e tuttavia più aumentano i poteri del giudice, più scemano quelli delle parti. Ma, scusate, il processo civile non è un processo di parti? Un qualche spazio agli avvocati, certo e non rimesso all'elargizione del giudice, perché possano esercitare la loro funzione glielo vogliamo lasciare oppure no?

Cambia anche il modulo decisorio: tendenzialmente discussione orale e contestuale pronuncia di dispositivo e sentenza, o altrimenti assegnazione di un termine, lunghetto, per il deposito della decisione. L'idea è che i giudici debbano in tal modo lavorare di più: idea ormai totalmente priva di collegamento con la realtà, visto che i giudici italiani sono ampiamente i più produttivi d'Europa (fidatevi, e se non volete fidarvi consultate i rapporti CEPEJ agevolmente reperibili tramite internet). L'idea che i giudici debbano lavorare di più può venire solo a qualche giudice che abbia trovato il modo, beato lui, di lavorare poco. I giudici non devono lavorare di più, devono lavorare meglio. Tanto per dire, se doveste subire una qualche operazioncina chirurgica irrisoria, vi farebbe piacere sapere che al chirurgo si chiede di fare di più, sempre di più, nel più breve tempo possibile?

Riduzione della collegialità

L'art. 4 prevede una contrazione della riserva di collegialità a favore del giudizio monocratico. Un orrore, o, se volete, almeno un errore.

La sostanziale soppressione della collegialità, che risale alla riforma del ‘90, ha fatto del giudice di primo grado una monade poco incline a ragionare e a confrontarsi con gli altri, ma anzi in odore di onnipotenza, ed ha ineluttabilmente aumentato il rischio di decisioni strampalate, quelle che il collegio almeno tendenzialmente impedisce.

Volendo intervenire sull'efficienza del sistema — che, credo, vuol dire non soltanto fare presto, ma se possibile fare anche bene — la collegialità andava semmai in qualche misura ripristinata, non ulteriormente ridotta. E non è che i mezzi tecnici non ci fossero: sarebbe bastato ad esempio riattivare il reclamo al collegio sulle ordinanze che decidono sui mezzi istruttori, mezzi che oggi il giudice tende a non ammettere mai, visto che ciò che gli si chiede a gran voce è in primo luogo di fare presto.

Modifiche al giudizio d'appello

L'atto introduttivo, in armonia con la generalizzazione del sommario in primo grado, assume forma di ricorso e non più di citazione: ovviamente chi legge già sa che il ricorso incrementa, come dicevo,i poteri del giudice, il quale stabilisce quando fissare la comparizione delle parti: dopodiché si ha un bel pretendere che il giudice fissi l'udienza a breve, egli la fisserà quando potrà, ed i termini a carico del giudice, come chiunque sa, non contano nulla, sono necessariamente canzonatori.

L'altra novità che riguarda l'appello è la soppressione degli artt. 348-bis-ter c.p.c., ossia della dichiarazione di inammissibilità per mancanza di probabilità di accoglimento. Soluzione certo non facile a comprendersi da parte di un legislatore che dice di voler velocizzare. Ora, è vero che quelle norme sono state particolarmente sgradite al ceto forense ed hanno funzionato poco e male: il tutto per una ragione evidente, e cioè la pretesa che il giudice d'appello non facesse l'ordinanza ex art. 348-bis al posto della sentenza, ma in aggiunta alle altre sentenze già fissate: e dunque siamo alle solite, se il consigliere d'appello ha quattro cause fissate a sentenza ogni settimana, come ci si può aspettare che faccia anche delle ordinanze di dichiarazione di inammissibilità per mancanza di probabilità di accoglimento?

Ma abolire così e semplicemente la norma è una scelta senz'altro sbagliata. Gli ordinamenti europei, chi più, chi meno, prevedono tutti procedure semplificate da utilizzarsi per sgombrare il campo dagli appelli palesemente infondati. E del resto da noi c'è un procedimento semplificato che in Cassazione la fa da padrone: quello del «filtro» operato dalla sesta sezione. La soppressione dell'art. 348-bis-ter c.p.c. è eccentrica sia nel rapporto con gli altri ordinamenti, sia nel rapporto col giudizio di Cassazione.

Ulteriori novità

Vi sono poi altri interventi che riguardano il deposito di documenti, il contributo unificato, le notificazioni, il giudizio di scioglimento delle comunioni, il procedimento esecutivo. Rimarchevole è l'art. 11 del disegno di legge, «Doveri di collaborazione delle parti e dei terzi», che aggrava in prospettiva punitiva l'applicazione dell'art. 96 c.p.c. e prevede sanzioni pecuniarie nei casi di inottemperanza all'ordine di ispezione e di esibizione: anche qui soluzioni curiose, dalle quali emerge una eccentrica connotazione officiosa del giudizio civile, che mi ricorda gli illimitati poteri del giudice Dee degli splendidi romanzi di Robert van Gulik.

Solo che questa che ho raccontato non è la trama di un romanzo.

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