Il revirement della Cassazione sulla corrispondenza tra importo della condanna alle spese e compenso liquidato al difensore del non abbiente
14 Agosto 2019
Massima
In tema di patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, qualora risulti vittoriosa la parte ammessa al patrocinio erariale, il giudice, diversamente da quel che accade nel giudizio penale, non è tenuto a quantificare le somme, oggetto della condanna in favore dello Stato ex art. 133, d.P.R. n. 115/2002, in misura coincidente con quelle dovute dallo Stato al difensore del non abbiente, ai sensi degli artt. 82 e 130 del medesimo d.P.R., alla luce delle peculiarità che caratterizzano il sistema processualpenalistico di patrocinio a spese dello Stato e del fatto che, in caso contrario, si avrebbe una sostanziale disapplicazione del summenzionato art. 130. Il caso
Un avvocato propone ricorso per cassazione avverso l'ordinanza con la quale il Tribunale competente ha rigettato l'opposizione da lui proposta, ex artt. 170 d.P.R. n. 115/2002 e 15 d.lgs. n. 151/2011, contro il decreto con il quale gli era stato liquidato il compenso per l'assistenza difensiva prestata, davanti a quell'ufficio, in favore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato in misura pari alla metà della somma alla quale era stata condannata nel processo la parte soccombente. La Suprema Corte rigetta il ricorso, con riguardo alla predetta doglianza, affermando il principio di cui alla massima sopra riportata. La questione
La Suprema Corte torna ad occuparsi della questione, quanto mai controversa a livello giurisprudenziale, se nel processo civile con parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, qualora quest'ultima risulti vittoriosa, la somma liquidata al difensore della parte non abbiente debba coincidere con quella oggetto della condanna ai sensi dell'art. 91 c.p.c., da adottarsi necessariamente in favore dello Stato ai sensi dell'art. 133, d.P.R. n. 115/2002. Il dubbio nasce dal testo dell'art. 130 del d.P.R. n. 115/2002, che prevede che il compenso dell'avvocato della parte ammessa al patrocinio erariale, al pari di quello del suo ctp e del c.t.u., vada dimezzato (la regola non vale invece per le spese vive, come si desume anche dalla sentenza in commento che sul punto ha accolto il ricorso dell'avvocato). Le soluzioni giuridiche
Finora la giurisprudenza di legittimità aveva dato risposta affermativa all'interrogativo. La prima volta lo aveva fatto una pronuncia della Cassazione penale (Cass. pen., sez. VI, 8 novembre 2011,n. 46537) che aveva affermato che, in caso di condanna dell'imputato alla rifusione integrale delle spese legali sostenute dalla parte civile, ammessa al beneficio del patrocinio a spese pubbliche, la somma che lo stesso deve rifondere allo Stato deve coincidere con quella che viene liquidata al difensore cosicchè anche la prima andrebbe comunque dimezzata. La ragione di tale coincidenza era stata ravvisata nell'esigenza di evitare un indebito arricchimento dello Stato ai danni dell'imputato. La Corte costituzionale, aveva avallato tale indicazione poiché, sulla base di essa, nella ordinanza 28 novembre 2012 n. 210, aveva escluso, inverso solo in un obiter dictum, che la condanna alle spese nei confronti della parte non ammessa al patrocinio possa comportare una iniusta locupletatio dell'erario. Più recentemente un paio di pronunce della Cassazione civile avevano esteso le predette conclusioni anche all'ipotesi qui in esame, senza però interrogarsi sulla assimilabilità della posizione della parte non abbiente vittoriosa nel giudizio civile con quella della parte civile, che si trovi nella medesima situazione nel giudizio penale (Cass. civ., sez. VI, 16 settembre 2016, n.18167; Cass. civ., 21 settembre 2017, n. 21611). Da tale indirizzo si discosta però ora la decisionein commento che obietta come la predetta ricostruzione non sia estensibile alle pronunce di condanna che siano adottate all'esito di un giudizio civile per una serie di ragioni. Innanzitutto nessuna delle norme del d.P.R. prevede la corrispondenza tra somma oggetto di condanna ai sensi dell'art. 91 c.p.c. e importo oggetto di liquidazione in favore del difensore del non abbiente e nemmeno che la prima debba essere dimezzata. Ancora, secondo la Suprema Corte, la soluzione ora criticata, mirando ad evitare l'arricchimento dello Stato, finirebbe per avvantaggiare la parte soccombente che vedrebbe ridotta l'entità della condanna per il solo fatto che la propria controparte è stata ammessa al patrocinio pubblico. Infine la decisione commentata contesta che siffatta costruzione possa dar luogo ad un arricchimento dello Stato, poiché, osserva la Cassazione, «la circostanza che nella singola causa lo Stato possa incassare più di quanto liquida al singolo difensore compensa le situazioni in cui lo Stato non recupera quanto versa in favore dei difensori e contribuisce al funzionamento del sistema del gratuito patrocinio nella sua globalità». Sul punto è opportuno segnalare che, proprio sulla base di questo rilievo il C.N.F. con circolare del 15 luglio 2002 (leggibile in www.avvocatisanremo.it) aveva evidenziato come lo Stato potrebbe incassare, in sede di recupero, somme maggiori rispetto a quelle erogate al difensore della parte ammessa e tale maggiore introito sarebbe giustificato solo se quelle somme venissero reinvestite per finanziare l'istituto (questo limite invero non sussiste poiché fa dipendere la risposta all'interrogativo posto da una circostanza non solo eventuale ma anche non verificabile). Osservazioni
Alle più che condivisibili considerazioni che si leggono nella sentenza in commento se ne possono aggiungere altre a conforto della soluzione a cui la stessa perviene. Innanzitutto occorre tener presente che, anche a voler considerare l'esigenza di evitare l'arricchimento dello Stato, questo non si potrebbe verificare fino a quando esso non incassasse effettivamente dalla parte soccombente la somma liquidata con la sentenza di condanna e dovrebbe poi comunque tenersi conto delle spese sostenute per l'eventuale recupero. Inoltre non va trascurato che spesso è impossibile avere corrispondenza tra l'importo liquidato al difensore della parte non abbiente e quello delle spese processuali, anche a prescindere dalla applicazione o meno della dimidiazione, giacchè la liquidazione della somma dovuta dalla parte soccombente avviene sulla base di criteri in parte diversi da quelli che sovrintendono alla liquidazione del compenso spettante al difensore nei confronti del suo assistito (così Trib. Verona, 26 gennaio 2016). Infatti, ai sensi dell'art. 5, comma 1, terzo periodo, d.m. n. 55/2014, nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, il valore della controversia «…è determinato a norma del codice di procedura civile» e «Nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, si ha riguardo di norma alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata», mentre nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo «…al valore corrispondente all'entità della domanda» (art. 5, comma 2, d.m. n. 55/2014). Sul punto è opportuno richiamare Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2016, n.10876, che ha evidenziato come il valore della controversia, ai fini della individuazione dello scaglione di tariffa applicabile nella quantificazione del compenso dell'avvocato della parte ammessa al patrocinio, si determina dal tenore della domanda (c.d. disputatum,) e, al contempo, ha rammentato come un correttivo ad esso si rinvenga nella previsione (art. 6, comma 2 della tariffa forense abrogata) secondo la quale «può aversi riguardo al valore della controversia quanto esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile» (contra Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2019, n. 7560, che ha invece ritenuto corretta una liquidazione del compenso sulla base della somma liquidata in sentenza a favore della parte non abbiente, a titolo di risarcimento danni, anziché di quella richiesta). Alla luce delle superiori considerazioni è inevitabile che, al termine del processo, la liquidazione delle spese a carico del soccombente, anche qualora si tratti della parte ammessa, e quella ai sensi degli artt. 82 e 130 d.P.R. n. 115/2002 divergano tra loro anche in maniera significativa e anche a sfavore dello Stato ma questa difformità è una conseguenza diretta della scelta compiuta dal legislatore. Per chiarire ancor meglio quanto si va dicendo detto è opportuno fare un esempio. Una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato agisce per ottenere il pagamento della somma di euro 60.000,00. All'esito del giudizio la domanda viene accolta per l'importo di euro 20.00,00. Il giudice, ai sensi dell'art.133 d.P.R. n. 115/2002, condanna la parte soccombente alla rifusione in favore dello Stato della somma di euro 4.835,00, calcolata facendo riferimento ai valori medi di liquidazione previsti dal d.m. 55/2014 per le cause di valore compreso tra euro 5.200,01 ed euro 26.000,00 e senza dimidiazione. Al difensore della parte non abbiente può essere invece liquidato un compenso di euro 6.715,00, sulla base dei valori medi di liquidazione previsti dal suddetto decreto per le cause di valore compreso tra euro 52.001,00 ed euro 260.000,00 e con la dimidiazione. Si vede quindi da questo esempio come non vi sia nemmeno nessuna locupletazione dello Stato che anzi si trova a sborsare più di quanto potrebbe ottenere dalla parte soccombente. Non si vede allora per quale ragione in tutti gli altri casi, a cominciare da quello del rigetto della domanda di condanna proposta dalla parte abbiente, la somma liquidata a titolo di spese legali a favore dello Stato debba essere dimidiata per renderla corrispondente a quella liquidata al difensore della parte ammessa (in tal caso il valore da assumere a riferimento per entrambe le liquidazioni è quello del disputatum). In questi casi lo Stato beneficerà di una somma maggiore di quella che deve corrispondere al difensore della parte ammessa al beneficio a compensazione delle altre ipotesi, sopra citate. |